Consiglio di stato, Adunanza Plenaria 25 giugno 2014 n. 15 sulla possibilità di fare ricorso alle astreintes quando l’esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma di denaro.
A cura di Flaminia D’Angelo
La sentenza in commento si occupa di risolvere il contrasto giurisprudenziale circa la possibilità o meno di fare ricorso alle penalità di mora ai sensi dell’art. 114 co. 4 lett. e) c.p.a. quando l’esecuzione del giudicato da parte dell’amministrazione soccombente consista già nel pagamento di una somma di denaro.
Come viene chiarito dal Collegio, le penalità di mora sono misure coercitive indirette aventi carattere pecuniario inquadrabili nell’ambito delle pene private o delle sanzioni indirette, che il giudice dell’ottemperanza, su richiesta della parte vittoriosa, può imporre alla parte soccombente di pagare per ogni violazione, inosservanza o ritardo nell’esecuzione del giudicato: in sostanza, le penalità di mora mirano a vincere la resistenza del debitore inducendolo ad adempiere all’obbligazione sancita a suo carico dall’ordine del giudice.
Il modello delle penalità di mora è disciplinato anche nel processo civile all’art 614-bis c.p.c., (introdotto con la riforma del 2009) intitolato «Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare» il quale dispone che «con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento […]».
La riforma del 2009 ha rappresentato il primo passo verso l’adeguamento dell’ordinamento nazionale al panorama degli ordinamenti stranieri più evoluti in materia: prima del 2009, infatti, la possibilità di irrogare una penalità di mora poteva avvenire solo in relazione a fattispecie tassativamente previste dalla legge. Tra queste, in particolare: l’art 18, u.c. dello Statuto dei lavoratori in base al quale il datore di lavoro, in caso di illegittimo licenziamento, è tenuto al pagamento di una somma commisurata alle retribuzioni dovute dal momento del licenziamento fino a quello dell’effettivo reintegro; gli artt. 124, co. 2, e 131, co. 2, del codice della proprietà industriale, che, in tema di brevetti, prevede l’adozione di una sanzione pecuniaria in caso di violazione della misura inibitoria applicata nei confronti dell’autore della violazione del diritto di proprietà industriale; l’art. 156 della legge sul diritto d’autore, relativo alla protezione del diritto d’autore, che prevede parimenti una sanzione pecuniaria in caso di inosservanza della statuizione inibitoria; l’art. 8, co. 3, d. lgs. n. 231/2002, che, in tema di ritardato pagamento nelle transazioni commerciali, contempla la possibilità di irrogare una penalità di mora in caso di mancato rispetto degli obblighi imposti dalla sentenza che abbia accertato l’iniquità delle clausole contrattuali; l’art. 140, co. VII, del codice del consumo, che ha previsto misure pecuniarie per il caso di inadempimento del professionista a fronte di pronunce rese dal giudice civile su ricorsi proposti dalle associazioni di tutela degli interessi collettivi in materia consumeristica; l’art. 709-ter, co. 2, n. 4, c.p.c., che, con riferimento alle controversie relative all’esercizio della potestà genitoriale o alle modalità dell’affidamento dei figli, prevede, a carico del genitore inadempiente alle obbligazioni di facere, il pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria a favore della Cassa delle ammende.
Le penalità di mora sono state introdotte, nel nostro ordinamento, sul base del modello francese delle astreintes le quali, ai sensi dell’art. 6 della L. 5 julliet 1972 sono “indépendantes des dommages-interets” essendo ispirate ad una logica meramente sanzionatoria. Il potere di disporre delle astreintes è stato dapprima attribuito al Conseil d’Etat nel 1963 e poi ai Tribunaux Administratifs e alle Cours Administratives d’Appel nel 1995.
Istituti simili sono presenti anche in altri ordinamenti esteri come in quello tedesco ed inglese: mentre le Zwangsgeld tedesche possono però assistere solo provvedimenti di condanna a obblighi di fare infungibili o di non fare (ugualmente negli ordinamenti rumeno, greco e sloveno) e consistono in una condanna al pagamento di una somma di denaro (Zwangsgeld/Ordnungsgeld) in favore dello Stato, con la possibilità di conversione in arresto (Zwangsgeld/Ordnungshaft) nel caso in cui il debitore non disponga di un patrimonio capiente; il Contempt of Court inglese può essere pronunciato a fronte della violazione di qualunque provvedimento dell’autorità giudiziaria, a prescindere dal suo contenuto, e consiste in una sanzione pecuniaria da versarsi allo Stato (in alternativa al sequestro di beni) o in una sanzione detentiva (arrest for the contempt of the court), con facoltà di scelta discrezionale per il giudice tra la misura patrimoniale e quella limitativa della libertà personale.
In sostanza, negli ordinamenti stranieri, le astreintes, indipendentemente dalla loro disciplina, assolvono sempre ad una funzione sanzionatoria in quanto consistono in strumenti di coazione del debitore all’adempimento delle pronunce giurisdizionali.
Sulla base di questa prima osservazione, l’Adunanza Plenaria ha quindi chiarito che le astreintes ex art 114 co. 4 lett. e) c.p.a. divergono da quelle previste nel processo civile in quanto:
«a) mentre la sanzione di cui al 614-bis c.p.c. è adottata con la sentenza di cognizione che definisce il giudizio di merito, la penalità è irrogata dal Giudice Amministrativo, in sede di ottemperanza, con la sentenza che accerta il già intervenuto inadempimento dell’obbligo di contegno imposto dal comando giudiziale; b) di conseguenza, nel processo civile la sanzione è ad esecuzione differita, in quanto la sentenza che la commina si atteggia a condanna condizionata (o in futuro) al fatto eventuale dell’inadempimento del precetto giudiziario nel termine all’uopo contestualmente fissato; al contrario, nel processo amministrativo l’astreinte, salva diversa valutazione del giudice, può essere di immediata esecuzione, in quanto è sancita da una sentenza che, nel giudizio d’ottemperanza di cui agli artt. 112 e seguenti c.p.a., ha già accertato l’inadempimento del debitore; c) le astreintes disciplinate dal codice del processo amministrativo presentano, almeno sul piano formale, una portata applicativa più ampia rispetto a quelle previste nel processo civile, in quanto non si è riprodotto nell’art. 114, co. 4, lett. e, c.p.a., il limite della riferibilità del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un non fare o un fare infungibile; d) la norma del codice del processo amministrativo non richiama i parametri di quantificazione dell’ammontare della somma fissati dall’art. 614 bis c.p.c.; e) il codice del processo amministrativo prevede, accanto al requisito positivo dell’inesecuzione della sentenza e al limite negativo della manifesta iniquità, l’ulteriore presupposto negativo consistente nella ricorrenza di “ragioni ostative”».
Chiarito ciò, il Collegio ha quindi richiamato i due orientamenti diffusisi in giurisprudenza circa la possibilità o meno di fare ricorso alle astreintes ex art 114 co. 4 lett. e) c.p.a. quando l’esecuzione del giudicato da parte dell’amministrazione soccombente consista già nel pagamento di una somma di denaro.
Secondo un primo orientamento minoritario le astreintes non potrebbero essere imposte a fronte di condanne pecuniarie.
Gli argomenti addotti a sostegno di questa impostazione riguarderebbero, in primo luogo, la funzione della penalità di mora nel giudizio di ottemperanza che sarebbe quella di “incentivare l’esecuzione di condanne di fare o non fare infungibile prima dell’intervento del commissario ad acta, il quale comporta normalmente maggiori oneri per l’Amministrazione, oltre che maggiore dispendio di tempo per il privato”. Diversamente opinando, si acconsentirebbe ad «una tutela diversificata dello stesso credito a seconda del giudice dinanzi al quale si agisca atteso che il creditore pecuniario della p.a. nel giudizio di ottemperanza potrebbe ottenere maggiori e diverse utilità rispetto a quelle conseguibili nel giudizio di esecuzione civile solo in base ad un’opzione puramente potestativa”.
Un secondo argomento concernerebbe poi la necessità di valorizzare l’iniquità della condanna al pagamento di una somma di danaro qualora l’obbligo oggetto di domanda giudiziale sia di natura pecuniaria e quindi sia già assistito, per il caso di ritardo nel suo adempimento, dall’obbligo accessorio degli interessi legali cui la somma dovuta a titolo di astreinte andrebbe ad aggiungersi, con conseguente «duplicazione ingiustificata di misure volte a ridurre l’entità del pregiudizio cagionato dalla violazione, inosservanza o ritardo nell’esecuzione del giudicato, nonché dell’ingiustificato arricchimento del soggetto già creditore della prestazione principale e di quella accessoria”.
L’ultimo argomento a sostegno di questo orientamento si baserebbe sull’impossibilità di cumulare un modello di esecuzione surrogatoria con uno di carattere compulsorio dal momento che il sistema nazionale di esecuzione amministrativa della decisione porrebbe già a presidio delle ragioni debitorie dell’amministrazione “la doppia garanzia sul piano patrimoniale del riconoscimento degli accessori del credito e su quello coercitivo generale dell’intervento del Commissario ad acta”.
L’orientamento maggioritario ritiene, al contrario, che la penalità di mora dovrebbe trovare applicazione anche per le sentenze di condanna pecuniaria sulla base di una serie di argomenti.
Il primo avrebbe natura letterale: a differenza dell’art. 614-bis c.p.c., infatti, il testo dell’art. 114 c.p.a. non distingue per tipologie di condanne rispetto al potere del giudice di disporre la condanna della P.A. inadempiente al pagamento della penalità di mora e questa scelta sarebbe “coerente con il rilievo che il rimedio dell’ottemperanza, grazie al potere sostitutivo esercitabile, nell’alveo di una giurisdizione di merito, dal giudice in via diretta o mediante la nomina di un commissario ad acta, non conosce, in linea di principio, l’ostacolo della non surrogabilità degli atti necessari al fine di assicurare l’esecuzione in re del precetto giudiziario”;
Il secondo riguarderebbe, invece, la natura giuridica dell’astreinte: assolvendo ad una funzione sanzionatoria e non riparatoria, questo strumento sarebbe volto semplicemente a sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria ed a stimolare il debitore all’adempimento, integrando una misura di pressione nei confronti della P.A. necessaria ad assicurare il pieno e completo rispetto degli obblighi conformativi discendenti dal decisum giudiziale.
L’ultimo argomento si baserebbe inoltre sul rilievo secondo cui la matrice sanzionatoria dell’astreinte sarebbe confermata dalla lettera dell’art. 614-bis, co. 2, cpc che prende in considerazione al fine di quantificare il danno «anche di altri profili, estranei alla logica riparatoria, quali il valore della controversia, la natura della prestazione e ogni altra circostanza utile, tra cui si può annoverare il profitto tratto dal creditore per effetto del suo inadempimento».
Con la sentenza in commento, l’Adunanza Plenaria ha aderito a questo secondo orientamento sulla base di diverse ulteriori osservazioni.
La prima riguarderebbe la necessità di leggere l’istituto in un’ottica comparata: il modello francese infatti ha un’indiscussa funzione sanzionatoria che è volta a rafforzare l’effettività delle decisioni giurisprudenziali trovando applicazione anche per le condanne pecuniarie; uguali considerazioni dovrebbero valere per le astreintes italiane.
Questo argomento, secondo la Plenaria, si salderebbe poi con quello letterale: il legislatore nazionale, in sede di adattamento della conformazione dell’istituto alle peculiarità del processo amministrativo, avrebbe scientemente voluto estendere il raggio di azione rispetto all’art. 614 bis c.p.c., articolo che non è neppure richiamato, se non nei lavori preparatori.
Vi sarebbe poi un argomento di ordine sistematico: mentre l’art. 614 bis c.p.c. si calerebbe in un processo in cui, per le pronunce non attuabili in re, manca una forma di esecuzione diretta e questa deve necessariamente essere colmata con una tecnica compulsoria quale la coercizione indiretta del debitore, l’art 114 co. 4 lett. e) c.p.a. si inserirebbe in un processo che prevede la figura del commissario ad acta dotato di poteri sostitutivi a prescindere dalla natura della sentenza di condanna e ciò attribuirebbe alle astreintes una funzione più marcatamente sanzionatoria.
A ciò si aggiungerebbe anche l’argomento di stampo costituzionale secondo cui i due diversi meccanismi di esecuzione, lungi dal porre in essere una disparità di trattamento, evidenziano invece un arricchimento del bagaglio delle tutele normativamente garantite in attuazione dell’art. 24 Cost. in uno con i canoni europei e comunitari richiamati dall’art. 1 c.p.a.
Non sarebbe infatti ravvisabile alcuna discriminazione del debitore pubblico per essere soggetto a tecniche di esecuzione diverse e più incisive rispetto a quelle private.
Secondo il Collegio, al contrario, tale differenziazione sarebbe proprio il «precipitato logico e ragionevole della peculiare condizione in cui versa il soggetto pubblico destinatario di un comando giudiziale. La pregnanza dei canoni costituzionali di imparzialità, buona amministrazione e legalità che informano l’azione dei soggetti pubblici, qualificano in termini di maggior gravità l’inosservanza, da parte di tali soggetti, del precetto giudiziale, in guisa da giustificare la previsione di tecniche di esecuzione più penetranti, tra le quali si iscrive il meccanismo delle penalità di mora».
A nulla varrebbe, secondo la Plenaria, il richiamo alla “doppia riparazione di un unico danno” di cui in tale modo verrebbe a beneficiare il creditore: alle astreintes, diversamente da quanto accade per i punitive damages, si può accedere infatti anche in mancanza del danno o della sua dimostrazione. Sostiene inoltre il Collegio che «la locupletazione lamentata, frutto della decisione legislativa di disporre un trasferimento sanzionatorio di ricchezza, ulteriore rispetto al danno, dall’autore della condotta inadempitiva alla vittima del comportamento antigiuridico, si verifica in modo identico anche per sentenze aventi un oggetto non pecuniario, per le quali parimenti il legislatore, pur se non attraverso meccanismi automatici propri degli accessori del credito pecuniario (rivalutazione e interessi), prevede l’azionabilità del diritto al risarcimento dell’intero danno da inesecuzione del giudicato (art. 112, comma 3, cit), in aggiunta alla possibilità di fare leva sul meccanismo delle penalità di mora. Anche sotto questo punto di vista, quindi, le sentenze aventi ad oggetto un dare pecuniario non pongono problemi specifici e non presentano caratteristiche diverse rispetto alle altre pronunce di condanna».
La Plenaria conclude però evidenziando come il legislatore nazionale abbia voluto evitare locupletazioni eccessive o sanzioni troppo afflittive, inserendo all’art. 114 c.p.a. due diversi limiti all’applicazione dell’astreintes e cioè “la manifesta iniquità” (prevista anche all’art. 614 bis cpc) e la “sussistenza di altre ragioni ostative” (ipotesi autonoma). In sostanza, proprio in considerazione della specialità del debitore pubblico, il legislatore avrebbe attribuito al giudice dell’ottemperanza, nell’ambito della sua ampia discrezionalità, il potere-dovere di verificare di volta in volta la sussistenza delle circostanze che possano ammettere o precludere (ad ex. esistenza di vincoli normativi o di bilancio) l’applicazione dell’astreintes.