Con la sentenza in rassegna il Consiglio di Stato ha proceduto a confermare con chiarezza il proprio orientamento in merito alla portata dell’istituto della conferenza di servizi cd. decisoria, così come disciplinato dagli artt. 14 e ss. della l. n. 241 del 1990 e successive modifiche apportate con le l. n. 340 del 2000 e n. 15 del 2005.
I giudici di Palazzo Spada hanno infatti colto l’occasione fornita dall’appello proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali e dalla Soprintendenza per i beni architettonici ed il paesaggio avverso la sentenza di primo grado con cui era stato accolto il ricorso contro il provvedimento di annullamento dell’autorizzazione rilasciata dal Comune per la realizzazione di una struttura ricettiva ad uso pubblico, e dal contestuale appello incidentale, per rimarcare il costante orientamento giurisprudenziale in materia.
Con la sentenza impugnata il Giudice di prime cure aveva riconosciuto il vizio di eccesso di potere per carenza di motivazione in cui era incorsa la Soprintendenza al momento dell’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, originariamente rilasciata dal Comune, per contrasto con i valori archeologici e paesaggistici della zona costiera.
Le Amministrazioni appellanti avevano censurato tale provvedimento sostenendo, per converso, come il potere di vigilanza della Soprintendenza potesse essere esteso a tutti i vizi di legittimità e, pertanto, anche alla carenza di motivazione del provvedimento sottoposto a controllo.
Avverso la medesima sentenza veniva proposto appello incidentale da parte dell’originaria ricorrente in primo grado, la quale contestava il decisum nella misura in cui vi si riteneva “il meccanismo di esercizio delle competenze in materia paesaggistica previsto dall’art. 82, nono comma, d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 … incompatibile con l’istituto della conferenza di servizi, con conseguente necessità di attivare successivamente alla conclusione della conferenza l’emanazione dell’autorizzazione paesaggistica da parte dell’autorità delegata e la successiva verifica da parte della Soprintendenza“.
Nello specifico, veniva sostenuta la natura del provvedimento autorizzatorio del Comune come quello di una mera formalizzazione del parere favorevole sugli aspetti paesaggistici reso in seno alla Conferenza di servizi e, di conseguenza, si concludeva nel senso di doverne escludere l’idoneità a produrre una riattivazione dei poteri di controllo già precedentemente spesi in tale sede.
La Sesta Sezione, incentrando la propria disamina soprattutto sulle motivazioni proposte dall’appellante incidentale, ha ritenuto di accogliere le pretese avanzate dagli appellanti principali e, per l’effetto, annullare con riforma la sentenza impugnata.
Una siffatta determinazione ha trovato articolato fondamento in diversi ordini di ragioni, espressamente chiarite dal Collegio.
In via preliminare, venivano effettuate considerazioni di carattere definitorio, volte a precisare come la scelta del Legislatore di qualificare le risultanze della Conferenza di servizi con i “termini parere (paesaggistico) e di proposta (di variante urbanistica)“, ben evidenziassero – sin dal principio – la natura necessariamente preparatoria, non vincolante, di tali strumenti e, di conseguenza, la necessità che ad essi seguissero dei provvedimenti aventi i necessari requisiti di vincolatività e definitività.
Ciò premesso, il Consiglio di Stato ha delineato – in conformità con le previsioni normative in principio richiamate – la natura essenzialmente bifasica della Conferenza di servizi: uno strumento che, pertanto, deve ritenersi organizzato secondo una vera e propria “struttura dicotomica, articolata in una fase che si conclude con la determinazione della conferenza … ed in una successiva fase che si conclude con l’adozione del provvedimento finale“.
Il Collegio ha avuto cura di rimarcare con esattezza come la prima fase di determinazione della Conferenza (si noti bene, anche nel caso in cui essa abbia carattere cd. decisorio) è da ritenersi dotata esclusivamente “di valenza endoprocedimentale“, mentre la seconda ed ultima fase, mediante la quale si addiviene all'”adozione del provvedimento finale, … ha valenza esoprocedimentale ed esterna“, ed è quindi la sola idonea a determinare in concreto la fattispecie ed incidere “sulle situazioni degli interessati“.
A sostegno di tale ipotesi ricostruttiva il Supremo Consesso Amministrativo ha posto l’intervenuta abrogazione – a seguito della l. n. 340 del 2000 – della previsione con cui si attribuiva carattere immediatamente esecutivo alla determinazione conclusiva della conferenza di servizi, così come l’abrogazione, avvenuta a mezzo della l. n. 15 del 2005, della disposizione “che consentiva alle amministrazioni dissenzienti di impugnare direttamente ed immediatamente la determinazione conclusiva della conferenza di servizi“.
Sotto un punto di vista sistematico, la Sesta Sezione ha avuto cura di ricostruire la ratio sottesa all’istituto stesso, procedendo così ad individuarne i presupposti, l’oggetto specifico ed i limiti.
A tal proposito, molto chiara è l’espressione del Collegio al momento in cui ha precisato che “le esigenze di semplificazione e concentrazione” sottese all’istituto in esame non possono comportare “la dequotazione sistematica delle ragioni sottese alla distinzione tra momento conclusivo dei lavori della Conferenza ed il successivo momento provvedimentale“: in caso contrario, infatti, a farne le spese sarebbe, in primis, “il complessivo sistema di garanzie e responsabilità trasfuso nel nuovo Capo IV-bis della l. n. 241 del 1990, con particolare riguardo all’onere di comunicazione, all’acquisto di efficacia e … al carattere di esecutorietà del provvedimento“.
In altri termini, sarebbe la stessa natura della Conferenza di servizi a rendere inconcepibile la sostituzione della determinazione assunta al termine della Conferenza di servizi con il provvedimento finale, espressione del potere autoritativo della stessa Autorità procedente.
Non può infatti essere omesso di considerare come se la prima è luogo di incontro dei diversi soggetti interessati che concretizza la propria “utilità operativa [nel]la conoscenza delle reciproche posizioni, il raccordo organizzativo e temporale, l’obiettivo di complessiva accelerazione delle decisioni“, il secondo è espressione concreta del potere pubblico posto in capo all’Amministrazione procedente e, in quanto tale, sede in cui “si concentra … l’imputazione di responsabilità derivante dall’assunzione della decisione amministrativa che segue la valutazione collegiale (responsabilità che non è condivisa dagli altri partecipanti alla conferenza)“.
Il Collegio ha avuto altresì cura di individuare quali sarebbero i rischi concreti derivanti da un’impostazione concettuale quale quella seguita dall’appellante incidentale: l’illegittima configurazione, in capo agli altri soggetti partecipanti alla Conferenza, “di un potere pubblico non di loro competenza, senza responsabilità né preposizione“, finirebbe per porsi contro alle articolazioni organizzative in cui è suddivisa l’Amministrazione ed al loro funzionamento secondo ben individuate “capacità amministrative e conoscenze tecniche” e, di conseguenza, finirebbe per violare “il limite del razionale esercizio dell’azione amministrativa, fondato sul principio della buona amministrazione (ex art. 97 Cost.)“.
Gli effetti sull’istituto in esame, pertanto, sarebbero quelli – del tutto deprecabili – di trasformare la Conferenza “da occasione procedimentale di accelerazione e coordinamento dei casi complessi, qual è, [in] luogo privativo di formazione collegiale della decisione, vale a dire organo decidente“.
In ragione delle considerazioni suesposte, il Collegio ha ritenuto che per quanto la Conferenza di servizi possa essere utile “ad un esame contestuale e sollecito dell’istanza e possa comportare il raccordo con altri procedimenti“, non può essere in alcun modo considerato ex se idoneo – in assenza di un “autonomo, espresso e puntuale provvedimento di autorizzazione da parte dell’ente competente” – a garantire la legittimità, sotto il profilo paesaggistico, dell’intervento in esame.