Con ordinanza n. 1628/2011, del 7 Settembre 2011, il T.A.R. Sicilia, Palermo, ha rimesso all’esame della Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, comma 5 del Codice del Processo Amministrativo[1] (D.lgs. 2 Luglio 2010, n. 104), nella parte in cui, disciplinando il rapporto tra azione di annullamento e azione di risarcimento del danno, limita la proposizione di quest’ultima entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente, in tal caso, dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento del provvedimento lesivo; con ciò cagionando «un’irragionevole compressione del diritto di difesa in giudizio della parte danneggiata» e, conseguentemente, una violazione degli articoli 3, 24, 103 e 113, Cost.
La fattispecie sottoposta al vaglio del collegio siciliano concerne, infatti, un’actio damni proposta per la prima volta in un giudizio di ottemperanza ad un preesistente giudicato di annullamento; possibilità, questa, ammessa dall’art. 112, comma 4, a condizione, tuttavia, che il relativo giudizio venga instaurato entro il termine previsto dall’art. 30, comma 5 (centoventi giorni decorrenti dal passaggio in giudicato della sentenza), piuttosto che nell’ordinario termine di prescrizione dell’actio iudicati, e che si svolga “nelle forme, nei modi e nei termini del processo ordinario” – invece che in quelle più dimesse del rito camerale.
I dubbi di costituzionalità, in particolare, riguardano la scelta legislativa di sottoporre la proposizione dell’azione risarcitoria ad un termine di decadenza, piuttosto che di prescrizione, tanto più nell’ipotesi in cui la stessa non sia proposta in via autonoma (art. 30, comma 3), bensì consegua alla formazione di una statuizione giurisdizionale irrevocabile sull’illegittimità dell’atto lesivo, fonte del danno ingiusto. Nel primo caso, infatti, la cognizione incidentale da parte del giudice del provvedimento illegittimo – funzionale alla statuizione sull’an e sul quantum del danno subito dal ricorrente –, giustificano, almeno astrattamente, la sottoposizione dell’actio damni ad un termine decadenziale; nel secondo caso, invece, attenendo quest’ultima solo alle conseguenze patrimoniali dell’illecito cagionato dalla pubblica amministrazione, rende assolutamente illogica ed irrazionale la scelta della decadenza, poiché l’esigenza di certezza e stabilità è stata già soddisfatta dalla formazione del giudicato sulla statuizione di annullamento dell’atto invalido.
Applicando la disciplina codicistica, la domanda risarcitoria sarebbe senz’altro irricevibile, poiché proposta oltre il termine di centoventi giorni; pertanto, l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della norma citata consentirebbe ai giudici di conoscere il merito della stessa, grazie ad un ritorno alla disciplina della prescrizione, «cui le azioni risarcitorie per illegittimo esercizio della funzione erano sottoposte» prima dell’entrata in vigore del Codice.
I principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, dichiarati in apertura dal Codice (art. 1) – in attuazione degli articoli 111 e 113 Cost. – rischiano, pertanto, di trasformarsi in meri simulacri, a causa di scelte legislative che non consentono al processo di diventare il luogo esclusivo e privilegiato in cui il danneggiato possa far valere i suoi diritti e interessi lesi, ottenere un’equa riparazione del danno subito, nonché aspirare all’effettivo conseguimento del “bene della vita”.
L’azione risarcitoria, infatti, «si pone al di fuori» della ratio che sorregge la scelta di un termine di decadenza, consistente nell’esigenza di certezza e stabilità dei rapporti giuridici; pertanto, la soluzione codicistica appare più il frutto di un tentativo di conciliazione delle «opposte posizioni emerse nella giurisprudenza della Corte di Cassazione e in quella del Consiglio di Stato» sulla c.d. pregiudiziale di annullamento (ossia, sulla necessità o meno di subordinare la proposizione dell’actio damni alla preventiva impugnazione del provvedimento illegittimo), che non il sintomo di un’apertura del processo amministrativo ai principi della pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, cui le note sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 della Corte Costituzionale hanno apportato un notevole contributo. A nulla vale l’attribuzione legislativa esclusiva (art. 30, comma 6) al giudice amministrativo della cognizione delle controversie risarcitorie derivanti dall’esercizio illegittimo della funzione pubblica, se tutto ciò «comporta come contropartita l’introduzione di un regime che, derogando al diritto comune, comprime significativamente le condizioni per l’accesso al rimedio [..]».
Spetterà, pertanto, alla Consulta verificare la legittimità costituzionale di una disposizione che, sebbene introduca una disciplina fortemente innovativa rispetto al passato, ssembra lungi, tuttavia, dal riconoscere alla giurisdizione amministrativa una pari dignità rispetto a quella ordinaria, quanto a pienezza ed effettività di tutela.
[1] L’art. 30 c.p.a. disciplina sia l’ipotesi di azione risarcitoria autonoma, sottoponendola al termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento, se il danno deriva direttamente da questo (comma 3), sia quella in cui sia proposta contestualmente ad altra azione (comma 5). In questo caso, la stessa può essere formulata nel corso del giudizio, o comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza.