Corte Costituzionale, 12 luglio 2012, n. 198 – In materia di costi della politica. La Corte distingue Regioni ordinarie e Regioni speciali

31.05.2012

Corte Costituzionale, sentenza n. 198, del 12 luglio 2012

Con più ricorsi, diverse Regioni hanno impugnato, fra l’altro, l’articolo 14 del decreto-legge 13

agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo),

conv. con mod., dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, che detta misure riguardanti il

numero dei consiglieri e degli assessori regionali, nonché il trattamento economico e previdenziale

dei consiglieri, e prevede l’istituzione di un Collegio dei revisori dei conti. 

Norme impugnate

Le Regioni Basilicata, Campania, Lombardia, Calabria e Sardegna hanno impugnato l’intero articolo 14 del decreto-legge n.138 del 2011. Le Regioni Lazio, Emilia-Romagna, Umbria e Veneto hanno impugnato il solo comma 1, mentre le Regioni autonome Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste  e  Trentino Alto-Adige/Südtirol, nonché le Province autonome di Trento e Bolzano hanno impugnato il solo comma 2. 

Con il ricorso n. 11 del 2012, la Regione Veneto ha impugnato l’articolo 30 della legge 12

novembre 2011, n.183 (Legge di stabilità 2012), che ha parzialmente modificato l’articolo 14,  comma  1,  del decreto-legge n. 138 del 2011.

I parametri invocati nei ricorsi sono gli articoli 3, 70, 77, 97, 100, 103, 114, 116, 117, 119, 121, 122 e 123 Cost., nonché il principio di leale collaborazione e l’articolo 10 della legge  costituzionale  18  ottobre  2001,  n.  3.

Nel merito, le censure prospettate possono essere suddivise in due gruppi: il primo relativo

all’art.  14,  comma  2,  che  riguarda  le  sole  Regioni  a  statuto  speciale  e  le  Province autonome;  il secondo all’art. 14, comma 1. 

L’art.  14,  comma  2,  del  decreto-legge  n.  138  del  2011,  in  base  al  quale  l’adeguamento  ai

parametri previsti dal comma 1 del medesimo articolo è «condizione per l’applicazione» dell’art. 27

della  legge  n.  42  del  2009  ed  «elemento  di  riferimento per l’applicazione di misure premiali  o sanzionatorie previste dalla  normativa vigente» è impugnato dalle Regioni autonome Sardegna, Trentino-Alto Adige/Südtirol e Valle d’Aosta//Vallée d’Aoste, nonché dalle Province di Trento e di Bolzano per violazione degli artt. 3, 116, 117, commi terzo e sesto, e 119 Cost. Tutte le ricorrenti lamentano,  inoltre,  la  violazione  delle  disposizioni  dei  rispettivi statuti relative alla forma di governo della Regione e delle Province autonome, alla modalità di elezione dei consiglieri e degli assessori regionali e provinciali, al numero e all’indennità dei consiglieri (artt. 14, 15, 16 e 25 dello Statuto  della  Regione  Valle  d’Aosta/Vallée  d’Aoste;  artt.  24,  25,  36,  47  e  48  dello  Statuto  del Trentino-Alto Adige/Südtirol; artt. 15 e 16 dello Statuto della Regione Sardegna). Infine, ad avviso della Regione autonoma Trentino-Alto  Adige/Südtirol e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, la violazione delle disposizioni statutarie avrebbe l’effetto di modificare in via diretta la composizione degli organi di governo della Regione e delle Province, violando così gli artt. 103, 104 e 107 dello statuto regionale, che disciplinano il procedimento di modifica dello stesso statuto. 

Argomentazioni della Corte

1) La questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 14, comma 2, è fondata. 

La disciplina relativa agli organi delle Regioni a statuto speciale e ai loro componenti è contenuta

nei  rispettivi  statuti.  Questi, adottati con legge  costituzionale, ne garantiscono le  particolari

condizioni di autonomia, secondo quanto disposto dall’art. 116 Cost. L’adeguamento da parte delle

Regioni a statuto speciale e delle Province autonome ai parametri di cui all’art. 14, comma 1, del

decreto-legge n. 138 del 2011 richiede, quindi, la modifica di fonti di rango costituzionale. A tali

fonti una legge ordinaria non può imporre limiti e condizioni. Non a caso, l’art. 19-bis del decreto-

legge  n.  138  del  2011,  non  impugnato,  stabilisce  che  «l’attuazione  delle  disposizioni»  di  tale decreto-legge da parte delle Regioni a statuto speciale deve avvenire «nel rispetto dei loro statuti e delle relative norme di attuazione e secondo quanto previsto» dall’art. 27 della legge n. 42 del 2009.  Dunque, la Corte dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2, del decreto-legge n. 138 del 2011, per violazione dell’art. 116 Cost

2) La questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, del decreto-legge n. 138 del

2011, sollevata dalle Regioni a statuto ordinario, si articola in tre gruppi di censure:

– il primo, avente ad oggetto l’intero art. 14, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2011, in riferimento agli artt. 117, commi secondo, terzo e quarto, 119, 122 e 123  Cost.; 

– il secondo, concernente la previsione, contenuta nell’art. 14,  lettere  a)  e  b),  in  base  alla  quale  la  riduzione  sia  dei  consiglieri  sia  degli assessori deve essere adottata da ciascuna Regione entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto e deve essere efficace dalla prima  legislatura regionale successiva a quella della data di entrata in vigore del decreto stesso, con  riguardo  all’art.3 Cost.; 

– il terzo, avente ad  oggetto l’istituzione del Collegio dei revisori dei conti, in riferimento agli artt. 100, 103, 117, commi terzo e sesto, e 121 Cost. 

– Secondo il primo gruppo oggetto di censura, l’art. 14, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2011, nel prevedere il numero massimo di consiglieri e assessori regionali, la riduzione degli emolumenti

dei consiglieri, nonché l’istituzione di un Collegio dei revisori dei conti, violerebbe l’art. 117, terzo

comma, Cost., perché detterebbe una disciplina di dettaglio in materia di competenza concorrente;

l’art.  119  Cost,  in  quanto  stabilirebbe  le  modalità  con  cui  le  Regioni  devono  raggiungere  gli obiettivi  di  finanza  pubblica  fissati  dal  patto  di  stabilità;  l’art  117,  quarto  comma,  Cost.,  perché invaderebbe l’ambito riservato alla potestà legislativa regionale residuale; l’art. 123 Cost., in quanto lederebbe  la  potestà  statutaria  delle  Regioni;  l’art.  122  Cost.,  perché  attribuirebbe  al  legislatore statale una competenza ulteriore rispetto alla determinazione della durata degli organi elettivi e dei principi fondamentali relativi al sistema di elezione e ai casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale, nonché dei consiglieri regionali.

Secondo la Corte, il primo gruppo di questioni non sono fondate nel merito. La disposizione in esame detta parametri diretti esplicitamente al «conseguimento degli obiettivi stabiliti nell’ambito del coordinamento della finanza pubblica». Le lettere a) e b) dell’art. 14, comma 1, fissano un limite al numero dei consiglieri e degli assessori, rapportato agli abitanti, lasciando alle  Regioni l’esatta definizione della composizione dei Consigli e delle Giunte regionali. La lettera c) fissa un «tetto» all’ammontare degli emolumenti dei consiglieri, che non possono essere superiori a quelli previsti per i parlamentari: si tratta di un «limite complessivo», che lascia alle Regioni un autonomo margine di scelta (sentenze n. 182 e n. 91 del 2011; n. 326 del 2010 e n. 297, n. 284 e n. 237 del 2009). Anche le disposizioni di cui alle lettere d) ed f) dell’art. 14, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2011, prevedendo, rispettivamente, che il trattamento economico dei consiglieri regionali debba essere commisurato all’effettiva partecipazione ai  lavori del  Consiglio, e che il  loro trattamento previdenziale debba essere di tipo contributivo, pongono precetti di portata generale per il contenimento della spesa.    

Accertata la finalità della disposizione impugnata, va individuata la materia nella quale interviene.

In particolare, la disposizione censurata, fissando un rapporto tra il numero degli abitanti e quello dei consiglieri, e quindi tra elettori ed eletti (nonché tra abitanti, consiglieri e assessori), mira a garantire il principio in base al quale tutti i cittadini hanno il diritto di essere egualmente rappresentati.  In assenza di criteri posti dal legislatore statale, che regolino la composizione degli organi regionali, può verificarsi – come avviene attualmente in alcune Regioni, sia nell’ambito dei Consigli che delle Giunte  regionali  –  una marcata diseguaglianza nel rapporto elettori-eletti (e  in  quello  elettori-assessori): i seggi  (nel Consiglio e nella Giunta) sono ragguagliati in misura  differente alla popolazione e,  quindi,  il valore del voto  degli elettori (e quello di scelta degli assessori)  risulta diversamente ponderato da Regione a Regione. Come già notato, il principio relativo all’equilibrio rappresentati-rappresentanti non riguarda solo il rapporto  tra  elettori  ed  eletti,  ma  anche  quello  tra  elettori  e  assessori  (questi  ultimi  nominati).

La Corte costituzionale ha già chiarito che  «il principio di eguaglianza, affermato dall’art. 48, si ricollega a quello più ampio affermato dall’art. 3», sicché «quando nelle elezioni di secondo grado l’elettorato attivo è attribuito ad un cittadino eletto dal popolo in sua rappresentanza, non contrasta col principio di  eguaglianza,  ma  anzi  vi  si  conforma,  la  norma  che  faccia  conto  del  numero  di  elettori  che  gli conferirono  il  proprio  voto,  e  con  esso  la  propria  fiducia»  (sentenza  n.  96  del  1968).  Principio analogo vale per gli assessori, sia perché, in base all’art. 123 Cost., «forma di governo» e «principi fondamentali di organizzazione e funzionamento» debbono  essere «in   armonia  con  la Costituzione»,  sia  perché  l’art. 51  Cost. subordina  al  rispetto  delle  «condizioni  di  eguaglianza» l’accesso non solo alle «cariche elettive», ma anche agli «uffici pubblici» (non elettivi). 

La disposizione censurata, quindi, non vìola gli artt. 117, 122 e 123 Cost., in quanto, nel  quadro della finalità generale del contenimento della spesa pubblica, stabilisce, in coerenza con il principio di eguaglianza, criteri di proporzione tra elettori, eletti e nominati. 

– Le Regioni Emilia-Romagna e Umbria censurano la previsione, contenuta nelle lettere a) e

b), dell’art. 14,  comma  1,  del  decreto-legge  n.  138  del  2011  in  base  alla  quale  la  riduzione  del numero dei consiglieri e degli assessori regionali rispetto a quello attualmente in vigore deve essere adottata da ciascuna Regione entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del medesimo decreto-legge  e  deve  essere  efficace  dalla  prima  legislatura  regionale  successiva  a  quella  della  data  di entrata in vigore del decreto stesso. Poiché l’iter di approvazione dello statuto è suscettibile di avere una  durata  maggiore,  a  causa  dell’eventuale  referendum  e  dell’eventuale  questione  di  legittimità costituzionale previsti dall’art. 123 Cost., la Regione sarebbe ritenuta responsabile per il rispetto di un  termine  (previsto  sia  per  l’adozione  della  modifica,  sia  per  la  sua  efficacia)  di  cui  essa  non dispone compiutamente, in violazione dell’art. 3 Cost. 

Secondo la Corte la questione sollevata non è fondata nel merito. La Corte ha affermato che:” Le disposizioni di cui alle lettere a) e b) dell’art. 14, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2011

richiedono l’«adozione» della riduzione del numero dei consiglieri e degli assessori entro sei mesi

dalla data di entrata in vigore del decreto, e non che entro lo stesso termine si svolga il referendum

popolare sullo statuto e venga sollevata l’eventuale questione di legittimità costituzionale”.

– Le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia, e Umbria censurano anche la lettera e) dell’art. 14,

comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2011 che prevede l’istituzione di un Collegio dei revisori dei

Conti, quale “organo di vigilanza sulla regolarità contabile, finanziaria ed economica della gestione

dell’ente”, e stabilisce che, ai fini di coordinamento della finanza pubblica, il Collegio dei revisori

debba operare in raccordo con le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti. 

Ad avviso delle ricorrenti, l’istituzione del Collegio dei revisori violerebbe l’art. 117, commi terzo e

sesto, Cost., in quanto prevedrebbe una delegazione di poteri di natura regolamentare nella materia

concorrente del coordinamento della finanza pubblica; gli artt. 100 e 103 Cost., perché snaturerebbe

la  funzione  della  Corte  dei  conti;  l’art.  121  Cost.,  in  quanto  istituirebbe  un  organo  regionale

ulteriore rispetto a quelli necessari, la cui previsione spetta invece allo statuto o alla legge regionale. 

Secondo la Corte, le censure oggetto d’esame non sono fondate. Le censure non sono fondate. 

La disposizione impugnata mira a introdurre per le amministrazioni regionali un sistema di

controllo analogo a quello già previsto, per le amministrazioni locali, dalla legge 23 dicembre 2005,

n.  266  (“ Legge finanziaria 2006”),  “ai fini della tutela dell’unità economica della Repubblica e del coordinamento della finanza pubblica” (art. 1, comma 166). Tale legge prevede che gli organi degli enti locali di revisione economico-finanziaria trasmettano alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti una relazione sul bilancio di previsione dell’esercizio di competenza e sul rendiconto dell’esercizio medesimo, e che le sezioni regionali accertino, anche sulla base di dette relazioni, il conseguimento, da  parte  degli  enti  locali,  degli  equilibri  di  bilancio  fissati  a  livello  nazionale.  Laddove vengano accertati  “comportamenti  difformi  dalla  sana  gestione  finanziaria  o  il  mancato  rispetto  degli obiettivi posti con il patto [di stabilità interno]”, le sezioni regionali della Corte dei conti segnalano dette irregolarità agli organi rappresentativi dell’ente, perché adottino idonee misure correttive. 

L’art. 14,  comma  1,  lettera  e), del  decreto-legge  n. 138  del  2011,  per  il  «conseguimento  degli obiettivi  stabiliti  nell’ambito  del  coordinamento  della  finanza  pubblica»,  stabilisce  un  «raccordo» fra il Collegio dei revisori dei conti della Regione e la sezione regionale di controllo della Corte dei conti. La norma censurata si collega alle disposizioni relative alle funzioni di controllo della Corte dei conti sulla gestione delle amministrazioni regionali: per un verso, l’art. 3, comma 4, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), su cui si è già espressa questa Corte con la sentenza n. 29 del 1995; per altro verso, l’art. 7, comma 7,  della  legge  5  giugno  2003,  n.  131  (Disposizioni  per  l’adeguamento  dell’ordinamento  della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), che ha rimesso alla Corte dei conti, «ai fini del coordinamento della finanza pubblica», il compito di «verifica[re] il rispetto degli equilibri di  bilancio da parte di Comuni, Province, Città  metropolitane e Regioni,  in  relazione al patto di stabilità interno ed ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea». 

Nel quadro  normativo descritto, la disposizione impugnata ha previsto un collegamento fra i

controlli interni alle amministrazioni regionali e i controlli esterni della Corte dei conti, secondo il

modello  che,  in  attuazione  del  citato  art.  7,  comma  7,  della  legge  n.  131  del  2003, è stato

sperimentato, per gli enti locali, dalla menzionata legge n. 266 del 2005. 

Chiamata  a  pronunciarsi  sulle  disposizioni  di  tale  ultima  legge,  la Corte  ha  affermato  –  fra l’altro – che “il controllo esterno esercitato dalla Corte dei conti nei confronti degli enti locali, con

l’ausilio  dei  collegi  dei  revisori  dei  conti,  è  «ascrivibile  alla  categoria  del  riesame  di  legalità  e regolarità», e che esso concorre «alla formazione di una visione unitaria della finanza pubblica, ai fini della tutela dell’equilibrio finanziario e di osservanza del patto di stabilità interno» (sentenza n. 179 del 2007)”. 

La Corte ha altresì ritenuto che tale attribuzione trovi diretto fondamento nell’art. 100 Cost., il

quale  «assegna  alla  Corte  dei  conti  il  controllo  successivo sulla  gestione  del  bilancio,  come

controllo esterno ed imparziale» e che il riferimento dello stesso art. 100 Cost. al controllo «sulla

gestione del bilancio dello Stato» debba intendersi oggi esteso ai bilanci di tutti gli enti pubblici che

costituiscono, nel loro insieme, il bilancio della finanza pubblica allargata. A quest’ultima, del resto,

vanno riferiti sia i principi derivanti dagli artt. 81, 97, primo comma, 28 e 119, ultimo comma, Cost.

(sentenza n. 179 del 2007), sia il principio di cui all’art. 1, comma 1, della legge 31 dicembre 2009,

n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), per cui «[l]e amministrazioni pubbliche concorrono

al   perseguimento degli  obiettivi   di   finanza   pubblica   sulla   base   dei   principi   fondamentali dell’armonizzazione  dei  bilanci  pubblici  e  del  coordinamento  della  finanza  pubblica,  e  ne condividono le conseguenti responsabilità». 

L’art. 14,  comma  1,  lettera  e),  del  decreto-legge  n.  138  del  2011  consente  alla  Corte  dei  conti, organo  dello  Stato-ordinamento  (sentenze  n.  267  del  2006  e  n.  29  del  1995),  il  controllo complessivo della finanza pubblica per tutelare l’unità economica della Repubblica (art. 120 Cost.) ed  assicurare,  da  parte  dell’amministrazione  controllata,  il  «riesame»  (sentenza  n.  179  del  2007) diretto a ripristinare la regolarità amministrativa e contabile. Al contempo, la disposizione censurata garantisce l’autonomia delle Regioni, stabilendo che i componenti dell’organo di controllo interno debbano  possedere  speciali requisiti  professionali ed  essere  nominati  mediante  sorteggio  –  al di fuori, quindi, dall’influenza della politica –, e che tale organo sia collegato con la Corte dei conti, istituto  indipendente  dal  Governo (art.  100,  terzo  comma,  Cost.).  Il collegamento fra controllo interno e controllo esterno assolve anche a una funzione di razionalità nelle verifiche di regolarità e di  efficienza  sulla  gestione  delle  singole  amministrazioni,  come  risulta,  del  resto,  dalla  disciplina della legge n. 20 del 1994, secondo cui «la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli obiettivi  stabiliti  dalla  legge»  è  accertata  dalla  Corte  dei  conti  «anche  in  base  all’esito  di  altri controlli. 

Infine, la disposizione impugnata non implica alcuna delegazione di potere regolamentare, né nella

parte in cui prevede l’istituzione del Collegio dei revisori, né nella parte in cui assegna alla Corte

dei conti il potere di definire i criteri di qualificazione professionale dei membri di tale organo. La

scelta   di   rimettere   alla   Corte   dei   conti   la   definizione   di   tali   criteri   si   giustifica   con   la specializzazione  della  stessa  Corte  nella  materia  della  contabilità  pubblica.  Ne discende che la disposizione non viola l’art. 117, comma sesto, Cost.

Conclusioni della Corte

La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14,  comma  2,  del  decreto-legge  13  agosto 2011,  n.  138  (Ulteriori  misure  urgenti  per  la  stabilizzazione  finanziaria  e  per  lo  sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.

Luca Di Donato