Con sentenza n. 3 del 3 gennaio 2012, la sezione salernitana del T.A.R. Campania ha annullato i provvedimenti di secondo grado con cui l’Amministrazione comunale aveva annullato d’ufficio la concessione edilizia (ora, permesso di costruire) precedentemente rilasciata, nonché intimato alla ricorrente la demolizione delle opere realizzate.
Le censure accolte dai giudici salernitani riguardano, in particolare, l’assoluta carenza di motivazione negli atti impugnati, diretta a comparare l’interesse pubblico all’annullamento del provvedimento ampliativo con il legittimo affidamento maturato dai destinatari circa la sua perdurante validità, oltre al decorso di un lasso di tempo eccessivo dal momento del rilascio del titolo abilitativo, come dimostra il notevole stato di avanzamento dei lavori in itinere.
L’annullamento d’ufficio (art. 21-nonies, introdotto nel corpus della l. n. 241 del 1990 dalla l. n. 15 del 2005) costituisce un provvedimento discrezionale con cui l’Amministrazione elimina con efficacia ex tunc atti precedentemente emanati, affetti da vizi di legittimità. In realtà, l’art. 21-nonies subordina la legittimità di tale provvedimento ad una serie di presupposti finalizzati a tutelare gli affidamenti incolpevoli riposti dai privati nella validità degli atti amministrativi, nonché a salvaguardare la certezza e la stabilità dei risultati dell’azione amministrativa. Si richiede, in particolare, all’Amministrazione di esercitare il potere di annullamento d’ufficio entro un termine ragionevole, di valutare comparativamente l’interesse pubblico alla caducazione dell’atto invalido con gli interessi dei destinatari e del controinteressati. Inoltre, al comma 2, art. 21-nonies, si fa salvo il potere di convalida del provvedimento annullabile, “sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole”.
L’inesauribilità del pubblico potere, cui sono finalizzate le determinazioni di revoca e di annullamento in via di autotutela, non può spingersi fino al punto di trasformarsi in un mero ripensamento da parte dell’Amministrazione circa le scelte precedentemente effettuate. La certezza del diritto e la stabilità delle relazioni con gli amministrati costituisce un limite invalicabile per l’esercizio legittimo dei poteri discrezionali di autotutela, quand’anche l’atto emanato sia illegittimo e, perciò contrario alla legge.
La valutazione comparativa dell’interesse pubblico – concreto e attuale – all’eliminazione dell’atto invalido e dell’affidamento incolpevole del privato nella sua perdurante validità, deve costituire il nucleo della motivazione del provvedimento di secondo grado. La mera illegittimità dell’atto non è sufficiente a rendere legittimo il suo annullamento da parte dell’Autorità emanante o da altro organo previsto dalla legge.
Dalle argomentazioni dei giudici salernitani emerge il ruolo di primo piano ricoperto dalla motivazione in diritto amministrativo: a norma dell’art. 3, comma 1, l. n. 241 del 1990, l’Amministrazione, infatti, ha il dovere di motivare “ogni provvedimento amministrativo”, con la sola esclusione degli atti normativi e di quelli a contenuto generale, esponendo “i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che [ne] hanno determinato la decisione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.
Che la motivazione non sia riconducibile nel novero degli elementi accidentali o meramente formali degli atti amministrativi – il cui vizio o mancanza ne impedisce l’annullamento, alle condizioni di cui all’art. 21-octies – si desume, altresì, dal rinvio operato dal novellato art. 1, comma 1, l. n. 241 del 1990 “ai principi dell’ordinamento comunitario”[1], tra i quali spicca il “diritto ad una buona amministrazione”, siglato all’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali[2], stipulata a Nizza nel 2000, che, in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona[3], ha assunto “lo stesso valore giuridico dei Trattati” e, pertanto è suscettibile di produrre effetti diretti e vincolanti negli ordinamenti degli Stati membri.
In particolare, il “diritto ad una buona amministrazione” comprende il diritto di ogni individuo ad essere ascoltato prima dell’adozione di un provvedimento individuale che arrechi pregiudizio, l’obbligo per l’Amministrazione di motivare le proprie decisioni – che, nell’ordinamento comunitario, si estende a tutti gli atti delle Istituzioni[4] – il diritto ad una trattazione equa, imparziale ed entro termini ragionevoli delle questioni che lo riguardano.
La motivazione, pertanto, nella quale l’Amministrazione espone il percorso logico-argomentativo seguito per addivenire alla decisione conclusiva del procedimento, in relazione agli accertamenti compiuti e alle informazioni acquisite durante l’istruttoria, assurge a elemento di discriminazione tra una “buona” ed una “mala” amministrazione, inficiando la sua mancanza o il suo vizio la validità della determinazione finale ed esponendo l’Autorità emanante ad una responsabilità risarcitoria per lesione di situazioni giuridiche qualificate.
Nonostante il carattere indubbiamente enfatico – tipico delle disposizioni di principio – del rinvio operato dall’art. 1, comma 1, l. n. 241 del 1990 “ai principi dell’ordinamento comunitario”, è tuttavia indubbia la funzione di clausola aperta rivestita dalla disposizione de quo, in forza dei continui mutamenti che coinvolgono il diritto comunitario e che, grazie al processo di integrazione continua, si riverberano sugli Stati membri.
La centralità che la persona assume nell’ordinamento comunitario si coglie non solo dal significato assunto dal principio di proporzionalità, il quale mira più all’esigenza di non limitazione della libertà soggettive che non a consentire l’adozione della scelta amministrativa più idonea a curare l’interesse pubblico, ma anche dal rilievo acquisito dalla tutela del legittimo affidamento e, infine, dal principio di responsabilità dell’Unione per i danni cagionati dalle sue Istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni, a prescindere dalla consistenza della situazione giuridica soggettiva vantata dal danneggiato.
La posizione di privilegio ricoperta dall’autorità amministrativa nei confronti dei consociati, cessa di esistere in un ordinamento, quello comunitario, che non conosce l’atto politico, particolari prerogative o privilegi, in cui la persona prende il posto dell’autorità e le libertà soggettive quello del monopolio esclusivo dei pubblici poteri. Si auspica, pertanto, che anche le Amministrazioni nazionali si conformino pienamente al modello di “amministrazione aperta, efficace e indipendente”[5], proposto dall’ordinamento europeo.
[1] L’art. 1, comma 1, l. n. 241 del 1990, sancisce una serie di principi – costituenti un vero e proprio statuto regolante i rapporti tra privato e pubblica amministrazione – cui si informa tutta l’attività amministrativa, a prescindere dal carattere autoritativo o meno delle sue manifestazioni e dalla natura di diritto pubblico o privato del soggetto esercente la pubblica funzione. Più volte modificata – dalla l. n. 15 del 2005 e, da ultimo, dalla l. n. 69 del 2009, la disposizione de quo enuncia i principi di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa.
[2] La Carta dei diritti fondamentali, siglata a Nizza il 7 Dicembre 2000, costituisce un accordo interistituzionale. Fino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che ne ha sancito lo stesso “valore giuridico dei Trattati”, la sua natura era assai controversa.
[3] Il Trattato sull’Unione europea (TUE) e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) sono stati approvati il 19 Ottobre 2007, a Lisbona, ed entrati in vigore il 1° Dicembre 2009. A norma dell’art. 1 TUE, “[..] i due trattati hanno lo stesso valore giuridico. L’Unione sostituisce e succede alla Comunità europea”.
[4] In particolare, a norma dell’art. 296 TFUE, “Gli atti giuridici [tutti, quindi, anche regolamenti e direttive] sono motivati e fanno riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazioni, richieste o pareri previsti dai Trattati”.
[5] Si veda l’art. 298 TFUE.