a cura di Flaminia D’Angelo.
Con la sentenza in commento, l’Adunanza Plenaria è intervenuta sulla questione se il giudice possa, ex officio, pronunciare il risarcimento del danno anziché l’annullamento del provvedimento – malgrado il ricorrente abbia chiesto soltanto la caducazione degli atti illegittimi – quando la pronuncia giurisdizionale sopraggiunga a distanza di moltissimi anni dall’adozione degli atti e possa determinare gravi pregiudizi a terzi controinteressati.
La decisione ha tratto origine dalla vicenda che ha coinvolto un candidato ad un concorso pubblico di un Comune italiano nel 1999: a seguito delle prove selettive, egli ha ottenuto un punteggio insufficiente e non è stato, quindi, ammesso.
Il candidato ha, quindi, impugnato gli atti del concorso davanti al giudice amministrativo competente chiedendone l’annullamento, non avendo la Commissione rispettato il principio della preventiva fissazione dei criteri di valutazione con lesione del principio di trasparenza ed imparzialità dell’azione amministrativa.
In primo grado, il ricorso è stato tuttavia respinto.
Giunto in grado di appello innanzi al Consiglio di Stato, la Sezione competente ha pronunciato, invece, sentenza parziale di accoglimento riconoscendo l’illegittimità degli atti amministrativi della procedura concorsuale e, contestualmente, rimettendo la questione di diritto, sopra individuata, all’Adunanza Plenaria nel rilievo che fossero ormai decorsi moltissimi anni dalla proposizione del ricorso in primo grado con la conseguenza che i vincitori del concorso avevano già maturato più di sedici anni di attività lavorativa senza interruzioni.
L’ordinanza di rimessione ha prospettato, dunque, la possibilità – ancorché il ricorrente non l’avesse mai chiesto – di riconoscergli il risarcimento del danno in luogo della caducazione degli atti e della rinnovazione della procedura.
A supporto di quest’interpretazione, si è evidenziato, in primo luogo come, in applicazione dei principi di giustizia, il Consiglio di Stato, in una precedente sentenza, non avesse dichiarato l’annullamento dell’atto in quanto non attributivo di alcun interesse per il ricorrente né di benefici per l’interesse pubblico; in secondo luogo si è sottolineato che, se il ricorrente avesse espressamente chiesto il risarcimento, non vi sarebbe stato alcun problema potendo il giudice “modulare” la tutela anche in considerazione del danno sociale che deriva da un eventuale annullamento; in terzo luogo, si è rilevato come l’annullamento della procedura a distanza di 16 anni avrebbe, da un lato, cagionato un certo pregiudizio ai controinteressati incolpevoli, a fronte dell’attribuzione al ricorrente di una mera chance di rinnovazione procedurale. In ultimo è stato richiamato l’art. 34 co. 3 cpa che prevede che «quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori» da intendere come potere del giudice di dichiarare l’illegittimità, anche solo a fini risarcitori, senza una espressa dichiarazione dell’interessato sussistendo un medesimo quid di accertamento nelle due azioni.
Tale posizione prospettata nell’ordinanza di rimessione non è stata però accolta dall’Adunanza Plenaria per le seguenti ragioni: “a) sulla base del principio della domanda, che regola anche il processo amministrativo; b) sulla base della natura della giustizia amministrativa quale giurisdizione soggettiva, pur con talune peculiarità – di stretta interpretazione – di tipo oggettivo; c) per la non mutabilità ex officio del giudizio di annullamento una volta azionato; d) per la non pertinenza degli argomenti e dei precedenti richiamati”.
In primo luogo, ha chiarito l’Adunanza Plenaria che l’art. 39 cpa rinvia esternamente al codice civile ed ai suoi principi da assumere quale chiave di lettura degli strumenti di tutela che sono predisposti nel C.pa.
In particolare, ha ricordato il Collegio che «l’art. 29 cpa dispone che la sanzione per i vizi di violazione di legge, eccesso di potere ed incompetenza sia l’annullamento ad opera del giudice, la cui azione deve proporsi nel termine di sessanta giorni. L’illegittimità, in particolare, comporta l’annullabilità (in potenza); l’azione di annullamento determina, su pronuncia del giudice, l’annullamento (in atto) degli atti impugnati. In caso di accoglimento del ricorso di annullamento (art. 34, comma 1, c.p.a. lettera a) il giudice quindi annulla (necessariamente) in tutto o in parte il provvedimento impugnato».
Ha sottolineato poi, che sempre l’art. 34 pone, anche, il principio dispositivo del processo amministrativo in relazione all’ambito della domanda di parte, trattandosi di una giurisdizione di tipo soggettivo sia pure con aperture parziali alla giurisdizione di tipo oggettivo. Da qui la regola, come nel processo civile, per cui si debba dare al ricorrente vittorioso tutto quello e soltanto quello che egli abbia chiesto ed a cui abbia titolo. (così come ribadita anche da Adunanza plenaria n. 4 del 7 aprile 2011 e n. 30 del 26 luglio 2012).
Facendo leva su questo principio cd. della domanda, secondo l’Adunanza, non potrebbe, quindi, ammettersi che in presenza di un atto illegittimo (causa petendi) per il quale sia stata proposta una domanda demolitoria (petitum), si possa non conseguirne l’effetto distruttivo dell’atto per valutazione o iniziativa ex officio del giudice. In particolare, perché le due azioni, di annullamento e di risarcimento, si differenziano per diversi elementi: a) la causa petend: per la prima è l’illegittimità, mentre nella seconda è l’illiceità del fatto; b) il petitum: nella prima azione è l’annullamento degli atti o provvedimenti impugnati, mentre nella seconda è la condanna al risarcimento in forma generica o specifica, c) le modalità di tutela dell’interesse: per la prima è una restaurazione dell’ordine violato “ad opera” del giudice, mentre il risarcimento è disposto su “ordine” del giudice ed è diretto a restaurare, a livello pari od equivalente, la legalità violata dell’ordinamento.
Ha chiarito il Collegio che il giudice «non può “modulare” la forma di tutela sostituendola a quella richiesta, ma determinare, in relazione ai motivi sollevati e riscontrati e all’interesse del ricorrente, la portata dell’annullamento […].
Se poi la domanda di annullamento, con il suo effetto tipico di eliminazione dell’atto impugnato dal mondo giuridico non dovesse soddisfare l’interesse del ricorrente e anzi dovesse lederlo (in realtà l’ordinanza di rimessione riconosce che non si verte in tale ipotesi), la pronuncia del giudice non potrebbe che essere di accertamento, ma nell’altro senso, cioè della sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente che aveva proposto domanda di annullamento». Secondo l’Adunanza Plenaria, la questione rimessa è, tuttavia, del tutto diversa da quest’ultima ipotesi, in quanto non si tratta di accertare il sopravvenuto difetto di interesse del ricorrente, ma al contrario, di ammettere che il giudice, a fronte di un perdurante interesse all’annullamento – ancorché nella forma dell’interesse strumentale – possa derogare al principio della domanda ex officio, facendo recedere l’interesse indebolito del ricorrente sulla base di altre valutazioni di interessi quali ragioni di opportunità, giustizia, equità, proporzionalità.
Secondo il Collegio, se così fosse «si tratterebbe di una omessa pronuncia, di una violazione della domanda previsto dall’art. 99 c.p.c. e del principio della corrispondenza previsto dall’art. 112 c.p.c. tra chiesto e pronunciato secondo cui “il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa”, applicabili ai sensi del rinvio esterno di cui all’art. 39 cod. proc. amm. anche al processo amministrativo». Dunque, a fronte della persistenza dell’interesse del ricorrente – come evidenziato dal fatto che solo l’annullamento è stato chiesto nelle memorie difensive ed in fase di discussione – nemmeno il tempo trascorso può rilevare: secondo l’Adunanza «infatti, la durata occorrente per il giudizio, a maggior ragione quando essa sia prolungata e inaccettabile nelle sue dimensioni, non può andare a danno del ricorrente che ha ragione e pregiudicargli la sua pretesa, se non a costo di infliggergli un doppio danno».
Ugualmente non viene considerata rilevante neppure «l’utilità più o meno ampia, che l’appellante possa ricevere da un eventuale annullamento, né possono avere rilievo le ragioni di inopportunità, in tale sede e fase, per i disagi causati ai controinteressati incolpevoli o la valutazione preminente dell’interesse pubblico, il quale coincide, in tale momento, con l’annullamento degli atti illegittimi impugnati»
Secondo l’Adunanza Plenaria, poi, al fine di potere ammettere che il giudice possa pronunciare ex officio il risarcimento del danno al posto dell’annullamento degli atti, «non appare utile il richiamo operato ai poteri di cui all’art. 21 nonies L. 241 del 1990, attenendo essi specificamente (ed esclusivamente, stante la loro natura eccezionale) all’attività amministrativa propriamente detta; così come non appare utile il richiamo alle disposizioni in materia di appalti (artt. 121 e 122 c.p.a.), in cui viene riconosciuta la possibilità al giudice di disporre un rimedio piuttosto che un altro, sulla base della inefficacia, con un potere valutativo che tenga conto del tempo trascorso, della effettiva possibilità di subentrare, delle situazioni contrapposte, dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e così via: trattasi, infatti, di fattispecie esclusive la cui disciplina non è estensibile in via analogica né tanto meno può essere assunta come espressiva di principi generali».
Nello stesso senso neppure i precedenti giurisprudenziali possono soccorrere.
Ed infatti, il Collegio ha riferito – quanto alla giurisprudenza che ha riconosciuto la potestà del giudice amministrativo, in presenza di determinati presupposti attinenti all’interesse del ricorrente, di fissare una determinata posteriore decorrenza degli effetti della pronuncia di annullamento – che si fosse trattato di una questione ben diversa da quella posta con l’ordinanza di rimessione; – quanto alle sentenze che fanno riferimento alla possibilità che il giudice, di ufficio, ritenga che sussistente un interesse al mero accertamento – che esse non sono convincenti: tali pronunce si riferiscono, infatti, alla situazione in cui, accertata, in modo incontestabile per mutamenti di fatto o di diritto, la sopravvenuta carenza di interesse, si debba decidere se, per la pronuncia di mero accertamento, sia necessaria oppure no una apposita istanza della parte. Tali pronunce, tuttavia non incidono né sull’esigenza di accertare previamente se tale interesse a ricorrere o bisogno di tutela giurisdizionale (Rechtsschutzbedürfnis) continui a persistere anche dopo molto tempo, né sul potere, tipico del processo dispositivo, della parte di decidere, essa soltanto, e non il giudice di ufficio, se proseguire nella richiesta di annullamento di atti illegittimi sia pure a distanza di tempo, vantando ancora un meritevole bene della vita.
Allo stesso modo, non può fondare il suddetto potere ex officio il richiamo alla disciplina del processo dinanzi alla Corte di Giustizia (l’art. 264 del Trattato): secondo il Collegio, «la problematica della limitazione degli effetti dell’annullamento, sorta e applicata in via eccezionale in quella sede soprattutto per i regolamenti, non è, infatti, sufficiente a portare ad un parallelo con la giustizia amministrativa italiana, trattandosi di modelli giurisdizionali del tutto differenti».
Alla luce delle precedenti considerazioni e ai sensi dell’art. 99, comma 4 c.p.a., l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha, quindi, deciso nel merito la questione di cui era stata investita accogliendo l’appello proposto e pronunciando il seguente principio di diritto: «Sulla base del principio della domanda che regola il processo amministrativo, il giudice amministrativo, ritenuta la fondatezza del ricorso, non può ex officio limitarsi a condannare l’amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda dell’istante ed in ordine al quale persista il suo interesse, ancorché la pronuncia possa recare gravi pregiudizi ai controinteressati, anche per il lungo tempo trascorso dall’adozione degli atti, e ad essa debba seguire il mero rinnovo, in tutto o in parte, della procedura esperita».