Venerdi 15 Aprile, nell’ambito dei Seminari concernenti la recentissima riforma della Pubblica Amministrazione organizzati dalla LUISS – School of Government, si è tenuto presso la LUISS Guido Carli di Viale Romania un incontro vertente sull’attualissimo tema della “responsabilità disciplinare dei dipendenti pubblici e la lotta all’assenteismo”. Relatori il Prof. Avv. Luigi Fiorillo, ordinario di diritto del Lavoro presso l’Università di Napoli “Federico II” e presso la LUISS stessa, nonché nell’ambito del Master in “Management e politiche delle pubbliche amministrazioni” titolare del modulo di insegnamento sul lavoro pubblico, e l’Avv. Anna Buttafoco, senior partner dello studio legale Fiorillo & Associati, collaboratrice della cattedra di diritto del Lavoro del Prof. Fiorillo.
Il Prof. Fiorillo sottolinea, nella fase di presentazione della sua relazione, come il titolo stesso del suo insegnamento alla LUISS, “diritto del pubblico impiego”, appaia del tutto adeguato, alla luce delle novità legislative in tema di responsabilità disciplinare, a fotografare la mutata situazione del rapporto di impiego nelle pubbliche amministrazioni; emerge cioè, inesorabile, un nuovo diritto pubblico a governare i pubblici dipendenti.
Il lavoro pubblico contrattualizzato nato nel 1992 con politica pubblica specifica ha fatto trasvolare la materia dai manuali di diritto pubblico e di diritto amministrativo a quelli di diritto del lavoro, mediante una idea di base di (sostanziale) parificazione tra diritto del lavoro pubblico e quello privato; l’idea cioè era quella di ritenere che il lavoro subordinato, a prescindere da chi fosse in concreto il datore di lavoro, dovesse avere una disciplina normativa omogenea.
Questa operazione è riuscita in ambito formale, cioè sotto il punto di vista delle fonti; abbiamo quindi un lavoro pubblico contrattualizzato regolato dal contratto collettivo di lavoro, dal contratto individuale, dal diritto civile, dalle leggi che disciplinano le stesse materie del lavoro privato, residuando la normazione di diritto amministrativo per quei settori non contrattualizzati, ove la connessione tra prestazione lavorativa e funzioni sovrane è più spiccata. La regolamentazione del pubblico impiego non contrattualizzato si basa sull’atto, non sul contratto.
Fiorillo ripercorre quindi gli annunci di riforma della pubblica amministrazione che si sono susseguiti dalla fine del secondo conflitto mondiale, in un paese come il nostro che è notoriamente conservatore e che invece, a parole, in questo tema sembrava voler dare prova di spiccato riformismo.
Il lavoro pubblico è da sempre contraddistinto dalla idea che il pubblico dipendente sia apparato servente del potere esecutivo, e quindi della politica. Per questo la dinamica contrattuale, che è tipologicamente di conflitto, veniva vista con sfavore e dubbio. L’articolo 97 della Costituzione come noto sancisce il principio fondante secondo cui l’organizzazione dei pubblici uffici avviene secondo disposizioni di legge, mentre al contrario nel lavoro privato vi sono il contratto e disposizioni organizzative datoriali a regolare l’assetto morfologico della prestazione e della cornice entro cui essa si pone. Nel lavoro pubblico tutto avviene invece nell’ambito del controllo parlamentare, cioè il Parlamento opera disciplina e controllo.
Cosa accade poi? Come nascono contratto individuale e collettivo anche nel pubblico impiego, a dispetto di quanto asserito fino ad ora?
L’esercizio delle deleghe legislative nel 1992 mira a soddisfare il precetto costituzionale, poiché vengono stabiliti dei principii e poi degli atti legislativi che attuano quei principii. Si è ritenuto che fosse rispettoso del precetto costituzionale un modello attraverso cui la legge stabilisca i principii, demandando poi al contratto, al potere unilaterale del datore di lavoro la disciplina minuta del rapporto.
Questo però implica comunque un controllo del Legislatore. Le prime deleghe, i primi tentativi di privatizzazione o se si preferisce di contrattualizzazione determinano l’insorgere di spaccature e differenze anche radicali (si pensi a quanto avvenuto in tema di dirigenza pubblica).
La dirigenza di seconda fascia, in un primo momento, risultava contrattualizzata, quella di prima fascia era al contrario squisitamente pubblica: poi la seconda fase di privatizzazione, a metà degli anni novanta, ha importato una osmosi e un perfezionamento tra lavoro pubblico e lavoro privato.
Si è avviato un processo inverso, con la terza riforma, che ha imposto la caratteristica di una maggiore legificazione della materia. Facendo risultare un sistema, con la riforma Brunetta, organico e minutissimo di controllo sugli atti, con una deriva schiettamente pan-pubblicistica; è il legislatore onnipotente che ambisce a normare qualunque aspetto, in violazione per altro dei cardini assiologici del diritto del lavoro che è diritto di autonomia negoziale. Ciò è tanto più vero se si considera il procedimento disciplinare, materia tipicamente riservata alla contrattazione collettiva, riservata alla sensibilità delle parti, con alcune norme pesantissime che comunque poi si piegano davanti alla loro stessa ineffettività.
Se consideriamo, ci dice il professor Fiorillo, l’articolo 2106 del codice civile, declinato nel rapporto di lavoro privato, vediamo come la sanzione debba essere proporzionata alla infrazione: un secondo articolo, il 7 dello Statuto dei Lavoratori, impone una stringente proceduralizzazione per irrogare la sanzione, dettata a difesa del lavoratore, mediante la previsione dell’obbligo di contestazione dell’addebito, la enunciazione del diritto di difesa del lavoratore incolpato, i termini di apertura e conclusione del procedimento, la presentazione di giustificazioni, conclusione dopo procedura conciliativa interna o eventuale ricorso alla magistratura.
La gradualità delle sanzioni è connessa alle sanzioni conservative, e nulla si dice in tema di licenziamento; il motivo è presto detto, perché anche in questo ambito la materia è normata dall’articolo 2119 cc, che ci dice che il lavoratore perde il posto quando vi è un fatto tanto grave da ledere il rapporto fiduciario, si tratta cioè di una clausola generale che non necessita di specificazione. Vi sono ipotesi a tutela, come quella della lavoratrice madre durante la maternità, ma si tratta di spot; non vi è un vero bisogno di specificazione, perché vi sono il contratto collettivo o i regolamenti di azienda con cui il datore prevede i casi tipologici.
Nel pubblico impiego invece il potere politico tende a voler normare anche gli aspetti più minuti della disciplina per una sostanziale sfiducia nei confronti dei dirigenti, a cui come noto il potere disciplinare compete: leggendo queste norme ci si rende conto di un controllo capillare, ossessivo, giocato lungo tempi, vincoli, procedure.
Abnorme è poi la previsione della obbligatorietà disciplinare, che rappresenta la mortificazione ontologica della libertà del dirigente; si tratta per altro anche di una previsione in certo senso anti-storica se si considera che nel diritto penale si discute se sia il caso di abrogare l’esercizio obbligatorio dell’azione penale, mentre nel procedimento disciplinare (del pubblico impiego) emerge inesorabile questo obbligo. E’ una sfiducia generalizzata contro la pubblica amministrazione, ed in particolare contro la classe dirigente.
Vi è una legge, il decreto legislativo 165/01, che è norma generale del pubblico impiego contrattualizzato, su cui la riforma Madia va ad incidere al fine di una razionalizzazione della disciplina; impropriamente si suole parlare del d. lgs. 165 come di un testo unico, nonostante in tutta evidenza non lo sia, il testo unico è una raccolta formale che contiene tutte le norme di una data materia, ad esempio il TUEL. Il d. lgs. 165 è un decreto attuativo di varie deleghe mirante a raccogliere i principii generali per impostare una materia che involge varie amministrazioni, quelle ministeriali, quelle degli enti territoriali, gli enti pubblici non economici e via discorrendo.
Altra norma su cui l’interprete deve necessariamente focalizzare la propria attenzione è l’articolo 55-bis del d. lgs. 165/01, che contiene una puntuale regolazione della materia disciplinare e che individua le fasi e le parti in cui si articola il procedimento disciplinare. E’ una macro-norma che contiene tutti i criteri generali per far sì che il datore di lavoro pubblico si attenga ad essi quando avvia un procedimento disciplinare. Ratio della norma è ovviamente la garanzia, perché più si procedimentalizza più si evita l’arbitrio. E’ situazione delicata, poiché la sanzione disciplinare nel diritto civile costituisce una eccezione suprema; la potestà punitiva come noto pertiene al potere pubblico, la irrogazione di sanzioni disciplinari è al contrario esempio di pena privata, e come tale essa deve essere presidiata da garanzie stringenti al fine di elidere in radice ipotesi di discrezionalità eccessiva.
La riforma del 2009 opera in maniera pesante sul procedimento disciplinare; la motivazione stringente dell’intervento novellatore di Brunetta sembra originare da una marcata già accennata sfiducia nei confronti dei dirigenti, proprio nella loro qualità di capi e gestori del personale. Si tratta di un legislatore che non si fida nemmeno del sindacato, della sua attività di confronto e di partecipazione alle scelte del datore di lavoro, ed allora assegna un ruolo preminente alla legge. Il primo passaggio deve quindi essere un intervento diretto sulla contrattazione collettiva, poiché la contrattazione è sintomo evidente ,per la sua stessa natura, di libertà.
La contrattazione collettiva nel privato ha competenza esclusiva per la irrogazione delle sanzioni disciplinari e più in generale per la materia disciplinare, nel pubblico c’è una normativa che finisce per modellare un sistema in cui a prevalere è ovviamente la legge, mediante una dequotazione della libertà contrattuale e del potere stesso della contrattazione. Da una parte si pone sotto controllo la contrattazione, e in altro caso la legge si assegna un nuovo ruolo, superando in certa misura l’articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori per come era applicato al pubblico impiego: il nuovo articolo 55 del d. lgs. 165/01 non opera alcun rinvio all’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori, ma ingenera un nuovo articolo, il 55-bis riducendo a questo la stella polare del procedimento disciplinare del pubblico impiego.
C’è anche da sottolineare, continua Fiorillo, come il mondo del lavoro sia stato nel 2015 squassato da autentici movimenti tellurici, importati dalla riforma del Jobs Act: questa normativa ha sin da subito portato dottrina e giurisprudenza alla riflessione sulla sua eventuale applicabilità alle pubbliche amministrazioni. L’idea generale è che esso non trovi applicazione diretta al pubblico impiego, e per questo la riforma Madia dovrà esplicare una opera di cesellamento e definizione di quali parti e di quali istituti del Jobs Act possano applicarsi al lavoro pubblico: si tratta di una opera certo impegnativa ma affascinante e necessitata.
Un aspetto su cui è fondamentale soffermarsi è la rilevanza metodologica dell’interpretazione dell’articolo 2106 cc, che prevede la proporzionalità tra addebito e sanzione effettivamente irrogata; l’applicazione dell’articolo è importante perché sancisce, sia pure con peculiarità, in chiave metodologica la matrice squisitamente civilistica del procedimento disciplinare, sottraendolo a derive pubblicistiche o addirittura pan-penalistiche.
Fiorillo quindi si sofferma nell’enucleare i tratti salienti della riforma: imperatività delle norme, originata dal bisogno del legislatore di specificare tassativamente comandi e comportamenti. La costruzione attuale del lavoro pubblico è comunque in grado di punire le varie forme di inadempimento contrattuale, ne presenta cioè tutti lo strumentario. In presenza di un contratto collettivo, di un regolamento contrattuale che risulta essere in contrasto con norme imperative si determina la sostituzione automatica delle clausole difformi con il precetto legislativo e con gli strumenti previsti dal legislatore, ciò in teoria determinerebbe persino la conseguenza di non doversi rivolgere ad un giudice (articolo 1 comma 1 d. lgs. 165/01).
Qui si deroga sensibilmente al principio di miglior favore, sancito dall’articolo 2077 cc a mente del quale le clausole del contratto individuale si applicano rispetto a quelle del contratto collettivo se risultano avere una portata in melius per il lavoratore, e come noto l’articolo 2077 non si applica al lavoro pubblico: la ratio sottesa a questa sensibile disapplicazione origina, nel pubblico impiego, per interpretazione univoca di dottrina e giurisprudenza, dalla considerazione che il posizionamento di una norma imperativa, tipologicamente ascrivibile ad un potere pubblico, prevale per sua forza su qualunque assetto negoziale o regolamentare, come l’assetto organizzativo interno di un Ministero. Esempio paradigmatico è l’attuale articolo 40 del d.lgs. 165, prima norma che disciplina minutamente il modo in cui si stipulano i contratti del pubblico impiego: l’originaria formulazione era decisamente più generica e meno imperativa, demandando poi alla specificazione del contratto collettivo la concreta disciplina. La riforma Brunetta ha voluto tarare e caricare di una valenza decisamente più pubblicistica la matrice della contrattazione collettiva, prevedendo che la stessa intervenga quando e se non in contrasto con norme imperative di legge. Si tratta di una scoperta negazione dell’autonomia contrattuale.
La sfiducia del Parlamento nei confronti della dirigenza determina come pendant l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione disciplinare: è un principio anti-gestione delle risorse umane, il quale sottrae alla sensibilità datoriale la possibilità (o meno) di esercizio.
Fiorillo si augura che il Governo possa rivisitare le linee guida portanti di questo impianto così fortemente derogatorio dei lineamenti del diritto del lavoro, anche se le prime avvisaglie non appaiono del tutto confortanti, sotto questo aspetto.
Altri momenti caratterizzanti del procedimento disciplinare sono naturalmente il codice disciplinare e il codice di comportamento; il codice disciplinare è l’insieme delle regole di condotta che il prestatore di lavoro è tenuto ad osservare e la cui violazione determina l’insorgere di una responsabilità scaturente poi in sanzioni predeterminate e tipizzate. Nel lavoro privato la regola è che se il codice non è affisso in luogo aperto a tutti i dipendenti, non si può procedere e l’eventuale sanzione è inficiata da nullità. Il codice disciplinare non è esaustivo ma esemplificativo.
Nel pubblico impiego legge e contratto, in combinato, prevedono con gradualità le varie sanzioni (la multa, la sospensione, la indicazione della durata delle sospensione, e via dicendo): si tratta di una precisa scelta di politica del diritto che venne fatta nel 2009 atta a determinare a monte la cornice assiologica e la determinazione del genus delle sanzioni, lasciando poi a valle, nella contrattazione, la enucleazione delle condotte rilevanti a fini disciplinari.
Il codice di comportamento ha una serie di funzioni etiche; certamente la funzione etica non riesce a contrastare i fenomeni di corruttela, che sono ben noti e purtroppo devastanti in seno alle amministrazioni, ma ha una valenza comunque importante, poiché il legislatore ha voluto affiancare a delle classiche mancanze configurabili come inadempimenti contrattuali dei comportamenti che possono anche non sfociare in sanzioni ma a cui comunque ci si deve attenere e che possono essere qualificati come obblighi di correttezza.
L’attuale codice è sussunto in decreto del presidente della Repubblica (specificamente, il DPR 62/2013), ovvero un atto regolamentare governativo, di normazione secondaria, a rimandare la natura squisitamente pubblicistica; si applica come tale a tutte le amministrazioni.
Le regole contenute possono essere specificate dalle singole amministrazioni: il codice di comportamento deve proporre i criteri di rafforzamento della imparzialità della funzione amministrativa secondo quanto dettato dalla Costituzione, a monte della quale il Parlamento deve vigilare e controllare sulla organizzazione degli uffici pubblici. La violazione rileva a fini disciplinari nel rispetto delle norme generali, ovvero se il comportamento non consono integra anche una violazione disciplinare (anche nel settore privato esistono fattispecie analoghe, si pensi a responsabilità sociale delle imprese, condotte etiche, che fungono da cardine per raggiungere determinati obiettivi socialmente consapevoli).
L’esame della normativa passa alle caratteristiche specifiche procedurali: l’iter descrittivo si caratterizza per i termini perentori e si differenzia a seconda della gravità della condotta posta in essere. Si enucleano le modalità per procedere e si sottolinea come il mancato rispetto della forma rischia di inficiare l’atto in sé; si pensi ai venti giorni per dare avvio al procedimento, termine che se non rispettato porta alla decadenza della potestà punitiva.
I venti giorni pressano, costringono il dirigente pubblico, o comunque il titolare del potere disciplinare, ad esercitarlo.
La morfologia del procedimento consta di contestazione scritta, convocazione con audizione, assistenza di procuratore o delegato sindacale, possibilità di fornire memoria scritta, motivata istanza scritta di rinvio per grave impedimento, definizione del procedimento in sessanta o centoventi giorni. La violazione dei termini determina la decadenza, per l’amministrazione, dal potere di punire o per il dipendente incolpato di esperire la propria difesa.
Nella PA, osserva Fiorillo, il dirigente è equiparato ad un medio impiegato, si deve rigidamente attenere alle previsioni normative, è privato cioè di un potere ad apprezzamento discrezionale.
C’è stata una significativa involuzione nella normazione concernente la stessa dirigenza, e del suo ruolo: rispetto alla pionieristica opera portata avanti da Massimo D’Antona. Si è trattato, in riferimento all’opera di D’Antona, di una riforma che ha dato grande autonomia alla dirigenza, al sindacato, alla autonomia contrattuale, ma volendo tracciare oggi un bilancio si può dire che nessuno di questi soggetti abbia dimostrato di meritare l’autonomia concessa. Il legislatore è quindi intervenuto con forza avendo preso atto di gravi disfunzioni gestionali verificatesi nel corso degli anni.
Il diritto del lavoro è diritto di poche norme, ampia contrattazione, possibilmente di livello aziendale poiché deve riflettere le esigenze e le problematiche specifiche della singola realtà, e dalla sensibilità del dirigente-manager.
Per i procedimenti più gravi, si danno ovviamente termini più ampi; poiché la necessità istruttoria è più difficoltosa. Al fine di velocizzare l’istruttoria, si sono previsti adempimenti più snelli, ad esempio le notificazioni per mezzo della posta elettronica certificata dell’addebito e della contestazione, il diritto di accesso agli atti, la possibilità di ottenere da altre amministrazioni documenti rilevanti, la sottoposizione a procedimento di chi non collabora o addirittura rifiuta la collaborazione.
Una peculiarità del procedimento disciplinare è che su di esso non incidono elementi e fenomeni tali da farlo arrestare, quali ad esempio le dimissioni, o il trasferimento ad altra amministrazione, si può dire scherzosamente, nota Fiorillo, che solo la morte libera il dipendente dall’addebito disciplinare, almeno per le potenziali sanzioni più gravi o laddove sia stata disposta la sospensione cautelare. Vengono disposte, ovviamente, interruzioni dei termini.
Queste leggi, già esistenti, finiscono per essere inutili se non vengono applicate, tanto che se consideriamo il numero dei procedimenti ci accorgiamo di quanto esso sia esiguo.
Importante è sottolineare come il legislatore abbia previsto che il mancato esercizio della potestà disciplinare o l’archiviazione infondata, cioè non adeguatamente motivata, configurino essi stessa una precisa responsabilità, ed assai pesante, per il detentore della responsabilità disciplinare; si può dire che si tratta di sanzioni gravissime, quasi offensive per il dirigente, perché lo privano del tutto della discrezionalità nell’esercizio delle sue funzioni e lo colpiscono con privazione della retribuzione di risultato e/o con la sospensione dal servizio.
Fiorillo passa quindi a delineare i mai del tutto pacifici rapporti intercorrenti tra procedimento penale e procedimento disciplinare: regola vuole che il procedimento penale abbia una sua strada e quello disciplinare un altro, la notitia criminis ovviamente determina anche l’insorgere di un procedimento disciplinare: ma la connessione tra i due è sfumata, non meccanicistica, l’istruttoria disciplinare non può e non deve essere meramente appiattita sul giudizio penale.
A questo punto interviene l’avvocato Buttafoco, facendo rilevare come, nella concreta casistica dei procedimenti disciplinari, la riforma Brunetta abbia inciso sulla disciplina dei procedimenti disciplinari nei loro rapporti col giudizio penale, prevedendo per l’amministrazione la riapertura del procedimento disciplinare stesso laddove le risultanze processuali penali abbiano importato dei fatti o degli elementi di particolare rilievo.
A questo punto riprende la parola il professor Fiorillo, soffermandosi sulla sospensione cautelare dal servizio: la sua disciplina è molto analitica nel pubblico impiego, regolata dai contratti collettivi dei singoli comparti (i quali fanno registrare il passaggio da undici a quattro). Dal punto di vista della qualificazione giuridica, la sospensione cautelare non è una sanzione ma una disposizione cautelare, sommaria, atta a garantire l’armonia del luogo di lavoro. Non può essere a tempo indeterminato.
Si passa quindi a parlare di quella che è naturalmente la sanzione più grave, il licenziamento. Se ne prevede una tipizzazione cogente, mediante delega (scarso rendimento, false attestazioni di presenza).
Il licenziamento è notoriamente bipartito nel genus con preavviso e in quello senza, a seconda ovviamente della effettiva gravità e del disvalore della condotta sanzionata.
Tra le varie casistiche assume peculiare importanza quello per scarso rendimento, importante perché si tratta di una fattispecie assai opaca ed evanescente; paradossalmente è proprio del settore pubblico l’unico tentativo di definizione, atto a valorizzare la natura soggettiva della fattispecie, letto non necessariamente e non solo come inadempimento contrattuale, ma potrebbe anche essere connesso a connotazioni oggettive. La valutazione dello scarso rendimento deve dipanarsi lungo un arco temporale non inferiore al biennio.
La legge n. 124/2015 all’articolo 17 stabilisce la adozione di decreti attuativi concernenti specifici aspetti concernenti il pubblico impiego. Un decreto è stato già approvato, in data 20 Gennaio 2016, modificando l’articolo 55-quater del d. lgs. 165/01: è una normazione squisitamente emergenziale, dettata per sopperire al poco o scarso controllo dei dipendenti pubblici assenteisti. Essa specifica le condotte, anticipa la sanzione attesa la flagranza con sensibile irrigidimento della norma, e irroga la sospensione senza stipendio entro le quarantotto ore; potrebbe essere definito Decreto “Sanremo”, per le note vicende penalmente rilevanti che hanno visto coinvolti i dipendenti del Comune di Sanremo.
Altra novità, interviene a sottolineare l’avvocato Buttafoco, è che la violazione dei termini non determina la decadenza della potestà sanzionatoria. Il decreto specifica la consistenza della condotta di falsa attestazione di presenza ed una volta individuato il colpevole, si deve comunque procedere.
Il diritto del lavoro, riprende la parola Fiorillo, per quanto attiene il sistema delle fonti deve essere uguale per il privato e per il pubblico, in caso di non eguaglianza è necessario che la legge lo specifichi chiaramente. Un problema serio si pone con la Legge Fornero, in tema di tutela reale del lavoratore licenziato, e della sua applicabilità al lavoro pubblico: l’auspicio è che la riforma Madia serva ad indicare la via, in maniera decisa, in tema di licenziamento.
Buttafoco propone una diversa chiave di lettura della recente normazione, comprendendo nella analisi e nella considerazione anche la riforma Brunetta: forse essa può essere letta come una forma di tutela del dirigente, poiché spesso in sede di responsabilità amministrativo-contabile accade che un dirigente debba rispondere per comportamenti formalmente ineccepibili ma caducati dalla pronuncia di un giudice, facendo poi insorgere pretese risarcitorie del licenziato reintegrato nel posto del lavoro.
C’è quindi minore spazio per il giudice per inferire condotte di danno, laddove il legislatore si perita analiticamente di stabilire comportamenti ed obblighi gravanti sulle spalle del dirigente. Questa tassatività quindi può essere vista come una sorta di scudo protettivo, per garantire il dirigente dalle eventuali pronunce giudiziarie.
La giurisprudenza in tema di licenziamento disciplinare è scarsissima, a dimostrazione del fatto che la pubblica amministrazione licenzia poco. Le uniche pronunce che si registrano sono certamente non per lo scarso rendimento, nonostante la definizione più precisa e puntuale nel pubblico impiego.
Larga parte della giurisprudenza sembra volersi concentrare sulla forma del procedimento, sui termini perentori, sulla inderogabilità delle norme, e decisamente meno sul merito delle condotte punite. Due recenti pronunce della Corte di Cassazione si segnalano per particolare interesse, la 24741 del 4 dicembre 2015 in tema di camera di Commercio, ed una del Novembre 2015 in tema di inderogabilità delle norme e tutela reale prestata al lavoratore licenziato.
La prima citata riguarda una camera di commercio, indicata come pubblica amministrazione ma disciplinata dalla legge 580 del 1993 sul riordino delle camere di commercio; viene dato potere disciplinare e gestione delle risorse alla giunta camerale.
In tema di individuazione dell’organo competente in materia disciplinare, per i giudici di Cassazione si rileva circostanza importante il fatto che la camera di commercio è una pubblica amministrazione e come tale destinataria della normativa di cui si è discusso nel corso del seminario; poi si è notato come nella legge sul riordino vi sia un rinvio alla normazione del d. lgs. 165/01. Il rinvio sebbene esistente deve considerarsi recessivo, quindi la normativa sul riordino delle camere di commercio per quanto speciale viene superata dal decreto legislativo 165; la giunta camerale, concludono i Giudici di legittimità, non avrebbe potere disciplinare, che compete al dirigente capo-struttura o all’Ufficio procedimenti disciplinari.
Altra sentenza di poco precedente, del novembre 2015, in tema di inderogabilità delle norme e sulla tutela applicabile: trattandosi di violazione di norme inderogabili, il licenziamento deve considerarsi nullo. L’avvocato Buttafoco accenna alle problematiche scaturenti dalla tutela reale di cui all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, norma che prevede l’obbligo di reintegro del lavoratore licenziato illegittimamente.
Interviene il professor Fiorillo, a sottolineare come la reintegrazione nel posto di lavoro, dopo la legge Fornero, sia divenuta eccezione, e si applichi solo in caso di violazione di norme imperative, o quando il fatto non sussiste, o quando il licenziamento sia discriminatorio. Disparità di trattamento macroscopica tra pubblico e privato, nel privato infatti la violazione procedurale importa solo un obbligo di indennizzo, da un minimo di sei mensilità ad un massimo di dodici.
Il seminario viene concluso dall’avvocato Buttafoco con una duplice riflessione sulla perentorietà dei termini e sulla individuazione del computo del termine iniziale: le norme sono chiare quindi vi è poco da discutere, mentre problemi sono stati determinati in tema di effettiva decorrenza del termine. Si sono ingenerate confusioni giurisprudenziali per la individuazione del termine iniziale, soprattutto a causa della strutturazione e della organizzazione delle pubbliche amministrazioni.
Vi sono due termini, uno per la contestazione, l’altro per la istruttoria e la conclusione del procedimento stesso. I termini di conclusione poi sono differenziati a seconda della gravità (e quindi anche dell’organo competente alla irrogazione della sanzione). Il termine per la comunicazione da parte del capo-struttura all’Ufficio Procedimenti disciplinari non decorre dalla conoscenza da parte dell’ufficio ma dalla prima notizia effettivamente acquisita, determinando alcuni problemi di non secondario momento soprattutto nelle amministrazioni pluristrutturate ed estese.