Tavola rotonda Roma, 23 gennaio 2014
Il 23 gennaio 2014, presso la Sala del Seminario della Camera dei Deputati, si è svolta la tavola rotonda concernente il tema “Quale legge elettorale dopo la sentenza della Corte Costituzionale”, nel corso della quale sono stati analizzati i contenuti della sentenza n. 1/2014 della Corte ed i possibili riflessi su eventuali, future iniziative di riforma della normativa elettorale da parte del Legislatore, con particolare riferimento alla bozza recentemente presentata in Parlamento e sottoscritta da Partito Democratico, Forza Italia e Nuovo Centro Destra.
Nell’introdurre l’incontro, la prof.ssa Sofia Ventura ha evidenziato la duplice rilevanza politica del giudizio di legittimità costituzionale della legge elettorale: “in primis”, la pronuncia determina oggettivamente ricadute sulle dinamiche politiche in corso, “in secundis” accoglie specifiche tesi politiche sulla concezione della Costituzione e della democrazia italiana, cioè in senso assembleare e secondo un implicito impianto proporzionalista.
Con riferimento al premio di maggioranza, la Corte ha fatto riferimento nella sentenza al principio di ragionevolezza, evidenziando l’alterazione della rappresentanza democratica a seguito della trasformazione di una minoranza in una maggioranza, pur se secondo la Ventura tale alterazione diventa inevitabile se si vuole perseguire l’obiettivo della governabilità.
Per quanto riguarda il principio di uguaglianza del voto, Ventura riscontra uno “stiramento del concetto” (come direbbe il prof. Giovanni Sartori) di voto “diretto” (tenendo conto che in ogni sistema vi è sempre e comunque un certo grado di mediazione da parte dei partiti) e “libero” (che dovrebbe essere inteso piuttosto come segretezza del voto) da parte della stessa Corte.
L’impressione di fondo è che vi sia una discrezionalità amplissima del giudice costituzionale il quale, peraltro, si muove in ambiti non necessariamente di sua competenza, al punto da proporre un certo sistema elettorale, quello proporzionale con una preferenza, e sostituirsi così al Legislatore (pur se tale esito appare comprensibile, alla luce del perdurante stallo politico nell’intervenire sulla specifica materia).
In ogni caso, secondo la Ventura è tutt’altro che pacifico che la normativa di risulta sia funzionante, in quanto necessiterebbe di ulteriori disposizioni, anche se solo di contorno, specie con riferimento alla previsione del voto di preferenza.
Nel suo intervento, Nicola Lettieri ha ripercorso i principali aspetti di interesse della sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del marzo 2012 sul caso Saccomanno, nel quale erano stati proposti i medesimi rilievi oggetto della sentenza n. 1/2014 della Corte Costituzionale, pur se con esiti opposti, avendo la Corte Europea deciso per la manifesta infondatezza. In presenza di una sostanziale identità delle normative di riferimento -art. 3 par. 1 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo da una parte (che fa riferimento a “libere elezioni a scrutinio segreto”, “libera espressione del popolo nella scelta del corpo legislativo”), disposizioni della Costituzione italiana dall’altra (specificamente l’art. 48, che prescrive la personalità e l’uguaglianza del voto), la materia del contendere riguardava le c.d. “liste bloccate” e la mancanza di una soglia minima per l’attribuzione del “premio”.
Nel corso del giudizio, la difesa del Governo italiano ha evidenziato che, da un punto di vista comparatistico, 13 Paesi europei hanno liste bloccate, cinque hanno le preferenze e altri Stati presentano soluzioni intermedie: da ciò si evince che non vi è un consenso unanime a livello europeo circa l’abolizione delle liste bloccate. Peraltro, nel caso dell’Italia le stesse trovano giustificazione dalla circostanza che nel nostro ordinamento sono previste espresse sanzioni penali per voto di scambio, infiltrazioni mafiose, indebitamento dei candidati che li rendono ricattabili nei confronti dei soggetti finanziatori di varia (e dubbia) provenienza: fenomeni, questi, diventati ormai una patologia del sistema e che le liste bloccate tendono quantomeno a frenare. A ciò si aggiunga il fatto che tale meccanismo consente l’elezione di personale tecnicamente esperto ma poco conosciuto dall’elettorato.
Per quanto riguarda il “premio”, Lettieri evidenzia che circa la metà dei Paesi membri del Consiglio d’Europa presenta un meccanismo di disproporzionalità nella tramutazione dei voti in seggi; al riguardo, bisogna anche tenere conto delle caratteristiche del sistema politico nazionale, caratterizzato strutturalmente da una offerta politica frammentata e da un perdurante trasformismo (cosa che, peraltro, lungi dal rappresentare un aspetto meramente negativo, ha spesso aiutato la governabilità).
Il prof. Francesco Saverio Marini ha concentrato la sua relazione su due aspetti principali concernenti la questione del “premio”: il ragionamento seguito dalla Corte Costituzionale nella pronuncia ed i limiti che ne derivano per il Legislatore.
Le premesse teoriche del giudizio di costituzionalità “de qua” possono essere sintetizzati nel fatto che non è stata costituzionalizzata, in sede di Assemblea Costituente, la scelta proporzionalistica, e che l’uguaglianza del voto vale solo in entrata e non anche per il risultato finale.
Ciò premesso, la manifesta irragionevolezza del “premio” di maggioranza è stata sostenuta dalla Corte in base alle seguenti argomentazioni.
“In primis”, il Giudice delle Leggi già si era espresso mediante moniti nel senso in precedenti pronunce concernenti il giudizio di ammissibilità di referendum elettorali.
In secondo luogo la legge n. 270/2005 non superava il test di proporzionalità (in quanto la misura adottata non era quella meno restrittiva tra tutte quelle possibili) e presentava meccanismi non coerenti con lo stesso impianto proporzionale che, in quanto tale, non può essere “distorto” eccessivamente per non ledere la legittima aspettativa di rappresentatività degli elettori che siffatto sistema inevitabilmente determina.
Tuttavia, Marini si chiede se tali argomenti sono in grado di dimostrare la ragionevolezza della norma. Il riferimento ai precedenti moniti appare autoreferenziale, mentre il test di proporzionalità viene usato raramente dalla Corte e quindi manca di solidità; infine l’argomento della “coerenza intrinseca” della proporzionale non appare risolutivo, dovendosi necessariamente ricollegare l’aspettativa dell’elettore al complessivo modo di trasformazione dei voti in seggi. Di fondo, Marini non cela il suo preconcetto sull’uso da parte della Corte Costituzionale del principio di “irragionevolezza” che peraltro, nel caso del “premio”, appare ancor più di difficile definizione.
Per quanto riguarda il disegno di riforma elettorale appena presentato in Parlamento, Marini rileva potenziali criticità proprio per la permanenza di un impianto proporzionale: la sentenza n. 1/2014, infatti, sembra circoscrivere i propri effetti proprio a siffatti sistemi: da una parte, la proporzionale legittima determinate aspettative di rappresentatività da parte dell’elettore, dall’altra eventuali (ed inevitabili) correttivi espongono il Legislatore al precedente giurisprudenziale. Anche perché, il precedente della Corte all’indomani della sentenza in esame non riguarda solo il merito della declaratoria di incostituzionalità, ma coinvolge anche il profilo dell’ammissibilità, per cui in futuro, esercitando una semplice azione di accertamento del diritto elettorale, potrebbe essere nuovamente coinvolta la Corte, magari già all’indomani dell’eventuale approvazione della bozza di riforma ora predisposta.
Ciò potrebbe essere un buon motivo, secondo Marini, per valutare la possibilità di introdurre un controllo preventivo della normativa elettorale da parte dello stesso Giudice delle Leggi.
Secondo il prof. Gino Scaccia, con la sentenza n. 1/2014 la legge elettorale è stata sottratta alla ragion politica per essere portata nell’alveo del giudizio di ragionevolezza e proporzionalità. Di fatto, la Corte Costituzionale ha occupato un ambito a lei sottratto, col fine precipuo di evitare la formazione di zone d’ombra del giudizio di costituzionalità nella particolare materia dei diritti politici dei cittadini: ciò si è riflesso nelle “acrobazie” argomentative della Corte, proprio per la ragion politica di fondo che permea la materia e che ha impedito di portare certi percorsi argomentativi alle proprie logiche conclusioni.
Nel merito, Scaccia evidenzia il paradosso di un Parlamento, come quello attuale, che la Corte ritiene debba restare in funzione con pienezza dei poteri in base al principio di continuità, mentre in realtà le Camere dovrebbero essere sciolte alla luce dell’alterazione del rapporto rappresentativo che riguarda la totalità dei parlamentari, eletti con liste bloccate. Dovrebbe valere, al riguardo, il precedente del 1994, allorquando l’allora Presidente della Repubblica aveva sciolto le Camere all’indomani del referendum elettorale che aveva introdotto il sistema maggioritario, cioè di fronte ad un caso di delegittimazione politica dell’organo assembleare obiettivamente meno grave di quello attuale.
Inoltre, nella pronuncia la Corte ha evidenziato la necessità di evitare una distorsione sproporzionata nella tramutazione dei voti in seggi, per non ledere l’aspettativa dell’elettore: se si adotta un sistema proporzionale, c’è maggiore necessità di aderire al principio di uguaglianza del voto, mentre con il maggioritario che incorpora strutturalmente la distorsione del voto è immaginabile uno scrutinio di proporzionalità meno stringente. In sintesi, se il Legislatore si preoccupa di assicurare la rappresentatività la Corte appare particolarmente “severa”, mentre se assume da principio l’obiettivo di una forte distorsione del voto, lo scrutinio diventa inevitabilmente più “blando”.
In relazione al problema della soglia minima per l’attribuzione del “premio”, Scaccia si chiede se esista una regola matematica in grado di configurare un limite estremo oltre il quale la disproporzionalità lede il principio di uguaglianza: tale valore minimo si può identificare in una soglia almeno del 40% perché, se inferiore, il voto alla lista vincente acquista un peso doppio rispetto a quello dato alle altre liste. Ad esempio, nella proposta di legge presentata in Parlamento che prevede l’attribuzione di un premio fino al 18% per la lista o coalizione che supera il 35% dei suffragi (cioè in un rapporto di 1 a 2) il voto alla lista vincente pesa per 1,5 scontando l’effetto del “premio” mentre quello alle altre liste è pari a 0,7, cioè meno della metà: in tal caso, la disproporzionalità appare evidente.
Con riferimento alle soglie di sbarramento, Scaccia ritiene che le stesse, se considerate unitamente ad altri meccanismi distorsivi della rappresentanza (come appunto al previsione di un “premio”), tendono a dare vita ad una “doppia strozzatura” del sistema elettorale, che dovrebbe essere evitata. Peraltro, secondo l’esperienza comparata, solo Georgia, Russia e Liechtenstein hanno soglie superiori al 5%, mentre negli altri Paesi dove queste sono previste si collocano tra il 4% ed il 5%: per completezza d’informazione, secondo una risoluzione del Consiglio d’Europa del 1997, lo sbarramento ottimale non dovrebbe eccedere il 3%.
Scaccia ricorda come la Corte Costituzionale tedesca abbia adottato un duplice orientamento su tale problematica: nel 1952 ha considerato legittima la “speerklausel” al 5%, mentre successivamente ha ritenuto illegittima la previsione di una soglia per il riparto dei seggi per l’elezione del Parlamento Europeo in quanto tale organo non esprime il governo dell’Unione Europea e, pertanto, in questo caso devono essere garantite massime condizioni di rappresentatività, non dovendo tenere conto delle esigenze di governabilità.
Il prof. Gianmario Demuro ritiene che la sentenza n. 1/2014 si fondi principalmente sul test di proporzionalità, elaborato dalla Corte sulla falsariga del test di ragionevolezza. Tuttavia, mentre le Corti solitamente vi fanno ricorso in base a “paletti” predefiniti, nella sentenza si fa un generico riferimento alla congruenza dei mezzi rispetto ai fini, senza un ancoraggio giurisprudenziale certo. Il problema è così quello di come calcolare la ragionevolezza del risultato ottenuto applicando la normativa elettorale e, in particolare, i meccanismi distorsivi ivi previsti che incidono sulla modalità di tramutazione dei voti in seggi.
Secondo Demuro, tale distorsione potrebbe comunque essere utile per applicare il principio delle pari opportunità, in applicazione dell’art. 51 della Carta. In ogni caso, la previsione di un “premio” eccessivo potrebbe essere incostituzionale: la ragionevolezza deve cioè essere intesa nel senso di non adottare meccanismi “contro natura” rispetto al sistema elettorale prescelto, come nel caso di un meccanismo fortemente distorsivo applicato ad un impianto proporzionale.
Secondo il prof. Andrea Morrone, i contenuti della sentenza erano sostanzialmente prevedibili: l’organo di garanzia riempie uno spazio quando c’è un vuoto della politica, secondo una sorta di rapporto di proporzionalità inversa in base al quale il primo si afferma in ambiti non di stretta competenza quando la seconda recede o rimane inerte.
Ciò premesso, Morrone ritiene che i contenuti della sentenza n. 1/2014 debbano essere contestualizzati rispetto al contesto cin cui la Corte si è trovata ad operare. E’ la modifica delle “condizioni al contorno” quella che spiega la decisione di inammissibilità del referendum elettorale nel 2011 e la pronuncia recente sul c.d. “Porcellum”.
In tale contesto, l’accordo politico tra partiti di opposta collocazione politica per la nuova legge elettorale (quale quello che sta emergendo tra i leaders del PD e di Forza Italia) deve essere visto positivamente, in quanto consente alla politica di rioccupare un proprio spazio e di ridare così dignità al Parlamento.
Tale valutazione positiva sul metodo non esclude comunque riserve sul merito della bozza di riforma, quale la possibilità che, per il recupero nazionale dei resti, uno dei candidati più votati sia “scavalcato” da un candidato recuperato (cosa che peraltro già poteva accadere nella legge elettorale per la Camera in vigore fino al 1991), la bassa soglia per l’attribuzione del “premio” (che comunque risponde almeno formalmente a quanto richiesto dalla Corte), la formazione di coalizioni che si sfaldino all’indomani delle elezioni una volta conseguito il “premio” e /o superato lo sbarramento. Morrone ritiene opportuno aumentare la soglia per l’eventuale ballottaggio, anche per ridurre il potere di ricatto dei piccoli partiti.
In ogni caso, Morrone nutre dubbi sull’autoapplicatività della legge risultante dalla sentenza ed attualmente in vigore, così come la possibilità che la materiale disciplina della modalità di voto avvenga con un decreto ministeriale (come adombrato dalla stessa Corte) in contrasto con il principio di riserva di legge vigente in materia elettorale, talchè una riforma della normativa elettorale appare indispensabile.
In conclusione, l’accordo in sé sulla bozza di nuova legge elettorale è da valutare positivamente, tuttavia potrebbe perdurare il rischio di instabilità dettato dall’impianto (ancora una volta) proporzionale della proposta.
Il prof. Giovanni Guzzetta, riprendendo il paradosso proposto da Scaccia nel suo intervento secondo cui sarebbe più legittimo un sistema meno rappresentativo fondato sui collegi uninominali, si chiede se la distinzione tra proporzionale e maggioritario, anziché essere colta in un’ottica di mera contrapposizione, dovrebbe essere inquadrata intendendo le varianti di leggi elettorali come punti più o meno estremi di un “continuum”, identificando così il grado di disproporzionalità di un sistema in base al recupero o meno dei resti non assegnati nella circoscrizione, fino al caso limite del collegio uninominale.
In merito agli effetti della sentenza n. 1/2014, la Corte è stata chiara nel precisare che la proclamazione degli eletti esaurisce i suoi effetti ed i rapporti connessi al procedimento elettorale: tuttavia Guzzetta si chiede se tale previsione si applica solo alle Camere o si estende anche agli altri procedimenti elettorali, “in primis” quelli delle Regioni. Peraltro, se la proclamazione è sempre definitiva non sarebbe possibile un controllo sulle elezioni e la stessa Giunta per le elezioni non potrebbe sindacare la proclamazione degli eletti. Per inquadrare la problematica bisogna così fare ricorso ad argomenti processualistici, in modo da ritenere non più contestabile la proclamazione definitiva al netto dei termini per l’impugnazione.
Nel Parlamento attuale pendono ricorsi relativi al procedimento elettorale, con la contestazione di vizi sulla legittimità della legge elettorale: è pertanto da chiedersi se sia sindacabile la proclamazione degli eletti quando oggetto del ricorso è il vizio di costituzionalità della legge che disciplina tale procedimento, con il paradosso, altresì, che sarebbe esperibile non un ricorso incidentale ma una azione di accertamento, ormai non più residuale alla luce delle risultanze dell’ammissibilità di cui alla sentenza n. 1/2014.
Secondo Guzzetta, nella pronuncia in argomento la Corte ha voluto precisare che nei procedimenti pendenti l’incostituzionalità delle disposizioni della legge elettorale si applica solo in via derogatoria, in applicazione del principio di continuità dello Stato: questo tuttavia appare in contraddizione con l’affermazione secondo cui l’elezione degli eletti è definitiva. Una soluzione alternativa sarebbe potuta essere quella di non arrivare alla conclusione dei procedimenti di convalida.
Nel suo intervento, il prof. Luca Antonini ha richiamato le risultanze del lavoro della Commissione degli esperti sulle riforme istituzionali, con particolare riferimento al superamento del principio di cooptazione degli eletti da parte delle segreterie di partito (obiettivo perseguibile sia col sistema uninominale, sia con il c.d. “modello spagnolo”, sia con l’introduzione delle preferenze) nonché alla dimensione demografica per valutare la grandezza del collegio. La riduzione della frammentazione, peraltro, può essere perseguita sia con l’introduzione di clausole di sbarramento, sia con piccole circoscrizioni senza recupero dei resti che può produrre, sia pure indirettamente, il medesimo effetto della soglia.
Sempre in sede di lavori della Commissione era emerso un largo consenso verso la forma di governo primo-ministeriale collegata ad un sistema proporzionale con sbarramento selettivo e “premi” in grado di garantire una maggioranza in termini di seggi del 55%.
Nell’esaminare il test di proporzionalità impiegato dalla Corte Costituzionale nella pronuncia in argomento, Antonini si domanda se tale requisito sarebbe rispettato in caso di alte soglie di sbarramento che non consentano di ottenere l’obiettivo della governabilità; al tempo stesso, non sarebbe superato il test di ragionevolezza qualora la coalizione che avesse conseguito il “premio” si sfaldasse all’indomani delle elezioni.
Da tali considerazioni emerge come arrivare alla “quadratura” del sistema con la proporzionale, pur corretta, non appare facile.
Il prof. Vincenzo Lippolis ha evidenziato come dopo la sentenza in esame la politica non sia più “padrona” della materia elettorale: in futuro, ogni legge approvata dal Parlamento potrà essere sindacata dalla Corte Costituzionale, con conseguente rischio di instabilità del quadro normativo di riferimento, specie per quanto riguarda le spinose questioni dell’effettiva conoscibilità dei candidati e la combinazione soglie-premio.
Il prof. Antonio D’Aloia ritiene, in premessa, che la governabilità dipenda dalla forma di governo. Il voto di preferenza appare un aspetto secondario (tra l’altro, non è previsto negli altri Paesi europei che presentano un sistema elettorale proporzionale) mentre bel altra importanza assume il meccanismo premiale.
Inoltre, D’Aloia evidenzia come di solito la valutazione degli effetti delle sentenze dovrebbe essere di competenza dell’operatore giuridico (come direbbe Zagrebelsky); invece nella sentenza n. 1/2014 le conseguenze del giudicato vengono precisate dalla stessa Corte, la quale esclude le situazioni esaurite, individuate, nel caso di specie, nel momento della proclamazione degli eletti (come se la Corte non avesse considerato l’art. 66 della Carta). Tuttavia, D’Aloia si domanda se sia “politicamente corretto” far finta di nulla ritenendo pienamente legittimo il Parlamento attualmente in carica -che dovrebbe predisporre la nuova legge elettorale e le stesse riforme costituzionali- nonostante lo stesso Giudice delle Leggi abbia detto che il c.d. “Porcellum” abbia causato una grave compressione del sistema democratico.
Il prof. Antonio Saitta ritiene che, a seguito della sentenza n. 1/2014 della Corte Costituzionale, l’attuale Parlamento, pur legalmente legittimato e nella pienezza dei poteri, risente di una crisi di legittimazione sostanziale, sia con riferimento al rapporto maggioranza/opposizione alterato dal “premio” che ai nomi degli eletti cui si ricollega la problematica della c.d. “lista bloccata”. E’ da notare, peraltro, che i presupposti per un eventuale scioglimento delle Camere appaiono ben più gravi di quelli che avevano motivato la fine anticipata della legislatura nel 1994. Ciò rende difficile anche il cammino delle riforme costituzionali che dovrebbero essere avviate nella corrente legislatura ma che l’attuale “vulnus” alla legittimità sostanziale delle Assemblee rende difficile porre in essere.
Con riferimento alla legge elettorale di risulta, Saitta ritiene che siamo di fronte ad un ritorno al passato, con le medesime criticità della normativa in vigore fino al 1992, anzi ulteriormente esacerbate dalla presenza di circoscrizioni più ampie e dall’indebolimento della tendenza bipolare del sistema, peraltro in presenza di una terza forza politica con un seguito importante come il Movimento 5 Stelle.
Infine, rimangono i vecchi problemi -“criminogeni”- collegati al sistema delle preferenze, che rischiano peraltro di essere acuiti dall’ampiezza dei collegi previsti dalla normativa di risulta della sentenza n. 1/2014, nonché dall’assenza di partiti strutturati sul territorio.
Nell’intervento del Dott. Massimo Nardini, è stato evidenziato, in premessa, il paradosso di una legge elettorale che presenta più numeri, percentuali, parametri quantitativi rispetto alla normativa in materia di bilancio, che dovrebbe esprimere il massimo di tecnicismo. Ciò appare il segnale di una certa artificiosità della legislazione “ de qua”, motivo per cui la Corte Costituzionale è stata in grado di “aggredire” la legge n. 270/2005 e, in futuro, non possono escludersi ulteriori ricorsi verso una nuova legge elettorale che presenti ancora un impianto proporzionale arricchito da svariati meccanismi disproporzionali, come paventato da Lippolis nel suo intervento.
In generale, sarebbe auspicabile che il Legislatore puntasse sulla modulazione della grandezza del collegio, secondo l’impostazione di Guzzetta secondo cui non esistono schemi rigidi di leggi elettorali ma tutti i modelli si muovono all’interno di uno “spettro” comune, connesso, di fondo, alla posizione del sistema prescelto tra i due sistemi “estremi”, il collegio uninominale e il proporzionale con collegio unico nazionale, che a sua volta riflettono l’entità del recupero dei resti a livello circoscrizionale.
Nel concludere, appare evidente l’inscindibile nesso tra legge elettorale e la forma di governo, così come non possono essere negate le criticità del sistema parlamentare italiano come tratteggiato in Costituzione ed inverato nella prassi repubblicana, anche alla luce di quella sorta di “ansia da prestazione” che vede il Legislatore, negli ultimi anni, intento a perseguire l’obiettivo di individuare, a tutti i costi, una maggioranza già nel momento della consultazione elettorale. In tal modo, infatti, si rischia di perdere di vista l’obiettivo di realizzare, all’interno del Parlamento, le condizioni atte ad assicurare la governabilità intervenendo sulla qualità, la strutturazione, l’unità programmatica delle forze di governo, anziché concentrare l’attenzione sul mero aspetto quantitativo di un “premio” artificiosamente attribuito al primo partito o coalizione, spesso con irragionevoli forzature dell’impianto di base del sistema elettorale.
Nelle conclusioni della tavola rotonda, il Presidente Piero Alberto Capotosti ha evidenziato l’importanza che la Corte non abbia fatto ricorso all’inammissibilità per “eludere” il merito delle questione sottoposte al suo sindacato dalla Corte di Cassazione.
Con riferimento all’incostituzionalità del “premio” attribuito senza soglia, Capotosti si domanda se non ci sia qualcosa in più rispetto alla mera fissazione di un “quantum” minimo: se la soglia fosse al 20% ed il “premio” al 55%, si rispetterebbe il requisito della ragionevolezza ai sensi della sentenza n. 1/2014?
Nel c.d. “Italicum”, il “premio” è collegato al raggiungimento di una soglia minima del 35% (Capotosti ritiene più opportuna una soglia del 38%-40%); c’è tuttavia una certa preoccupazione su come verrà articolato l’eventuale ballottaggio, per il rischio che la legge venga portata nuovamente al vaglio della Corte Costituzionale tramite l’azione di accertamento del diritto di voto. Ad esempio, se le prime due formazioni politiche conseguono nelle elezioni rispettivamente il 21% ed il 20%, al ballottaggio quella più votata otterrebbe il 55% dei seggi nonostante il ridotto numero di voti ottenuti al primo turno, tenuto conto, tra l’altro, che l’affluenza al ballottaggio risulta solitamente inferiore. Peraltro, il ballottaggio tra coalizioni rappresenta un “unicum”, a fronte di un modello generale che prevede il ballottaggio tra personalità (siano essi candidati al Parlamento e/o ad una carica monocratica).
Secondo Capotosti “il diavolo si annida nella coalizione”: da una parte le coalizioni rappresentano il modo per “entrare nella cittadella” (cioè avere seggi in Parlamento), tuttavia le stesse, se si sfaldano all’indomani delle elezioni, perdono la loro ragion d’essere e diventano meramente strumentali a superare lo sbarramento e conseguire il “premio” di maggioranza, senza garantire la governabilità.
Il problema di fondo è che il Legislatore ha cercato in questi ultimi anni un sistema elettorale “forte” nell’ambito di una forma di governo parlamentare, cosa che ha dato vita al tentativo di trovare “scorciatoie” mediante la riforma della legge elettorale, in luogo di cambiamenti che avrebbero dovuto coinvolgere il sistema istituzionale nel suo insieme.