Il seminario che si è tenuto l’11 marzo 2016 presso i locali della LUISS Guido Carli ha consentito di svolgere una riflessione ampia sul processo di trasformazione che sta interessando l’architettura istituzionale del nostro paese sotto il profilo degli enti territoriali di governo. L’evento è stato organizzato dal Centro di Ricerca sulle Amministrazione Pubbliche “Vittorio Bachelet” ed ha concluso la prima settimana del Master di II livello in Amministrazione e Governo del Territorio della LUISS School of Government.
Dopo aver ringraziato coloro che hanno voluto apportare il proprio contributo alla discussione collettiva, Gian Candido De Martin, Direttore del Master e Presidente del Centro di ricerca Bachelet, cui è stato affidato il ruolo di moderatore, ha sintetizzato i punti caldi delle riforme in itinere e, come tali, meritevoli di uno spazio nel corso della conferenza; è seguita la relazione introduttiva di Piero Antonelli, Direttore generale dell’Unione delle Province d’Italia, il quale ha segnalato i profili più spinosi della legge Delrio (56/2014). Sono successivamente intervenuti Vincenzo Antonelli, Ricercatore in Diritto amministrativo alla LUISS Guido Carli, il quale si è concentrato sulle questioni più rilevanti poste dalla riforma costituzionale che sta per essere approvata dal Parlamento, e Francesco Clementi, Professore associato di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia, che ha accompagnato l’analisi di merito del tema a considerazioni preliminari sul metodo. Marco Di Folco, Ricercatore in Diritto Pubblico all’Università di Roma “Tor Vergata”, invece, ha approfondito gli elementi problematici legati all’introduzione di un ente di area vasta e Guido Meloni, Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all’Università del Molise, ha ripreso gli spunti di riflessione metodologica offerti da Francesco Clementi. Inoltre, l’intervento di Giuseppe Di Gaspare, Direttore del Centro di ricerca Bachelet, ha arricchito gli strumenti di lettura della materia con la prospettiva di un professore di Diritto dell’economia. La chiusura dei lavori è stata affidata a Giorgio Pastori, Professore emerito di Diritto amministrativo all’Università Cattolica del Sacro Cuore, il quale ha offerto la sua visione di esperto specifico delle tematiche che riguardano l’amministrazione pubblica.
L’incontro ha consentito a diversi punti di vista di emergere. Le voci che si sono susseguite nel corso della tavola rotonda hanno fornito un quadro esaustivo delle recenti riforme, evidenziandone il paradosso di fondo: da un lato, la volontà del legislatore sembra quella di comprimere lo spazio di autonomia degli enti, dall’altro, di completare il percorso lasciato in sospeso dalla riforma del 2001, avvicinando l’Italia al modello degli Stati federali, in cui i territori sono rappresentati in una camera e partecipano alle decisioni nazionali.
Presentazione del tema di Gian Candido De Martin
La portata innovativa e l’ampiezza di intervento della legge Madia e della modifica costituzionale Boschi-Renzi impongono una riflessione sugli effetti che queste riforme produrranno sui soggetti che operano nel sistema locale e sul relativo assetto di poteri. La riforma costituzionale è un intervento legislativo complesso, operante su due fronti: la soppressione del bicameralismo paritario e la modifica del Titolo V. Per tale motivo, ne vanno approfonditi sia gli aspetti positivi, sia i nodi più problematici.
Una questione a cui guardare favorevolmente è sicuramente la creazione di un Senato che dia voce alle autonomie in Parlamento. Consentendo “un sistema di relazioni già nella fase legislativa tra il livello centrale e i livelli autonomistici”, sottolinea De Martin, questo elemento va “in direzione coerente con il principio autonomistico e con la prospettiva di realizzare un sistema policentrico, senza gerarchie, in cui ciascun soggetto del sistema contribuisce alle scelte della Repubblica”.
Diversi sono i punti critici. In primo luogo, evidente è l’esigenza di razionalizzare il sistema delle conferenze, oggi luogo delle relazioni interistituzionali, che dovrà essere raccordato con il Senato rinnovato. Inoltre, per quanto riguarda gli enti locali, la composizione della nuova Camera delle autonomie rileva per la presenza di 20 sindaci, uno per regione. A tal proposito, De Martin definisce la designazione da parte dei Consigli regionali una “stravaganza”, a causa della quale si potrebbe finire per nominare i sindaci delle città capoluogo o comunque più importanti oppure potrebbero subentrare “logiche di mediazione politica”. Al fine di porre rimedio a tali distorsioni, si auspica la previsione quantomeno di un coinvolgimento del Consiglio delle autonomie, il cui intervento non è per il momento contemplato.
In secondo luogo, è necessario ragionare sulla contraddizione di fondo della riforma che, da un lato, sceglie di valorizzare le autonomie, rappresentandole in uno dei rami dell’assemblea nazionale, dall’altro, realizza un netto ridimensionamento della competenza legislativa delle regioni, introducendo clausole di ingerenza che delimitano la capacità di autogoverno di ciascun ente. A ciò si aggiunga che il superamento della potestà concorrente non rimuove gli spazi di incertezza nel riparto di competenze che generano un conflitto tra il livello statale e quello territoriale, richiedendo l’azione risolutiva della Corte costituzionale. Un ulteriore profilo su cui occorre confrontarsi è quello dell’autonomia speciale, estromessa dal percorso di depotenziamento del ruolo regionale. Infatti, sostiene De Martin, nessuna regione è disposta a rivedere i suoi spazi di particolare indipendenza. E’, dunque, opportuno intervenire per evitare che la divergenza tra l’autonomia ordinaria e quella speciale continui ad ampliarsi.
Per quanto concerne, invece, la dimensione locale, interrogativi emergono in relazione alla decostituzionalizzazione delle province: “alla luce dell’art. 5 della Costituzione, è possibile sopprimere una categoria di enti riconosciuti”? Inoltre, “è possibile riaccentrare funzioni già attribuite”? Tali ambiti di problematicità non sono stati approfonditi dalla Corte costituzionale che ha affrontato la questione in maniera piuttosto sbrigativa, dando copertura provvisoria alla scelta del legislatore. A ciò si aggiunga che, in contrasto con l’orientamento della riforma del 2001, con la quale si era cercato di riservare autonomia statutaria e regolamentare alle autonomie locali, il testo Boschi-Renzi intende riportare l’ordinamento dei suddetti enti completamente all’interno della competenza statuale (art. 117 Cost., 2° comma, lettera p).
Infine, spunti di riflessione sono offerti dalle leggi che interessano prevalentemente la pubblica amministrazione e che potrebbero interferire con l’attività dei soggetti che operano nel sistema locale, come la 124 del 2015, cosiddetta Madia, e la 221 del 2015, contenente «disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali».
Relazione introduttiva di Piero Antonelli
Il sistema degli enti locali sta subendo una profonda trasformazione innescata dalla legge Delrio (56/2014) che, ritenuta legittima dalla Corte costituzionale (sentenza 50/2015), ha avuto già attuazione nella parte in cui dispone l’insediamento degli organi di secondo grado di province e città metropolitane. Numerose questioni restano, tuttavia, ancora aperte. Il primo aspetto su cui è importante centrare la discussione concerne la gestione, che Antonelli definisce “affrettata”, dell’attuazione della legge da parte delle regioni, in particolare con riguardo al riordino delle funzioni non fondamentali delle province (art. 89 della legge 56). In relazione a questo profilo, tutte le regioni hanno legiferato, ma eterogeneo appare il quadro degli interventi: un riordino completo e puntuale è stato effettuato da Toscana, Piemonte, Lombardia e Veneto, mentre un riordino parziale è disposto dalle leggi di altre regioni, che hanno effettuato un rimando ad atti legislativi successivi. Si distingue il caso del Lazio che, il 30 dicembre 2015, ha colmato il vuoto normativo adottando la disciplina di assegnazione delle funzioni nella finanziaria regionale. Antonelli è esplicito nell’affermare che, nella gestione del processo di attuazione della Delrio, le regioni hanno fallito di nuovo: ne è scaturito l’effetto di un’«amministrativizzazione» delle regioni.
Un secondo elemento da segnalare riguarda la fragilità finanziaria degli enti trasformati. E’ indubbio che il riassetto delle funzioni debba comportare l’acquisizione delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative, connesse al loro esercizio, da parte degli enti subentranti. Tuttavia, le regioni hanno mantenuto il disallineamento tra funzioni conferite (art. 118 Cost.) e attribuzioni finanziarie. A ciò si aggiunga che negli ultimi anni è avvenuto un depauperamento del livello autonomistico intermedio e questo emerge chiaramente dalle sentenze della Corte costituzionale 188/2015 e 10/2016, che dichiarano l’illegittimità costituzionale di leggi della regione Piemonte nelle parti in cui “non consentono di attribuire adeguate risorse per l’esercizio delle funzioni conferite”. Anche la Corte dei conti ha fatto riferimento alle sentenze della Corte Costituzionale, evidenziando il collegamento con la legge Delrio e i suoi effetti distorsivi. Rientrano nella medesima problematica i ritardi nella riallocazione del personale.
Intervento di Vincenzo Antonelli
Vincenzo Antonelli apre il suo intervento con una constatazione: l’opera di trasformazione dell’amministrazione locale che emerge dalle riforme in itinere sembra andare nella direzione di un nuovo centralismo statale e regionale. Diversi sono i punti della riforma costituzionale che lo dimostrano. In primo luogo, il testo Boschi-Renzi dispone l’abrogazione “maniacale” di tutti i riferimenti costituzionali alle province, che sono, sottolinea Antonelli, “un’espressione risalente nel tempo dell’autonomia”. A tal proposito, è necessario soffermarsi sul dibattito, concernente gli effetti dell’abrogazione delle norme costituzionali, che potrebbe riaprirsi dopo essersi chiuso in riferimento ai controlli di legittimità sugli atti amministrativi delle regioni e degli enti locali, soppressi dalla riforma del 2001. E’ dubbio se l’abrogazione si rifletta solo nelle disposizioni del legislatore, producendo una mera decostituzionalizzazione, oppure determini una soppressione degli istituti giuridici e/o organismi interessati. Per quando riguarda le province, la prima ipotesi risulta prevalente.
Un altro pilastro fondamentale della riforma è la modifica dell’art. 117 Cost., 2° comma, lettera p con l’attribuzione della materia «ordinamento degli enti locali» esclusivamente allo Stato. Si tratta di un’estensione della competenza centrale anche rispetto al riparto previsto dal testo del ’48. L’esclusività della disciplina dell’ordinamento, che si configura come normativa di dettaglio, è sicuramente un ripensamento della riforma del 2001, con la quale si intendeva realizzare un policentrismo territoriale e sociale. Complementare è la modifica del 6° comma del medesimo articolo nella parte in cui attribuisce potestà regolamentare a Comuni, Province e Città metropolitane. Infatti, “la materia naturale della regolamentazione è l’organizzazione”, per cui l’inclusione della stessa nel dominio legislativo dello Stato limiterà fortemente l’autonomia normativa degli enti locali.
In sintesi, il percorso di rinnovamento dell’assetto territoriale dei poteri non sembra volgere a favore del principio autonomistico e il criterio della differenziazione è sempre più superato dall’esigenza dell’uniformità, soprattutto in termini di fonti normative. La tendenza alla «ristatalizzazione» della normazione richiama la lettura di Giorgio Berti dell’art. 5 Cost., secondo la quale “la legislazione dello Stato si impone e impone una nuova uniformità amministrativa”. In tale contesto, non è possibile, tuttavia, invocare un riequilibrio esterno mediante la Carta delle autonomie poiché la Corte costituzionale, ricorda Antonelli, ha più volte interpretato la Carta come un insieme di norme meramente programmatiche.
Intervento di Francesco Clementi
Secondo Francesco Clementi, una riflessione metodologica deve precedere le osservazioni di merito sul tema oggetto della conferenza. Egli sostiene che le riforme vanno analizzate alla luce di una duplice lente, il testo prodotto e il contesto. Il criterio valoriale è inadatto a cogliere l’opportunità di una riforma, mentre un parametro fondamentale è l’adeguatezza al contesto, un elemento unico e non riproducibile (si pensi, ad esempio, alle circostanze in cui ha operato l’Assemblea costituente), e la capacità di risposta alle problematiche contingenti. Inoltre, “per quanto la dottrina possa segnalare i problemi, è la politica che decide”. In altri termini, “le riforme servono ad adeguare la meccanica strutturale di un paese al tempo che passa” affinché le istituzioni adempiano alla loro funzione di consentire lo sviluppo di una nazione.
Il contesto nel quale si inseriscono le recenti proposte del legislatore va esaminato a partire dalle elezioni politiche del 2013, che si sono svolte in una fase di transizione istituzionale, comprendente anche il rinnovo della carica di Presidente della Repubblica, e che hanno prodotto un esito elettorale tripolare e un esecutivo sorretto da una maggioranza parlamentare solo in una delle due Camere. A ciò si aggiungano la recessione economica e la crisi del sistema politico. Tali condizioni impongono al paese di trasformarsi poiché segnalano che la nostra meccanica istituzionale è “disfunzionale” rispetto alle esigenze poste dallo scorrere del tempo. In sintesi, solo comprendendo appieno la congiuntura che l’Italia sta attraversando, sarà possibile valutare se le riforme costituzionale e della pubblica amministrazione saranno in grado di rispondere ai problemi del paese. Analogamente, solo alla luce della storia che lo circonda può essere letto il testo costituzionale del ’48: l’Italia era una nazione giovane, morfologicamente complessa e attraversata da cleavages e l’art. 5 era lo strumento che avrebbe dovuto consentire di plasmare istituzioni adeguate a tali circostanze.
Dopo la sua interessante riflessione metodologica, Francesco Clementi esprime il punto di vista sul tema del dibattito. Parere favorevole incontra sicuramente la scelta di tramutare il Senato in una Camera delle autonomie. Questa importante novità colma il vuoto lasciato dalla riforma del 2001 che, pur avendo consentito al regionalismo italiano di compiere un passo in avanti, ha lasciato le autonomie fuori dal “luogo in cui il legislatore nazionale prende le decisioni”, cioè quello che Clementi definisce “il cuore del governo del paese”. Tra l’altro, il disegno del 2001 non si è realizzato pienamente a causa dell’incapacità delle classi dirigenti, che hanno raccontato alla nazione di poter essere uno Stato federale. Ingannevole, ad esempio, è stato l’utilizzo del termine federalismo in relazione al decentramento fiscale. A tal proposito, Francesco Clementi sottolinea con forza che l’Italia può essere federale solo al prezzo di non essere più un paese.
Proseguendo nella disamina del testo Boschi-Renzi, si evidenzia che il sistema policentrico dell’art.114 Cost., emerso dalla revisione del 2001, resta immutato, eccetto che per la decostituzionalizzazione delle province; tuttavia, si osserva un ridimensionamento delle regioni. Infine, si auspica che il nuovo bicameralismo comporti una maggiore responsabilizzazione delle classi dirigenti e che la portata innovativa del Senato delle autonomie non sia indebolita dall’incapacità dei suoi membri o da una mancata ristrutturazione del sistema delle conferenze. In sintesi, secondo Clementi, la riforma in itinere “offre un’occasione in più rispetto al 2001”, anche se lascia ancora aperta la questione dell’autonomia speciale, sulla quale la politica potrà intervenire solo quando disporrà di una maggioranza chiara.
Intervento di Marco Di Folco
Quello dell’area vasta è un tema di cui è praticamente impossibile prevedere l’evoluzione. Infatti, insieme alla decostituzionalizzazione delle province, i cui effetti potrebbero interferire con la loro garanzia di esistenza, “il riferimento ad una categoria di area vasta – sottolinea Di Folco – ha la funzione di superare la tassatività degli enti di governo dell’art. 114 della Costituzione”.
Uno dei nodi maggiormente problematici concerne l’art. 40, comma 4 della riforma costituzionale, che abilita sia lo Stato che la regione a disciplinare la materia dell’area vasta. Tuttavia, dal testo non emerge una chiara demarcazione delle competenze del legislatore nazionale e di quello regionale, né è possibile dedurre quale di esse sia prevalente (a tal proposito, Di Folco ritiene che si debba considerare predominante la potestà statuale). Allora, è probabile che la collisione degli ambiti di intervento darà luogo ad ulteriori contenziosi che richiederanno l’azione risolutiva della Corte costituzionale. A ciò si aggiunga che la legge 56/2014 presenta molti vuoti normativi che dovranno essere riempiti dagli statuti provinciali o dal legislatore regionale. L’esito di questo complesso processo di riordino rischia di essere l’«amministrativizzazione» delle regioni, verso cui potrebbero spingere sia le tendenze centralistiche dell’ente, sia l’applicazione del principio di adeguatezza.
Un’ulteriore questione delicata riguarda il rapporto tra gli enti di area vasta e le forme associative dei comuni. E’ importante specificare che queste ultime non possono essere considerate succedanei dei primi poiché non si configurano come enti di governo.
Intervento di Guido Meloni
Guido Meloni apre il suo intervento riprendendo la riflessione metodologica di Francesco Clementi e condividendone in parte i contenuti. Concordando con la necessità di assumere una “posizione laica” rispetto alle riforme, indipendente dalle proprie categorie valoriali, dissente dalla visione strumentale delle istituzioni come precondizione per lo sviluppo di una nazione. Infatti, quello di sviluppo è un concetto vago che può sottendere concezioni diverse delle relazioni sociali ed economiche e, perciò, potrebbe divenire esso stesso un valore da utilizzare come parametro di giudizio delle riforme.
Inoltre, secondo Meloni, è molto interessante constatare che la discussione intorno all’architettura istituzionale degli enti territoriali continui a vertere sull’individuazione dei soggetti adatti allo svolgimento di determinate funzioni piuttosto che sulle modalità di esercizio delle stesse. Se ci si occupa ancora del “chi” piuttosto che del “come”, ciò significa che, in realtà, si lega l’amministrazione all’esercizio democratico. Infine, occorre nuovamente sottolineare che il percorso di riforma messo in moto dalle recenti iniziative del legislatore spingerà verso un’«amministrativizzazione» delle regioni anche perché si ridurrà lo spazio per l’esercizio del potere legislativo da parte degli stessi enti.
Intervento di Giuseppe Di Gaspare
Una diversa prospettiva con cui esaminare la tematica oggetto della conferenza è quella più propriamente economica. Il decentramento realizzato in questa sfera è stato deformato dalle regioni, le quali hanno inteso l’autonomia finanziaria come autonomia di spesa, ma, contemporaneamente, non sotto il profilo del reperimento delle risorse. La parziale sospensione dell’autonomia finanziaria ha finito per produrre un apparato centralizzato imperniato sui trasferimenti statali, con conseguente deresponsabilizzazione degli enti territoriali e aumento del debito pubblico. A ciò si aggiunga che le sedi responsabili dell’assegnazione delle risorse godevano di un vero e proprio potere che, utilizzato in maniera inappropriata, ha generato un sistema di corruttele.
A partire dagli anni ’70, si è tentato di intervenire per sanare le patologie del decentramento economico rendendo l’amministrazione più flessibile mediante le esternalizzazioni. Questo strumento consente di estendere l’attributo dell’autonomia in senso privatistico. Tuttavia, da questa soluzione è emersa un’altra stortura legata all’assenza di controlli sugli organismi esterni delegati dagli enti territoriali. Ne sono un esempio le attività di tipo finanziario (si pensi all’acquisto di prodotti derivati) svolte da soggetti di diritto privato e sottratte a qualsiasi supervisione di natura pubblica. Il contesto italiano si pone in netta antitesi con quello inglese, in cui coloro che svolgono attività slegate dall’ambito di azione dell’ente vengono giudicati per illecito.
Chiusura dei lavori di Giorgio Pastori
Il tema dell’amministrazione locale può essere considerato il problema costituzionale per eccellenza poiché alla Costituzione è affidato il compito di “conciliare l’unità dei diritti con il pluralismo delle autonomie”. L’unità non va intesa solo in senso giuridico, come uniformità del diritto, ma anche come uniformità della realtà amministrativa e delle condizioni economiche e sociali. E’ triste per Pastori constatare che l’Italia non sia riuscita ancora a raggiungere questo livello di eguaglianza sostanziale, ma che, anzi, nel paese continui ad allargarsi il divario nord-sud.
E’ in questo quadro che si inseriscono le riforme delle autonomie. Quella del 2001 ha avuto una portata innovativa non solo nel riparto della competenza legislativa tra Stato e regioni (art. 117 Cost.), ma anche nell’assegnazione delle funzioni amministrative, il cui esercizio è stato imperniato sul rispetto della sussidiarietà (art. 118 Cost.). Affinché tale principio operasse in modo corretto, ad esso sono state affiancate le regole dell’adeguatezza e della differenziazione. Dunque, l’approccio utilizzato è stato quello di partire dalle funzioni, distribuendole in modo che ciascun ente potesse assolvere ai suoi compiti in maniera organica.
Al contrario, le recenti riforme sono state realizzate subordinando le funzioni alle risorse e lavorando su numeri astratti piuttosto che sul territorio. Per quanto concerne la legge Delrio, si tratta del tipico intervento legislativo che anticipa una riforma costituzionale. L’introduzione delle città metropolitane, che era stata proposta per la prima volta nel ’74, risponde più al principio di differenziazione che a quello di adeguatezza. Il testo Boschi-Renzi, invece, configura una Camera delle autonomie con due componenti, una comunale e una regionale, a cui si aggiungono, inoltre, i senatori di nomina presidenziale.