Corte costituzionale, 18 aprile 2012, n. 110 – In tema di custodia cautelare per reati ex artt. 416, 473 e 474 cod. pen.

11.05.2012

Corte costituzionale, sentenza n. 110, 18 aprile 2012

Giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del c.p.p., come mod. dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, conv., con mod., dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, promosso dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Ancona nel procedimento penale nei confronti di M.E. e altri.

Norme impugnate

Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Ancona dubita, in riferimento agli articoli 3, 13, prima comma, e 27 Cost., della legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale, come mod. dall’art. 2, comma 1, del  decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), conv., con mod., dalla legge 23 aprile 2009, n. 38 “nella parte in cui impone l’applicazione o non consente la sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con altra differente misura meno afflittiva” in relazione al delitto di cui all’art. 414 del c.p. realizzato allo scopo di commettere reati di cui agli artt. 473 e 474 del c.p.

Argomentazioni della Corte

La Corte costituzionale, innanzitutto, ritiene la questione “fondata” e riprende la propria giurisprudenza in materia. In una prima pronuncia, la Corte aveva già dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma censurata, “nella parte in cui configura una presunzione assoluta – anziché relativa – di adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfare le esigenze cautelari nei confronti della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti a sfondo sessuale (…)” (sentenza n. 265 del 2010).

In un secondo gruppo di pronunce, la Corte è pervenuta ad un’altra analoga declaratoria di illegittimità costituzionale nei riguardi della norma censurata, nella parte in cui “assoggetta a presunzione assoluta anche il delitto di omicidio volontario e quello di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope” (sentenze nn. 164 e 231 del 2011). Infine, in un’altra pronuncia, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, recante “una disciplina analoga a quella contenuta nell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, del c.p.p.” (sentenza n. 331 del 2011).

Dai rilievi espressi nelle varie sentenze, la Corte esplica alcuni principi fondamentali: in particolare, rispetto alla tutela di alcuni valori costituzionali – quali il principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.) – la disciplina delle misure cautelari dovrebbe essere caratterizzata “dal minore sacrificio necessario: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso in concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della pluralità graduata, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte individualizzanti del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete. A questi canoni si conforma la disciplina generale del codice di procedura penale, basata sulla tipizzazione di un ventaglio di misure di gravità crescente (art. 281-285) e sulla correlata enunciazione del principio di adeguatezza (art. 275, comma 1), in applicazione del quale il giudice è tenuto a scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a soddisfare le esigenze cautelari ravvisabili nel caso concreto e, conseguentemente, a far ricorso alla misura massima (la custodia cautelare in carcere) solo quando ogni altra misura risulti inadeguata (art. 275, comma 3, primo periodo)”.

Secondo la Corte, la norma censurata non rispetta il sistema di norme e principi sopra descritto. Infatti, la disciplina impugnata stabilisce “rispetto ai soggetti raggiunti da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti, una duplice presunzione: relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari, e assoluta, quanto alla scelta della misura, reputando il legislatore adeguata, ove la presunzione relativa non risulti vinta, unicamente la custodia cautelare in carcere, senza alcuna possibile alternativa”.

In merito a questo punto, la Corte afferma che le presunzioni assolute “quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie o irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati (…) e che l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa”. La Corte ha individuato tale ipotesi nei delitti oggetto delle sentenze precedentemente descritte, per le quali si potevano prevedere “esigenze cautelari adeguatamente fronteggiabili con misure diverse e meno afflittive di quella carceraria”. A tali figure delittuose non poteva, infatti, “estendersi la ratio giustificativa del regime derogatorio per i delitti di mafia”, per i quali, proprio in base ad alcuni specifiche peculiarità (in particolare, quel vincolo associativo in grado di esprimere intimidazioni ed assoggettamenti), si prevede la sola custodia cautelare in carcere.

Il delitto di associazione a delinquere realizzato allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen. – oggetto del presente giudizio – viene definito coma “una forma speciale del delitto di associazione per delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei reati-fine (…) si tratta, dunque, di fattispecie aperta (…) che si presta a qualificare penalmente fatti e situazioni in concreto i più diversi ed eterogenei”. In particolare, il paradigma legale della figura criminosa in esame è del tutto svincolato da quelle connotazioni normative proprie dell’associazione di tipo mafioso.  Secondo la Corte, pertanto, “è corretta la tesi del rimettente, secondo cui nella fattispecie in esame fanno difetto le caratteristiche che hanno portato questa Corte a ritenere legittimo il regime cautelare speciale per i reati di mafia”.

Conclusioni della Corte

La Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale, come mod. dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 conv., con mod., dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416 cod. pen., realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 cod. pen., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che no sussistono esigenza cautelari – non fa salva, altresì, l’ipostesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Luca Di Donato