Roma, 10 aprile 2014, Sala Capitolare del Senato della Repubblica
Il 10 aprile 2014, presso la Sala Capitolare del Senato della Repubblica, si è svolto un seminario concernente il disegno di legge costituzionale recentemente proposto dal Governo e volto, in particolare, a superare il bicameralismo perfetto, modificare il Titolo V e rafforzare l’Esecutivo nel procedimento legislativo.
Dopo il saluto del Ministro delle Riforme Istituzionali, On. Maria Elena Boschi, che ha sottolineato l’importanza del dibattito dottrinario sulla proposta di riforma del Governo, pur nella stretta necessità di addivenire ad una decisione in tempi celeri, il Prof. Alfonso Celotto ha introdotto il tema oggetto del seminario, ricostruendo le varie iniziative avviate negli anni passati (dal Comitato Speroni del 1994 fino alle più recenti bozze “Violante” e “Vizzini”) ed evidenziando sia gli aspetti per i quali vi è una sostanziale identità di vedute tra gli addetti ai lavori (superamento del bicameralismo paritario, differenziazione delle competenze tra le due Camere, riduzione del numero dei parlamentari) sia quelli più controversi (in particolare, la composizione del Senato, ad elezione diretta o di secondo grado, con rappresentanti delle sole Regioni o anche dei Comuni).
Successivamente, il Prof. Stefano Ceccanti ha evidenziato come con il disegno di riforma ora all’attenzione dell’opinione pubblica e della dottrina sembra di assistere ad un ritorno alla libertà di dibattito emersa nella prima fase dell’Assemblea Costituente, quando ancora non era sorta quella spaccatura tra i principali partiti politici che avrebbe poi portato, all’indomani dell’uscita delle sinistre dalla compagine governativa, all’adozione di scelte di “garanzia” sull’assetto istituzionale repubblicano.
In tale contesto di reciproco sospetto tra le forze politiche, dapprima con l’ordine del giorno Nitti è stato superato il tema della rappresentanza degli interessi e dei territori prevedendo il sistema uninominale a turno unico per l’elezione dei senatori, poi con l’accordo Togliatti-Dossetti tale ordine del giorno è stato a sua volta “scardinato” introducendo la soglia del 65% per l’attribuzione del seggio a livello di singolo collegio e, qualora non raggiunta, prevedendo il meccanismo a scrutinio di lista, su base regionale, per l’attribuzione dei seggi.
Nell’ottica di trovare soluzioni di “garanzia” che tutelassero tutti i partiti, anche quelli che erano stati esclusi della maggioranza di governo, alla sostanziale uniformità delle formule elettorali delle due Camere si è così aggiunta la scelta del bicameralismo simmetrico, con una equivalenza delle competenze tra Camera e Senato.
Nel 1993, con l’introduzione dell’uninominale a seguito del referendum del 18 aprile che ha abrogato il quorum del 65%, è venuto meno uno dei due fondamenti di “garanzia”: ora si tratta di smantellare l’ordine del giorno Nitti e di tornare all’impostazione iniziale del dialogo tra Legislatori, che rappresenta il migliore strumento per evitare che il conflitto tra i vari enti costitutivi della Repubblica “deflagri” sistematicamente dinanzi alla Corte Costituzionale e, soprattutto, per adeguare l’assetto istituzionale alla realtà odierna nella quale le condizioni politiche che avevano reso necessario un ruolo “bloccante” del Senato nei confronti della Camera sono ormai evidentemente superate.
In conclusione, Ceccanti ha presentato le linee guida della proposta emendativa da lui formulata assieme ad altri studiosi, concernenti i seguenti aspetti: l’attenuazione dell’eccesso di centralismo nella riscrittura delle competenze sull’ordinamento locale, prevedendo in tale ambito un ruolo anche per le Regioni, il rafforzamento dei Consigli Regionali nella composizione del nuovo Senato (riducendo il numero di componenti di estrazione comunale e di quelli scelti dal Presidente della Repubblica), la previsione di un controllo preventivo della Corte Costituzionale (con la possibilità di ricorrervi da parte delle forze politiche, di maggioranza ed opposizione), la revisione della platea di elettori del Capo dello Stato (per evitare che la sola Camera dei Deputati sia in grado di eleggerlo, in ciò favorita dalla ridotta numerosità del Senato e, soprattutto, dagli effetti maggioritari conseguenti al “premio” previsto dal c.d. Italicum, qualora approvato), infine l’eventuale unificazione del personale in servizio presso l’amministrazione delle due Assemblee, analogamente a quanto previsto nell’ordinamento spagnolo.
Il Prof. Tommaso Edoardo Frosini si è soffermato sull’esigenza di addivenire ad una modifica della forma di governo, che dovrà seguire alla riforma del bicameralismo e del Titolo V della Carta, auspicabilmente nella direzione di un rafforzamento dei poteri del Primo Ministro (in ciò ponendosi nel solco della ratio della nuova legge elettorale, c.d. Italicum).
In merito al paventato rischio che il disegno di legge costituzionale non venga approvato a larga maggioranza, Frosini ha ricordato che durante il Governo Letta era stato già previsto che l’eventuale riforma della Costituzione sarebbe stata soggetta al voto popolare, anche in caso di raggiungimento della soglia dei due terzi in seconda lettura di Camera e Senato che, come noto, a norma dell’art. 138 della Costituzione evita il referendum confermativo.
Nel suo intervento, il Prof. Francesco Clementi ha evidenziato la tendenza del progetto di riforma di addivenire ad un Senato “federatore” (non già federale) nel senso indicato da A. Manzella, in modo da offrire un sistema di garanzia non basato su molteplici “freni”, bensì su adeguati “contrappesi” che configurino nuove e più incisive forme di controllo parlamentare (poteri di inchiesta, nomina di soggetti di garanzia, analisi delle politiche pubbliche del territorio) accanto al pieno dispiegarsi della funzione di indirizzo politico.
Il Senato “federatore” costituirebbe così una “cerniera” tra i vari livelli di governo e rafforzerebbe, altresì, le istituzioni nazionali rispetto all’Unione Europea: tuttavia, secondo Clementi, su questo punto sarebbe necessario integrare le previsioni contenute nel testo di riforma, alla luce del fatto che oltre il 70% della normativa italiana è di derivazione europea e, pertanto, appare indispensabile configurare il ruolo del Senato proprio nell’ottica di favorire un maggiore raccordo con il livello sovranazionale.
A tal fine, l’attività della Camera Alta dovrebbe concentrarsi, tra l’altro, sulle procedure legislative europee, valutando l’impatto nazionale delle decisioni assunte in ambito UE, nonché controllando l’impiego dei fondi europei e riservandosi l’esame delle sentenze della Corte di Giustizia.
In realtà, tale evoluzione potrebbe essere utilmente perseguita già oggi, a Costituzione invariata, mediante opportuni interventi di riforma dei regolamenti parlamentari e della stessa organizzazione dell’amministrazione del Senato, in particolare valorizzando l’attività del Servizio Studi nell’analisi di impatto dei provvedimenti normativi europei nell’ordinamento nazionale.
All’esito di tale processo, secondo Clementi la Camera dovrebbe caratterizzare la forma di governo nazionale, mentre il Senato dovrebbe “plasmare” la forma di Stato italiana, nell’ottica di assicurare “garanzie” tramite una efficace e ben ponderata azione di controllo -e non per effetto di una sistematica paralisi decisionale favorita dal disegno istituzionale- facendo così dell’Italia un Paese più europeo. Obiettivo, questo, che per essere utilmente perseguito ha bisogno, appunto, di un Senato “federatore”, non federale.
Il Prof. Giovanni Guzzetta si è poi occupato della composizione del nuovo Senato, come delineato dal disegno di legge costituzionale in esame. Premettendo, nel metodo, che i costituzionalisti parlano sempre a titolo personale e non è possibile ricondurre all’intero corpus posizioni espresse da taluni suoi esponenti in materia di riforma istituzionale, Guzzetta ha argomentato, nel merito, come l’esperienza comparata offra una molteplicità di modelli sui membri della Camera Alta, rientrando essi stessi nell’ambito della discrezionalità politica del Legislatore, talché varie sono le possibili varianti di un bicameralismo che si discosti da quello tratteggiato all’epoca dai Costituenti.
Pur tuttavia, è possibile riscontrare se uno specifico modello presenta elementi di affinità rispetto agli altri ordinamenti e, soprattutto, se si caratterizza per organicità; in tale contesto, Guzzetta pone l’attenzione su due profili di criticità del disegno di legge costituzionale in argomento.
In primis, appare problematica la previsione della scelta dei ventuno senatori da parte del Presidente della Repubblica, che rievoca i senatori a vita di epoca statutaria i quali, peraltro, ora rientrerebbero nella sfera di esclusiva competenza del Capo dello Stato; circostanza, questa, pressochè unica al mondo, tenuto conto che anche nelle odierne monarchie parlamentari (e già durante il Regno d’Italia) è il Primo Ministro a proporre al Sovrano la nomina dei membri della Camera Alta.
In secundis, dubbi emergono anche a proposito della composizione degli enti territoriali. In generale, mentre da cittadini sarebbe meglio valorizzare la sola rappresentanza regionale, si può comunque condividere la previsione di modelli ove vengano ricompresi anche gli enti locali.
Pur tuttavia, sussistono due aporie nei criteri di selezione: in primo luogo, ai sensi della bozza di riforma i Consigli delle Autonomie Locali (già contemplati all’ultimo comma dell’art. 123 della Carta, quali organi di consultazione fra la Regione e gli enti locali) non svolgerebbero alcun ruolo nella designazione di secondo livello dei rappresentanti.
Inoltre, la nomina dei sindaci dei Comuni capoluogo di Regione e di Provincia Autonoma non appaiono rappresentativi né della Regione né dell’insieme dei Comuni che vi fanno parte, diversamente dai Presidenti di Regione. Per questo, Guzzetta ritiene che sarebbe meglio prevedere la scelta da parte delle Assemblee di Sindaci ovvero da parte degli stessi CAL, anche perché il nuovo Senato, come sottolineato da Ceccanti nel suo intervento, è volto a realizzare un importante dialogo tra Legislatori.
Nel tratteggiare le ricadute della proposta di riforma costituzionale sul sistema delle autonomie, il Prof. Francesco Saverio Marini ha premesso come la modifica del Titolo V del 2001 abbia dato degli esiti sostanzialmente insoddisfacenti, sia sotto il profilo della prassi che del contenzioso dinanzi alla Consulta, anche per effetto di un riparto delle competenze rigido e “confusorio” che solo la Corte ha saputo rendere più flessibile ricorrendo alla figura delle c.d. “materie trasversali” e della c.d. “chiamata in sussidiarietà”.
Nello specifico, le innovazioni ora presentate dal Governo sono sostanzialmente condivisibili, sia per l’eliminazione delle materie di potestà concorrente e l’individuazione di quelle residuali delle Regioni, sia perché talune scelte “cristallizzano” in Costituzione talune interpretazioni giurisprudenziali fornite nel tempo dalla Consulta.
Comunque, secondo Marini potrebbero essere apportati dei miglioramenti al testo.
Appare contraddittorio, infatti, che per le leggi di delega alle Regioni dell’esercizio della potestà legislativa in materie o funzioni di competenza esclusiva statale, ai sensi del novellato art. 117 della Carta, sia previsto il voto della maggioranza assoluta dei componenti della Camera dei Deputati previa intese con le Regioni interessate (escluse talune materie espressamente indicate nella citata disposizione), mentre per l’attivazione della clausola di unità nazionale non è previsto alcun “paletto”.
Inoltre, l’abolizione delle materie concorrenti tende a superare la c.d. “chiamata in sussidiarietà” introdotta dalla Corte Costituzionale a partire dalla sentenza n. 303 del 2003, ma, nel contempo, rende più rigido il sistema, perdurando il disallineamento tra funzioni legislative ed amministrative introdotto nel 2001: per questo, sarebbe meglio tornare al c.d. “parallelismo” contemplato nella versione originaria del Titolo V.
Infine, ai sensi dell’art. 33 del disegno di legge costituzionale, le disposizioni ivi contenute trovano attuazione per le Regioni a Statuto Speciale, nonché per le Province di Trento e Bolzano, solo dopo l’adeguamento dei rispettivi Statuti. A ciò si aggiunga che solo per tali enti sopravvivono le materie concorrenti: circostanza, questa, che rischia di invalidare la finalità della riforma di deflazionare il contenzioso presso la Corte Costituzionale tra Stato e Regioni, tenuto conto che lo stesso coinvolge principalmente proprio le Regioni Speciali.
Nelle conclusioni, il Prof. Michele Ainis ha evidenziato, nel metodo, che il “convitato di pietra” della riforma è la legge elettorale, vista come una sorta di anticipazione della modifica della Carta che, una volta approvata in via definitiva, conferirebbe alla legge stessa una sorta di “legittimità costituzionale sopravvenuta”.
Circa l’eventualità del referendum confermativo, Ainis ritiene utile, in ogni caso, un “timbro” popolare alle riforme, come peraltro già avvenuto in due occasioni precedenti, nel 2001 e nel 2006; in tal caso, tuttavia, sarebbe opportuno “scorporare” le varie tematiche oggetto di revisione (Titolo V, bicameralismo, poteri normativi del Governo), evitando così che i cittadini siano costretti ad esprimere un giudizio in blocco, secondo la logica forzata del “prendere o lasciare”.
Nel merito, Ainis ritiene convincente l’impianto complessivo sia della riforma elettorale che di quella costituzionale, condividendone gli elementi costitutivi, quali il doppio turno del c.d. Italicum, il superamento del bicameralismo paritario, la primazia della legge statale su quella regionale.
Tuttavia, passando nei dettagli sembrano emergere taluni problemi che il Legislatore dovrà necessariamente affrontare.
Per quanto riguarda la legge elettorale, la soglia del 37% per l’attribuzione del “premio” al primo turno appare troppo bassa (sarebbe opportuno elevarla fino al 40%), mentre, di contro, il “premio” al 53% per il partito/coalizione vincente al ballottaggio risulta eccessivamente ridotto.
Inoltre, il farraginoso e restrittivo sistema degli sbarramenti potrebbe determinare incertezze nei suoi esiti complessivi, dato che la coalizione potrebbe risultare vincente grazie al concorso di partiti che, a loro volta, potrebbero non superare la soglia minima di accesso; al tempo stesso, la rappresentanza delle opposizioni rischia di essere alterata dal duplice sbarramento del 12% per le coalizioni e del 4,5% per i singoli partiti che ne fanno parte.
Infine, rimane il meccanismo delle c.d. “liste bloccate”, motivo per cui sarebbe opportuno procedere alla modifica della grandezza dei singoli collegi, ben più di quanto non venga fatto nella bozza di riforma elettorale.
Con riferimento al Senato, Ainis ha ricordato come all’epoca della Commissione delle riforme avesse egli stesso manifestato la sua preferenza per l’opzione monocamerale, tuttavia se fosse mantenuta l’opzione bicamerale il Senato non dovrebbe essere configurato come una sorta di Camera secondaria, diversamente da quanto si evince dalla proposta del Governo. Al riguardo, concorda sulla non elettività del Senato, perché in tal caso non vi sarebbe motivo per negare anche a tale Assemblea il potere di dare la fiducia all’Esecutivo, e ritiene accettabile riconoscere pari dignità alle comunità locali, nel solco della consolidata tradizione municipalistica nazionale.
Opinione favorevole è stata espressa da Ainis anche in relazione al rafforzamento del Governo nel processo legislativo, nonché all’indicazione delle funzioni, accanto alle materie, tra gli ambiti competenziali di Stato e Regioni (pur se traspare un possibile errore nella formulazione testuale delle relative disposizioni, in quanto il Legislatore, nel riferirsi alle “funzioni” ed alle “materie”, ha utilizzato la congiunzione copulativa “e” per lo Stato e quella disgiuntiva “o” per le Regioni).
Tuttavia, dall’esame della proposta governativa si riscontrerebbero anche delle “note dolenti”. Innanzitutto, è da criticare la previsione di ventuno senatori di nomina presidenziale, con una consistenza numerica analoga a quella di due gruppi parlamentari nell’odierno Senato (in alternativa, Ainis propone un sorteggio tra cittadini qualificati a ricoprire tale incarico, come già emerso in seno alla Commissione dei Trentacinque).
Inoltre, Ainis sottolinea la necessità di concentrarsi anche su aspetti di mera “estetica” costituzionale, intervenendo sull’eccesso di dettaglio e di parole (specie negli articoli 55 e 70) che sembra caratterizzare la proposta del Governo.
A conclusione degli interventi programmati, ulteriori considerazioni sono state esposte da altre personalità presenti in sala.
In particolare, secondo la Prof.ssa Elisabetta Catelani è da chiarire se la riforma del Governo si riferisca ad un modello di Stato regionale o federale, anche perché solo in quest’ultimo caso si dovrebbe contemplare una rappresentanza paritaria tra le Regioni. Di contro, se la forma di Stato sussunta nella riforma non fosse quella federale (come traspare dal testo del disegno di legge costituzionale) si potrebbe prevedere che la rappresentanza sia proporzionale alla popolazione e coinvolga anche gli enti locali, sia pure non nella stessa misura delle Regioni, data l’importanza di valorizzare il ruolo di queste ultime anche per cercare di appianare sul nascere i numerosi conflitti di attribuzione con lo Stato.
Il Cons. Prof. Silvio Traversa reputa che la bocciatura della riforma del 2005 da parte del corpo elettorale sia derivata dal fatto che il referendum riguardava l’intera riforma, dove erano compresenti parti maggiormente condivisibili e novità ritenute incompatibili con le esigenze fondamentali del Paese.
Nel merito della proposta del Governo, dando per immodificabile la non elettività del Senato, Traversa suggerisce comunque di rafforzarne la rappresentatività in altri modi; in ogni caso, è criticabile la scelta di ventuno senatori demandata al Capo dello Stato, per i quali piuttosto si potrebbe prevedere, in alternativa, la nomina dei soggetti che abbiano svolto funzioni di un certo livello nell’organizzazione statale (quali i Presidenti di Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, al termine del loro mandato).
Infine, l’On. Enzo Lattuca ha espresso il proprio parere favorevole all’impianto della riforma, ferma restando la possibilità, da lui auspicata, di garantire margini di modificabilità in seno alle Commissioni parlamentari che saranno chiamate ad esaminare il testo.
In ogni caso, non possono essere sottaciuti dubbi circa il rischio di “strapotere” della minoranza a seguito del “premio” previsto dal c.d. Italicum, specie per le scelte di “garanzia” che il Parlamento è chiamato a compiere. A ciò si aggiunge il rafforzamento complessivo del ruolo del Governo che emerge dalla riforma costituzionale, per il quale si rende necessario attribuire maggiori poteri alle Assemblee, già afflitte da un problema di rappresentatività a seguito delle c.d. “liste bloccate” che il disegno di riforma elettorale non rimuove.