La sessione del mattino è stata aperta dal prof. Orlando Roselli, che ha svolto una relazione su “Fondamentali” economico sociali e trasformazione della dimensione giuridica.
In maniera sempre più evidente si sta affermando la consapevolezza che per uscire dall’attuale crisi, originata solo in parte da fattori economici, gli strumenti finanziari, da soli, non sono sufficienti: si rende necessario un rinnovamento della dimensione giuridica. Già nel 1994, Alberto Quadrio Curzio, nel suo libro Il Pianeta diviso: geo-economia politica dello sviluppo, auspicava ad un maggiore coordinamento tra risposte economiche, giuridiche e politiche rispetto ai forti squilibri nella distribuzione delle ricchezze tra Nord e Sud del mondo. Le risorse che sono state già state impiegate e quelle che in futuro saranno messe a disposizione per arginare la crisi appaiono imponenti, eppure inadeguate in assenza di nuove regole in grado di rassicurare davvero i mercati.
Ci si trova in una dimensione postmoderna del diritto: una fase di transizione che vede profondamente mutato il ruolo degli attori privati e in cui ogni strumento giuridico è messo in discussione. L’idea di ingovernabilità ha accompagnato i processi di globalizzazione e ad essa è necessario rispondere con una rinnovata dimensione giuridica. A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, altro momento della storia caratterizzato da profondi cambiamenti, la dottrina giuridica parlava di “crisi dei diritti” e di “crisi dello Stato”, mai di “crisi del diritto”. Come osservava Ascarelli, in queste delicate fasi di transizione diventa centrale il ruolo dell’interprete giuridico nell’attualizzare le norme. Occorre rinnovare le metodologie strumentali, rendendole in grado di cogliere i segnali di trasformazione della società mediante adeguati indicatori.
L’attuale società è spesso indicata con espressioni eloquenti: si è parlato di “società del rischio”, di “società liquida”, di “società instabile”. L’internazionalizzazione dell’economia, aumentando l’interdipendenza, ha messo in discussione l’egemonia occidentale. In tale contesto, l’obiettivo prioritario delle regole da introdurre è rappresentato dall’esigenza di inibire i processi speculativi. Si rende indispensabile una rinnovata lex mercatoria volta ad una maggiore trasparenza. Se non si affermeranno nuovi parametri e procedure in grado di disincentivare la speculazione l’esito sarà una maggiore instabilità, già ben testimoniata dalle continue oscillazioni dei mercati. L’Euro, da solo, non basta a contrastare una crisi, da cui dovrebbe discendere una nuova base politica.
Il nuovo art. 81 della Costituzione fa esplicito riferimento alla fasi del ciclo economico: in assenza di tale vincolo, il sistema politico non risulta capace di praticare politiche virtuose. La riforma costituzionale non poteva non prevedere deroghe connesse con l’andamento dei cicli economici, esprimendo così un rapporto dialettico, sempre più manifesto, tra diritto ed economia.
A seguire, il prof. Maurizio Fioravanti ha svolto una relazione su Cultura costituzionale e trasformazioni economico-sociali: l’esperienza del Novecento.
Quando si parla di cultura costituzionale non ci si riferisce alla cultura dei costituzionalisti, ma a quella cultura, variamente diffusa nel corpo delle istituzioni, che contrassegna il rapporto tra Stato e società, o se si vuole, tra potere pubblico e interessi economici.
Un primo tipo di cultura costituzionale si caratterizza per il ruolo giocato dalla Costituzione, tesa a proteggere la società civile ed economica dall’arbitrio politico. Questo tipo di cultura costituzionale ha condizionato, nelle diverse epoche, le proposte concrete degli attori coinvolti.
Il Novecento ha riscoperto la società reale, composta da soggettività concrete (imprenditori, lavoratori, sindacati, associazioni di categoria) che esprimono i propri bisogni e rivendicano le proprie istanze. Da ciò è derivato un cambiamento nelle categorie della cultura costituzionale dei primi del Novecento. La società della proprietà privata individuale esprime una nuova endemica dimensione: quella del conflitto. La nuova missione della cultura costituzionale diventa quindi quella di governare tale conflitto. Lo Stato moderno entra in crisi, cambia il modo in cui viene percepito e si rende necessaria una sua trasformazione. Nel 1936, Costantino Mortati, nel libro Note sul potere discrezionale, evidenziava la rete di rapporti tra pubblico e privati, da cui emergevano molteplici volontà discrezionali. Dal profondo mutamento della cultura costituzionale e dalla trasformazione dello Stato moderno viene meno la tradizionale separazione tra pubblico e privato, tra Stato e società: esistono solo i “poteri”, siano essi pubblici o privati. La Costituzione diventa quindi regolazione dei poteri e l’art. 3, comma 2, della Costituzione repubblicana esprime bene questa nuova concezione quando parla di “compito della Repubblica”. Ciò che occorre chiedersi oggi è se ci troviamo di fronte alla necessità di cambiare nuovamente paradigma.
Il modello di governo del Novecento, tipicamente statale e fondato sul legislatore, è difficilmente replicabile anche nel nuovo secolo. Al contrario stanno avendo sempre più rilievo strumenti di carattere “contrattuale” e la giurisprudenza. La legge non riesce più ad essere uno strumento di ricomposizione dell’ordine sociale.
Il principale problema dei nostri giorni è rappresentato dalla mancanza di autorità, come si evince anche dalle gravi insufficienze nel governo del ciclo economico. Nel secolo scorso si è giocata la “carta” della Costituzione democratica, quale fondamento dell’autorità; oggi è tutto incerto.
La relazione successiva, del prof. Alberto Febbrajo, ha avuto ad oggetto Limiti della regolazione giuridica nelle crisi intersistemiche.
Nel corso del Novecento si sono distinti quattro diversi approcci della sociologia del diritto al tema della regolazione giuridica: quello normativista; quello realista, per cui i comportamenti presentano una loro intrinseca normatività; quello pluralista; e quello funzionale-weberiano.
Il procedimento che conduce alla regolazione giuridica, invece, soprattutto nella seconda metà del Novecento, si è ispirato a due modelli. Il primo è quello che sistemico, volto a rendere le norme giuridiche quanto più possibili inclusive della realtà sociale; il secondo, è quello utopico-habermasiano, fondato sul concetto di razionalità discorsiva.
La regolazione giuridica oggi fa però i conti con una tendenza orami ineluttabile, che è quella della crisi dello Stato, almeno per come concepito tradizionalmente. La situazione che si viene a determinare è ben esemplificata dal caso dell’Unione europea: ovvero di un mercato senza territorio, di una democrazia senza demos e di una Costituzione senza sovranità. La sovranità statale, peraltro, viene ulteriormente limitata dall’introduzione della regola “etero-diretta” del pareggio di bilancio.
Le conseguenze del nuovo assetto ordinamentale sono principalmente la virtualizzazione degli scambi economici, la de-ideologizzazione dei rapporti politici, che favorisce l’inclusione anche di soggetti terzi (interessi organizzati ulteriori) nel processo decisionale, e la regionalizzazione degli assetti costituzionali.
Ha poi svolto una relazione la prof.ssa Maria Rosaria Ferrarese, dal titolo Processi di governance, crisi e globalizzazioni al plurale
Il fatto che alle recenti revisioni costituzionali si sia giunti mediante pressioni internazionali rivela la forza della governance europea. Due sono i processi propedeutici di tale innovazione: da un lato il passaggio dall’economia industriale all’economia finanziaria, dall’altro il passaggio dal government alla governance. Quest’ultima è intesa come modalità di formazione del diritto più inclusiva, caratterizzata da norme di soft law e dalla penetrazione di soggetti nuovi: i privati, portatori di interessi particolari. Si delinea un’idea di co-governo che destruttura le vecchie modalità di formazione delle norme.
Una concezione della dimensione normativa che sia concepita come legata prevalentemente alla legge è ormai consegnata al passato. Al contrario, si riscontra un crescente “successo” di altre misure giuridiche, come quelle contrattuali, tipiche dei processi di governance.
I mercati hanno subito alcune importanti trasformazioni negli ultimi decenni. Da una parte, si sono trasformati da luoghi di scambio di risorse materiali a luoghi di collocazione di liquidità, come accade per i mercati dei titoli finanziari a breve termine; dall’altra, sono diventati spazi senza confini, come si desume dalla crescente canalizzazione di liquidità in investimenti esteri. Una trasformazione ulteriore è consistita poi nell’evoluzione dei mercati finanziari in luoghi di investimento in forme improduttive, come testimoniati dall’invenzione di merci quali i derivati.
Se si è registrata un’assenza di regolazione dei mercati finanziari da parte degli Stati, bisogna essere consapevoli che ciò dipende solo in parte dalla debolezza degli Stati. Spesso, come nel caso del Regno Unito, gli Stati non vogliono intervenire (per esempio per evitare di imbrigliare la produzione di profitti da parte della City di Londra, la maggiore piazza finanziaria europea).
La realtà è che tutto il mondo è ormai percorso da poteri invisibili, che sono presenti dietro le dinamiche dei mercati finanziari e che sono così potenti da riuscire ad impedire la produzione di regole nei loro confronti.
Se da un lato è vero che i confini sono venuti meno e che ci troviamo in presenza di un “mondo piatto”, usando un’espressione di Friedman, dall’altro continuano a esistere grandi differenze nelle performance economiche degli Stati. L’idea alla base della governance globale è che occorre rispettare determinati parametri economici (il Fiscal Compact è frutto proprio di tali filosofie), ma molti dei Paesi che stanno crescendo, si pensi alla Cina, non hanno osservato alcun criterio.
La riflessione che ne deriva è che forse questa governance non sia così votata alla crescita, non solo quella sostenibile, ma anche quella aritmetica. In questo quadro pesano molto anche le critiche di economisti come Posner al sistema capitalistico, accusato di vivere “al di sopra delle proprie possibilità”.
La relazione del prof. Vincenzo Ferrari ha avuto ad oggetto La metamorfosi della funzione e della struttura del diritto tra globalizzazioni e crisi economica.
Che si sarebbe giunti ad un momento di crisi così profonda – economica e sociale – come quello attuale – lo si sapeva già da tempo. Il Rapporto Bruntland, pubblicato per la prima volta nel 1987 e più volte aggiornato (da ultimo nel 2004), metteva in guardia sui problemi di sostenibilità derivanti dall’eccesso di pressione demografica e dei consumi, dall’incontrollabile stravolgimento delle risorse ambientali, dalla carenza di risorse e dal continuo aumento degli squilibri economici. Amartya Sen aveva preannunciato che le più gravi carenze sul fronte della protezione dei diritti si sarebbero riscontrate per quanto riguarda l’accesso alle risorse da parte degli esclusi. Peraltro oggi le disuguaglianze sociali ed economiche sono diventate così plateali, anche a causa della perfetta trasmissione di informazioni da un capo all’altro del mondo (per effetto della rivoluzione tecnologica), che è impossibile dissimularne l’esistenza.
Le possibili risposte a tale stato di cose sono articolate, ma devono tenere comunque in conto un dato sistemico: che si è immersi in economie capitalistiche. In un’economica capitalistica il livello di intrusione degli interventi normativi nel mercato può essere graduato da un minimo ad un massimo. Se si conoscono bene le patologie dei sistemi basati su economie imbrigliate, meno note finora erano le degenerazioni del liberismo. Richiamando l’insegnamento di Mill e di Einaudi, i limiti sostanziali e procedurali che possono essere posti all’attività economica devono comunque tenere conto del fatto che il mercato è libero solo se è regolato. Durante i lavori dell’Assemblea costituente Einaudi e Cortese proposero un emendamento – che non fu approvato – volto ad includere nella futura Carta fondamentale un’espressa previsione secondo la quale la legge non avrebbe dovuto essere strumento di istituzione di monopoli economici, ma, piuttosto, lo strumento attraverso cui sottoporli a controllo.
Tuttavia, dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, a partire dai governi Thatcher e Reagan (a cui si opposero i veri liberali), in alcuni Paesi si è posta in essere una preoccupante deriva liberista, basata sulla de-regolazione. Parallelamente, anche i sistemi giuridici si sono orientati verso il liberismo-relativismo, fondando la produzione di norme, sul mutuo riconoscimento e sulla contrattazione. Fonti di produzione del diritto pubbliche, come la legislazione e la giurisprudenza, sono state almeno parzialmente sostituite da fonti private, come il contratto e gli strumenti di soft law.
Allo stesso tempo, però, occorre dare il giusto peso a determinati fenomeni che, secondo la vulgata corrente, caratterizzerebbero gli ordinamenti giuridici. Ad esempio, è ormai invalso sostenere che la deregulation o le limitate risposte degli Stati alle crisi finanziarie siano dovute ad un progressivo indebolimento degli Stati.
In realtà, storicamente, lo Stato non si è configurato come l’unico sistema di organizzazione del potere politico operante in un dato ambito territoriale ed in grado di garantire sul tale territorio l’effettività delle sue norme. Ordinamenti sovrani, per quanto non statuali, sono esistiti da ben prima della pace di Westfalia.
Qui non si intende negare che oggi il FMI e le grandi banche di rilievi internazionale abbiano un peso maggiore di molti Stati; soltanto, il FMI e tali banche occupano attualmente il posto che un tempo era assegnato, per esempio, alla Compagna delle Indie. Allora, come oggi, tutte le organizzazioni internazionali sono comunque governate saldamente dagli Stati, talché la loro presenza o forza non è di per sé motivo di indebolimento degli Stati che, al contrario, mantengono fermo il loro dominio su di esse.
Pertanto, più che di crisi dello Stato come ente giuridico sovrano conviene forse parlare di squilibri (di potere) tra gli Stati e tra alcuni Stati e le organizzazioni internazionali. Nell’ordinamento internazionale convivono tendenze centripete, come l’Unione europea, e tendenze centrifughe come quelle mostrate dalla Grecia e dall’Ungheria nei confronti della stessa Unione europea.
In fondo, anche argomenti generalmente utilizzati per sostenere un generale indebolimento degli Stati non vanno esattamente in questa direzione. Così, quello della natura transnazionale dei diritti, come risulta da una notevole varietà di convenzioni e di organizzazioni internazionali in materia, non è un argomento pienamente convincente. L’effettività della protezione dei diritti, infatti, è piena soltanto a livello statale.
Quanto al sistema fonti del diritto, il contenimento del ruolo della legge non è un fenomeno nuovo. Ne accennavano già Von Savigny e Kelsen, seppur in termini diversi. Altre fonti, come il precedente giurisprudenziale, hanno sempre affiancato il diritto legislativo, tanto nei sistemi di common law, quanto in quelli di civil law. Peraltro, i giuristi inglesi affermano che il loro diritto, contrariamente a quel che si è portati a ritenere, è sempre più statico e codificato.
In realtà gli Stati legiferano continuamente e difficilmente smetteranno di farlo: la legge rimarrà per l’uomo politico lo strumento principale attraverso il quale dimostrare al proprio elettorato che si sta agendo nei loro interessi e uno strumento di mediatizzazione della politica, nel senso di rendere conoscibili le attività degli eletti.
L’ultima relazione del pomeriggio è stata svolta dal prof. Vittorio Olgiati, sul tema Congiuntura economica, dinamica europea e ordinamenti professionali: il caso degli operatori del diritto.
Quella di Bauman sulla società liquida è una tesi suggestiva, ma il giurista non può aderirvi. La società attuale è senz’altro mobile e dinamica, ma non piatta. Essa appare, al contrario, scomposta e frammentata e il diritto, a sua volta, disorganico e plurale.
Tutta la storia dell’umanità è stata scandita da rivoluzioni tecnologiche e da crisi successive: la crisi attuale, pertanto, va collocata all’interno di questo processo. Ciò che connota la crisi attuale sono il declino dello Stato-nazione, da una parte, e la forza delle corporazioni private, dall’altra. Si può giungere a sostenere che quello che si sta sperimentando è un “governo di sostituti costituzionali”: ossia il governo di istituzioni, quali le agenzie di rating, ma anche la banca mondiale, che sono prive, seppur con intensità diverse, di legittimazione politica.
Il processo di integrazione europea va concepito come un processo interno di dinamiche più ampie innescate da congiunture internazionali, come le guerre e il crollo del muro di Berlino.
Un punto di svolta delle dinamiche ordinamentali europee è costituito dal Trattato di Lisbona, sia per l’innesco di una cooperazione rinforzata tra Paesi dell’Unione europea, in vari settori, che per lo stimolo alla cooperazione orizzontale pubblico-privato, perseguendo un effetto di multilevel in termini di legittimazione politica e di solidarietà sociale. Inoltre, per la prima volta, un Trattato europeo si orienta a favore della differenziazione tra Stati e della competizione tra livelli di governo, basata sul principio di sussidiarietà (principio di lunghissimo corso, facendo la sua apparizione in epoca medioevale ed essendo poi rielaborato da Pufendorf, dopo la guerra dei trent’anni). Infine, per la prima volta, col Trattato di Lisbona, pur riconoscendo la differenziazione ontologica tra le quattro libertà del mercato interno, si attribuisce loro una pari dignità.
Nonostante ciò e nonostante il decisionismo creativo della Corte di giustizia, il processo di integrazione europea sta attraversando una grave crisi perché finora ha sempre giocato sulla difensiva. Lo dimostra, per esempio, una comparazione tra gli investimenti e la programmazione delle attività di formazione accademica da parte dell’Unione europea e della Cina, quest’ultima superando di gran lunga l’attività progettuale europea, nonostante partisse da una condizione di gran lunga più svantaggiata.
La sessione pomeridiana è stata introdotta dal prof. Antonio Brancasi, che la ha presieduta.
Quanto alla costituzionalizzazione della regola del pareggio di bilancio occorre non solo prestare attenzione alla formulazione delle clausole costituzionali, ma anche alla garanzia della loro effettività. In altri termini, occorre domandarsi come ci si difende contro pratiche contabili creative di aggiramento delle regole. In questo quadro, occorre anche riflettere sul ruolo assegnato alla Corte giustizia dall’art. 8 del Fiscal Compact e sulla misura di un possibile coinvolgimento del giudice europeo nell’ambito di tale controllo.
Venendo, poi, all’art. 81 della Costituzione italiana, bisogna considerare che la revisione costituzionale era l’unica via per la costituzionalizzazione della clausola del pareggio di bilancio o dell’equilibrio finanziario. Per come formulato, infatti, non è possibile desumere una tale regola in via interpretativa dalla formulazione originaria dell’ultimo comma dell’art. 81 della Costituzione.
Certo, con la legge costituzionale 1/2012, si è passati da un eccesso ad un altro: dall’assenza di previsioni costituzionali in proposito all’impiego di una disciplina estremamente dettagliata, come risulta dall’impiego di un linguaggio sostanzialmente “regolamentare” nella formulazione della nuova disciplina costituzionale. Le caratteristiche proprie del “linguaggio costituzionale” andrebbero sempre preservate.
La relazione del prof. Giuseppe Pisauro ha avuto ad oggetto Le regole del pareggio di bilancio tra (scarsi) fondamenti economici e urgenze della crisi finanziaria.
Secondo diversi economisti, per lo più americani, sono tendenzialmente cinque le principali controindicazioni all’introduzione del pareggio di bilancio.
In primo luogo, si tratta di una regola controproducente nelle fasi di recessione, come quella attuale, perché rischia di “avvitare” il sistema economico su se stesso, senza possibilità di ripresa. In secondo luogo, si rischia di giuridicizzare, nel senso di rendere permeabili al controllo giurisdizionale, regole che sono essenzialmente di natura tecnico-politica. In terzo luogo, con l’inevitabile introduzione di deroghe alla clausola del pareggio di bilancio, si rischia di avallare interpretazioni estensive delle stesse, che allontanino dall’obiettivo dell’equilibrio finanziario. In quarto luogo, specie quando il pareggio, come nel nuovo art. 81 della Costituzione italiana, si accompagna alla fissazione di un limite al totale delle spese, è presente il rischio di costringere eccessivamente la discrezionalità del legislatore nonché le prospettiva di crescita del sistema economico. In quinto ed ultimo luogo, per ottenere il pareggio del bilancio non c’è bisogno per forza della costituzionalizzazione della clausola, come il surplus del bilancio federale statunitense per diversi anni consecutivi dimostra, in assenza di una regola costituzionale che lo imponga. Semmai, oggi, la fondamentale ragione per la sua costituzionalizzazione risiede nell’intenzione di mandare un segnale forte ai mercati finanziari.
Inoltre, considerando in particolare il caso italiano, si può vedere facilmente come il principale problema, anche storicamente, non sia da deficit eccessivi, ma dall’indebitamento. Ossia, se si guarda l’attuazione in Italia dei parametri di Maastricht e del Patto di stabilità e crescita (prima del suo ultimo aggiornamento), si nota che mentre la regola sul deficit ha funzionato abbastanza bene, il debito pubblico italiano non si è sostanzialmente ridotto.
Passando all’analisi del nuovo testo dell’art. 81 Cost., si può immediatamente evidenziare come il ricorso agli ammortizzatori automatici è ammesso: il disavanzo di bilancio è consentito se frutto di eventi eccezionali o se deriva da una particolare congiuntura del ciclo economico. Rispetto all’ipotesi di eventi eccezionali che si verificassero, pare poco razionale, ad ogni modo, la previsione per cui il disavanzo in tali circostanze – che, per la loro stessa natura, richiederebbero invece un intervento immediato e urgente – deve autorizzato preventivamente con una procedura aggravata (è richiesta l’approvazione dell’autorizzazione da parte della maggioranza assoluta di ciascuna Camera). Tuttavia, è alquanto difficile valutare ex ante l’appropriatezza del ricorso alla deroga. Al contrario, è da guardare con favore, invece, l’introduzione di una procedura di verifica a posteriori sul rispetto della legge di contabilità rafforzata da svolgersi mediante un organismo indipendente. Appare però improbabile che ogni anno un tale organismo ponga in essere una procedura di valutazione successiva e di validazione degli scostamenti negativi rispetto ai parametri: se svolto seriamente, un tale controllo richiederebbe una mole di informazioni e di tempo che non ne consentirebbero lo svolgimento con cadenza annuale.
Rispetto alla formulazione del nuovo art. 81 Cost., va a dire del lessico costituzionale impiegato, si è ecceduto nei dettagli, qualcosa che normalmente è estraneo alla redazione di disposizioni costituzionali. Sarebbe stato forse meglio mantenere la formulazione generale della disegno di legge di riforma inizialmente presentato dal Governo, che si limitava a dettare principi.
Vi è poi da chiarire da parte della legge rinforzata cosa rientri nella golden rule, ossia che tipi di investimenti siano da includere e quali siano da escludere. Peraltro, per le autonomie locali nel Titolo V Cost. riformato, prima della legge costituzionale n. 1/2012, veniva prevista la golden rule, mentre ora è stata eliminata.
Infine, può considerarsi bizzarro uno dei contenuti prefigurati dalla legge costituzionale per la legge rinforzata: si tratta della previsione per cui in fasi avverse del ciclo economico lo Stato può finanziarie in disavanzo, mediante trasferimenti alle autonomie territoriali, la spesa locale e regionale per la garanzie dei livelli essenziali delle prestazioni. E’ assente, invece, una previsione simmetrica, ossia per l’eventuale finanziamento in disavanzo di servizi inerenti ai livelli essenziali delle prestazioni erogabili solo da parte dello Stato. E’ come sei i livelli essenziali delle prestazioni quando assicurati, per competenza, da parte di regioni ed enti locali, siano meritevoli di una maggiore tutela rispetto a quelli a cui deve provvedere lo Stato.
La relazione successiva è stata svolta dal prof. Raffaele Bifulco, con il titolo Costituzionalismo e pareggio di bilancio.
Il tema del costituzionalismo, inteso come teoria dei limiti all’esercizio del potere politico, si intreccia strettamente con l’introduzione nella Costituzione italiana del vincolo del pareggio di bilancio. Ma gli effetti del vincolo posto all’operato del legislatore ordinario sono ulteriori e originano un forte impatto sugli assetti costituzionali: gli effetti attengono, infatti, tanto al rapporto tra riforma costituzionale e principio democratico quanto alla ridefinizione o al ripensamento del rapporto tra ordinamento nazionale e Unione europea.
Con riferimento alle relazioni precedenti, occorre precisare che, rispetto alle omologhe previsioni della Legge fondamentale tedesca contenenti persino cifre e percentuali, quelle del nuovo art. 81 della Costituzione italiana hanno una portata molto più generale. Almeno l’art. 81, primo e secondo comma Cost. contengono infatti principi (equilibrio di bilancio e freno all’indebitamento) nel tentativo di operare un bilanciamento tra l’obiettivo dell’equilibrio finanziario e il sopravvenire di circostanze eccezionali che possono comportare deroghe. A tal proposito pare interessante anche la discrasia presente tra il titolo della legge cost. n. 1/2012 e il contenuto dell’art. 81, primo comma Costituzione: mentre nel primo si parla di “pareggio”, nel secondo si fa riferimento all’“equilibrio”. Ciò significa che il pareggio vale più come principio di gestione che come regola contabile. Inoltre, anche il quinto comma del nuovo art. 81 Cost., che senz’altro non fissa principi, quanto piuttosto oggetti da specificare nella legge rinforzata, non pare ricorrere ad un grado di dettaglio eccessivo.
E’ vero comunque che la l. cost. n. 1/2012 contiene una serie di ambiguità. Innanzitutto, introduce un nuovo tipo di diritto costituzionale: vigente, ma, fino al 2014, non vincolante. In secondo luogo, si basa su un articolato gioco di rinvii. Non è chiaro infatti in che modo si relazioneranno i soggetti che a vario titolo sono chiamati a definire i contenuti della legge rinforzata e poi a controllarne l’operatività. Si istituisce infatti un rapporto complesso tra legislatore costituzionale, legislatore ordinario e istituzioni europee.
Venendo alla discutibile saldatura che si crea tra rinvio alla normativa dell’Unione europea e rispetto del principio democratico, pare significativo richiamare gli artt. 2, sul complesso delle pubbliche amministrazioni, e 4, sulle autonomie territoriali, della l. cost. n. 1/2012. In entrambi gli articoli, nel riferirsi all’obbligo di equilibrio dei bilanci si effettua un rinvio mobile all’ordinamento dell’Unione europea, cioè a quanto le istituzioni europee dispongono o disporranno in tema. Si tratta senz’altro di un passaggio di consegne della sovranità parlamentare nazionale in materia di bilancio all’Unione europea.
Posto che senz’altro la riforma restringe i margini di manovra del Parlamento, bisogna valutare se proprio per la limitazione della sovranità parlamentare che è suscettibile di determinare, essa addirittura possa violare il principio democratico per come previsto nell’art. 1 Cost. La compatibilità con il principio democratico sembra garantita su due piani. Il primo è quello contemplato dall’art. 81, sesto comma, Cost., che introduce alcuni aggravamenti formali-procedurali per il trasferimento di sovranità. Innanzitutto, come si è detto, si richiede una maggioranza qualificata – quindi un ampio consenso politico, solo potenzialmente causa di stallo – per usare le deroghe; in secondo luogo si amplia la funzione di controllo del Parlamento sulla finanza pubblica, in particolare sul rapporto tra entrate e spese e sulla qualità della spesa, anche se è nei controlli che si distingue l’aspetto più debole della legge. Ciò, sia perché non è chiaro chi controlli cosa, tra i giudici, le Camere, e le istituzioni europee, sia perché l’organismo indipendente per la valutazione successiva, è tanto il soggetto che opera il controllo sull’attività svolta dal Parlamento quanto il soggetto incardinato presso questa istituzione.
Infine, la seconda dimensione che consente di ritenere rispettato dalla riforma costituzionale il principio democratico nel suo complesso concerne il versante dei diritti, vale a dire la necessaria dimensione temporale della loro tutela. La riforma consente di adottare una prospettiva di lungo periodo, garantista dei diritti delle generazioni future e della solidarietà intergenerazionale.
Vi è stata quindi la relazione del prof. Matthias Hartwig su La costituzionalizzazione del pareggio di bilancio in Germania.
Nonostante il generale apprezzamento a cui va incontro il “modello tedesco” di costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio (da intendersi qui in senso stretto, al contrario dell’Italia), le criticità non sono poche. Innanzitutto le ragioni che hanno condotto alla riforma costituzionale del 2009 sono varie: contenere la forte crescita del debito tedesco, registratasi dal 1949 al 2009; costituzionalizzare i parametri di Maastricht, sistematicamente violati dalla Germania dal 2002; limitare la possibilità di accendere crediti. Un altro problema prima del 2009, peraltro solo parzialmente risolto oggi, riguarda la mancanza di un controllo giurisdizionale effettivo. Il Tribunale costituzionale federale tedesco si è sempre astenuto dal decidere su questioni di politica fiscale, nonostante fossero stati presentati ricorsi in via principale da parte dei Länder. Peraltro, quando il Tribunale costituzionale federale giungeva a decidere su un ricorso mediamente passavano alcuni anni: la Corte scontava infatti un grande arretrato. Successivamente, con una decisione del 2007, che poi è stata interpretata come un avallo alla successiva riforma costituzionale del 2009, il Tribunale costituzionale federale ha assunto un orientamento più restrittivo quanto al suo intervento sulla sostenibilità della finanza pubblica.
Nel 2009, il nuovo articolo 115, comma 2 GG, introduce l’obbligo di pareggio senza ricorso a crediti. Previsione, quest’ultima, che però vale solo per i Länder e non anche per lo Stato, che quindi è senz’altro più libero dei Länder di derogare ai vincoli all’indebitamento (un indebitamento strutturale dello 0,35% è ammissibile per lo Stato). Inoltre i bilanci delle municipalità non sono sottoposti al vincolo costituzionale del pareggio di bilancio, innescando in questi anni una dinamica incrementale della spesa.
Il nodo ancora aperto, come si accennava, riguarda proprio il controllo di queste norme introdotte nel 2009. La strada che pare più facilmente percorribile è quella dell’accesso in via principale al Tribunale costituzionale. Dall’altra parte, però, se nel 2007 il giudice costituzionale era sembrato disposto a procedere ad un vaglio più rigoroso sulle norme riguardanti le entrate e le spese, cionondimeno in quella occasione la reticenza del Tribunale costituzionale federale in materia ha avuto modo di manifestarsi su un fronte decisamente contiguo. Infatti, nella già richiamata sentenza del 2007 il Tribunale ha comunque negato la sua competenza a decidere sul rispetto del principio del pareggio di bilancio. Pertanto, modificato il parametro costituzionale, nulla sembra cambiato. Il bilancio federale non è mai stato dichiarato incostituzionale dalla Corte; in senso diverso si è proceduto a livello dei Länder: i Tribunali costituzionali di tre Länder hanno ritenuto i bilanci statali incostituzionali.
La successiva relazione, del prof. Gonzalo Maestro Buelga, ha avuto ad oggetto La costituzionalizzazione del pareggio di bilancio in Spagna.
In primo luogo occorre chiarire, anche rispetto alla relazioni precedenti, che la norma sul pareggio di bilancio presenta un’importante peculiarità: non è una norma tecnica-razionale, ma presenta una forte connotazione ideologica, recando con sé l’opzione per un preciso modello di politica economica.
Quanto alla possibile comparazione delle clausole costituzionali spagnole e italiane sul pareggio di bilancio, sembra che esse presentino una forte similitudine sul piano formale, ma differenze sostanziali sul piano dei contenuti. Ad esempio, nel nuovo art. 135 della Costituzione spagnola si ritrova una previsione che non ha eguali in altri Costituzioni europee: l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di dare priorità assoluta al rientro dal debito. Si tratta di un principio assoluto.
Inoltre, in Spagna la legge organica n. 2/2012, di attuazione delle nuove previsioni costituzionali e che è stata appena approvata dalle Cortes (la pubblicazione sul BOE risale al 30 aprile), sembra essere persino più restrittiva della Costituzione, ponendo un tetto massimo al disavanzo pari allo 0,4 per cento o addirittura imponendo l’avanzo. Non sembra comunque che, per questo motivo la legge organica n. 2/2012 possa dirsi incostituzionale.
Infine, sia dalla riforma costituzionale che dalla legge organica pare desumersi un quadro in cui si determina un forte rafforzamento dello Stato nei confronti delle Comunità autonome. Lo testimonia anche la terza disposizione addizionale della nuova legge organica, in cui si introduce un ricorso di incostituzionalità esperibile esclusivamente dallo Stato nei confronti delle Comunità autonome, e non viceversa. Inoltre, stando alla lettera di tale previsione, l’oggetto del controllo di costituzionalità viene generalizzato a qualsiasi atto delle Comunità autonome e non solo a quelli aventi rango legislativo.
A seguire, il prof. Antonio Brancasi, in un intervento, ha ricordato, con riferimento al caso tedesco e all’ipotesi di dichiarare incostituzionali le leggi di bilancio, la sentenza della Corte costituzionale con cui si è dichiarata incostituzionale per la prima volta la legge di bilancio della regione Campania per violazione dell’obbligo di copertura finanziaria. L’ipotesi di una declaratoria di incostituzionalità che colpisca una legge di bilancio diventa consistente in Italia dopo quest’ultima riforma costituzionale: il nuovo art. 81 Cost. e la regola sul pareggio di bilancio diventano un parametro di costituzionalità anche e forse soprattutto per le leggi di bilancio.
Quanto, invece, al rapporto tra pareggio di bilancio e tutela dei diritti, evocato dal prof. Bifulco, inizialmente si era pensato di introdurre la clausola nella prima parte della Costituzione; successivamente, però, considerando che il pareggio non è un valore in funzione del riconoscimento dei diritti, lo si è inserito dove nella seconda parte.
La relazione del prof. Alessandro Petretto ha avuto ad oggetto il tema Costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, stabilità e crescita economica, il quale ha valutato positivamente l’introduzione da parte della l. cost. n. 1/2012 di una legge “forte”, per la cui approvazione modifica si richiede una maggioranza aggravata.
E’ bene, infatti, che decisioni “quadro” in tema di finanza pubblica siano assunte con ampio consenso. In tal modo si cerca di rimediare almeno in parte al problema dell’opportunismo dei politici, che tendono ad assumere decisioni indipendentemente dal fatto che questi comportino o aggravino deficit di bilancio.
Allo stesso tempo, comunque, non si intende qui negare che i tecnici-economisti siano abilitati ad influenzare le decisioni politiche in questo settore a prescindere dalle regole istituzionali. Buchanan, non a caso, ha affermato che gli economisti devono guardare sempre alla struttura entro cui il processo decisionale ha luogo, tenendo conto dei vincoli costituzionali.
La riforma costituzionale sul pareggio di bilancio fa riflettere poi anche sul rapporto tra regole e discrezionalità del legislatore in tema di politica economica. Nel 1958 Friedman ha indicato tre limiti principali alla discrezionalità delle scelte del legislatore in tema di politica economica. Vi sono limiti di: conoscenza; fiducia; e benevolenza (nel senso che la spesa pubblica assecondano spesso le dinamiche che i gruppi di interesse vogliono che siano seguite).
Esistono comunque anche degli strumenti che controbilanciano i problemi derivanti da un eccesso di discrezionalità del legislatore che porti alla degenerazione delle politiche economiche. Innanzitutto, sono istituite delle agenzie indipendenti di controllo, come le banche centrali, e in secondo luogo, come si è anticipato, si prevedono regole sostenute da maggioranze qualificate.
In riferimento al rapporto tra politica e vincoli alle decisioni finanziarie, occorre rivalutare alcuni studi, come quelli di Besley e Smart del 2007, i quali collegano il vincolo costituzionale di pareggio di bilancio e il seguito che a questo viene dato al processo di selezione della classe politica, in termini di accountability.
Si parla spesso, anche in Italia, in occasione della riforma costituzionale, degli effetti benefici della c.d. golden rule, sottostimandone, al contrario i punti critici. Tra questi si possono senz’altro annoverare i seguenti: l’ambigua definizione degli investimenti pubblici compatibili con la golden rule; la difficoltà di stimare correttamente l’ammortamento; la necessità di porre in essere investimenti che siano automaticamente produttivi; nonostante la golden rule, il debito può essere comunque insostenibile; la golden rule, infine, implica un’interpretazione univoca del teorema dell’equivalenza ricardiana che fa leva sull’altruismo intergenerazionale.
In conclusione, quanto al rapporto tra conti pubblici e italiani e crescita economica, ha sottolineato come il deficit italiano non sia affatto congiunturale: l’occupazione è stata mantenuta alta pur avendo gli occupati una produttività bassissima, tanto è vero che il tasso di crescita potenziale italiano è asfittico. Il caso italiano dimostra che il deficit può produrre effettivi espansivi, ossia di stimolo alla crescita solo nel breve periodo. Rispetto al debito pubblico, invece, si è inviato a non mitizzarne troppo l’eredità in senso negativo sulle generazioni future: infatti, se il debito pubblico serve a finanziare investimenti pubblici è comunque positivo.
Le conclusioni del convegno sono state affidate al prof. Pierluigi Ciocca, il quale ha fornito innanzitutto una indicazione di metodo, emersa dalle relazioni presentate: ossia la necessità di costruire un rapporto più stretto tra diritto ed economia. L’economia può essere plasmata, infatti, dall’esperienza giuridica. L’economia italiana, in particolare, difficilmente ritroverà la strada smarrita se mancherà un ripensamento organico dei blocchi dell’ordinamento giuridico (del diritto societario, del processo civile, del diritto bancario, della disciplina della concorrenza, del diritto amministrativo e del diritto del lavoro). La recessione che viviamo dal 2008, infatti, è la più grave mai sperimentata dall’Italia in tempi di pace dall’epoca di Cavour.
Sul merito delle relazioni, ha forumulato due commenti. Il primo concerne direttamente la crisi. L’economia di mercato capitalistica ha superato infatti la soglia della sua intrinseca instabilità. Keynes nel 1936 aveva già spiegato le ragioni dell’instabilità di un tale tipo di economia; instabilità causata dal fatto che la propensione ad investire è volatile, essendo volatile la remunerazione degli investimenti.
Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto da diversi relatori a proposito dell’assenza di vincoli all’operato dei mercati finanziari, si è rilevato che mai la finanza internazionale era tanto regolata come nel 2008. Quindi non è l’assenza di regole la causa della crisi. Semmai, è piuttosto una scelta di tipo qualitativo sulle norme che occorre operare in modo da renderle effettive.
Il secondo commento di merito, invece, riguarda il pareggio di bilancio e la riforma costituzionale. Da questa prospettiva, ha espresso una netta contrarietà alla costituzionalizzazione della clausola del pareggio di bilancio, sposando una posizione keynesiana “pura”. Se l’economia non riesce risollevarsi occorre effettuare investimenti pubblici: non a caso, l’economia italiana è cresciuta per lo più durante il periodo giolittiano e tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. La classe politica italiana ha portato l’economia italiana sul baratro del default, basando la gestione delle finanza pubblica sull’assenza pressoché totale di investimenti di lungo periodo e su una tassazione crescente.
Il successo vero, piuttosto che introdurre la regola del pareggio di bilancio in Costituzione, deriverebbe dall’acquisizione di una reale capacità di governo della composizione del bilancio pubblico.