Le fonti regionali del diritto, tra sussidiarietà e principio di competenza – Milano, 7 novembre 2011

25.05.2011

Il 7 novembre 2011, presso l’Università degli Studi di Milano, si è tenuto il quinto incontro del ciclo di lezioni dedicate alle fonti del diritto, nell’ordinamento italiano e nel diritto comparato.

A tracciare un quadro introduttivo dell’argomento, è intervenuto il dott. Luca Vanoni, ricercatore in Diritto costituzionale presso il medesimo ateneo.

Il rapporto tra fonti regionali e fonti statali del diritto è attraversato da una tensione tipica dei sistemi federali, nonché di quei sistemi regionali, come quello italiano, che tentano di federalizzarsi. Tale tensione è facilmente individuabile nell’art. 5 Cost., dove si affermano l’unità e l’indivisibilità della Repubblica italiana e, allo stesso tempo, si prescrive l’obbligo di attuare il più ampio decentramento amministrativo, nonché di adeguare i principi e i metodi della legislazione alle esigenze dell’autonomia. La tensione tra unicità è molteplicità non si può non riflettere, quindi, sul sistema delle fonti.

Tradizionalmente, il criterio ordinatore e regolatore delle fonti del diritto è dato dal principio di competenza, tendenzialmente rigido, statico e ispirato a una logica di separazione. Questo criterio, interagendo insieme con il principio gerarchico, attribuisce a un determinato soggetto la competenza a esercitare la potestà legislativa in alcune materie. Il nuovo art. 117 Cost. ha rovesciato l’ordine di ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni, attribuendo allo Stato una potestà legislativa esclusiva, nelle materie espressamente enumerate, e alle Regioni una competenza generale residuale. Vi sono poi materie in cui Stato e Regioni esercitano una potestà legislativa concorrente. Con la riforma del Titolo V, inoltre, sebbene il principio della competenza sia stato rafforzato in una prospettiva federale, si è provveduto a introdurre un nuovo criterio, derivante dall’applicazione del principio di sussidiarietà.

Tale principio, che oggi ordina l’esercizio delle funzioni amministrative, secondo quanto disciplinato all’art. 118 Cost., co. 1, stabilisce una regola generale, in base a cui il governo chiamato a esercitare queste funzioni dovrebbe essere quello più vicino ai cittadini (il comune), individuando, così, un criterio ascensionale sussidiario, mediante il quale le suddette funzioni amministrative possono essere attratte dai livelli più lontani dal cittadino, “per assicurarne l’esercizio unitario”. Pertanto, lo schema di ripartizione delle competenze, ex art. 117 Cost., risulta derogabile in virtù della c.d. “chiamata in sussidiarietà”, riconosciuta dalla Corte costituzionale nella ben nota sentenza n. 303/2003: tenendo conto che il principio di legalità impone che le funzioni amministrative siano fondate su apposite norme di legge, ne deriva che lo Stato risulta legittimato anche a emanare norme legislative, di rango primario, che disciplinino lo svolgimento di quelle competenze, che in realtà non gli spetterebbero, ove dallo Stato siano esercitate per effetto del principio di sussidiarietà. Ciò è tollerabile solo nella misura in cui la legge statale agisca con ragionevolezza e proporzionalità, rispetto all’obiettivo perseguito, e preveda adeguate forme di collaborazione con le Regioni interessate, attraverso procedure di intesa.

La Corte costituzionale, tuttavia, nell’ambito di alcune pronunce successive alla sentenza n. 303/2003 (si pensi alla sentenze nn. 151/2005 e 76/2009), ha ammesso la possibilità che lo Stato possa intervenire a disciplinare le materie a competenza concorrente o residuale anche mediante un regolamento  e, quindi, attraverso una fonte di rango secondario. La Corte, inoltre, nel controllare i presupposti dell’“attrazione”, ha trasferito la valutazione dell’interesse regionale compresso sul principio di leale collaborazione, operando uno schiacciamento della sussidiarietà nel suddetto principio, divenuto il luogo privilegiato in cui centro e periferia collaborano nella definizione delle rispettive competenze. È nella verifica delle intese fra Stato e Regioni che la Corte valuta, dunque, se la “chiamata in sussidiarietà” è legittimata dal punto di vista  costituzionale. Questi elementi hanno determinato alcuni problemi interpretativi e hanno operato, di fatto, una disarticolazione nel sistema delle fonti.

In accordo con l’analisi fatta dal dott. Vanoni, il professor Stelio Mangiameli, dell’Università degli Studi di Teramo, ha meglio chiarito che nell’art. 5 Cost. si possono distinguere due piani: uno politico, su cui si colloca il principio di unità e indivisibilità della Repubblica, e uno giuridico, rappresentato dal riconoscimento delle autonomie e dell’attuazione del decentramento amministrativo.

Sebbene la regola di fondo del primo e del secondo regionalismo sia stata quella dell’autaut, in base a cui si è provveduto a individuare puntualmente le competenze spettanti allo Stato e alle Regioni, questo criterio ha dovuto affrontare non poche difficoltà, anche in seguito alla riforma costituzionale del 2001. Da un punto di vista meramente formale, la tecnica costituzionale con cui è stata effettuata la ripartizione delle competenze è senza dubbio di tipo federalistico; sul piano del merito, al contrario, va detto che il nuovo Titolo V presenta una scarsa sostanza federale, in quanto il 2° comma dell’art. 117 Cost. descrive uno Stato perlopiù di tipo ottocentesco.

Il principio di sussidiarietà, poi, così come delineato nel nuovo art. 118 Cost., è un principio che presenta aspetti dinamici ed elastici, dal momento che, enunciando come regola base la competenza del livello inferiore, più vicino al cittadino, stabilisce delle condizioni al verificarsi delle quali è subordinato l’intervento sussidiario del livello superiore. Ciò nonostante, la sussidiarietà presenta comunque un aspetto statico, ravvisabile nella preferenza accordata al livello di governo minore, in favore del quale si opera una riserva di competenza. Un esempio è dato dal vecchio art. 118 Cost., dove, al comma 1, era previsto che lo Stato potesse, con legge, attribuire agli enti locali l’esercizio delle funzioni amministrative spettanti alle Regioni, nelle materie elencate dal vecchio art. 117 Cost. (c.d. principio del parallelismo).

Sebbene, inoltre, la sussidiarietà avesse dovuto, teoricamente, proteggere le competenze della comunità e del livello di governo più vicino al cittadino, in realtà essa ha rappresentato il principio giustificatore dello spostamento di quelle competenze verso l’altro, invece del loro consolidamento verso il basso. L’intervento della Corte costituzionale, in quest’ottica, ha quindi fatto riemergere il principio di supremazia dello Stato.

Per quanto concerne la leale collaborazione, il principio espressione del modello costituzionale del primo regionalismo non trova una chiara cittadinanza nel nuovo Titolo V Cost.  Il fatto che la Corte lo abbia riesumato nella citata sentenza n. 303/2003 crea alcuni problemi, poiché il principio, così come declinato in via giurisprudenziale, non è presente nel testo costituzionale, se non all’articolo 120, comma 2, per l’esercizio del potere sostitutivo.

Tale principio, inoltre, letto nell’ottica del coinvolgimento delle Regioni attraverso le procedure di intesa tra centro e periferia,  si collega all’utilizzo del sistema delle Conferenze Stato-Regioni, legittimato anche dalla giurisprudenza della Corte. Vi sono, però, talune aporie: anzitutto, nel sistema delle Conferenze non sono rappresentati i Consigli regionali, ossia gli organi legislatori, bensì gli esecutivi; in secondo luogo, la collaborazione fra Stato e Regione dovrebbe riguardare più specificamente il contenuto della legge statale, collocandosi a monte dell’esercizio della funzione legislativa e non a valle, ossia sul contenuto del atto amministrativo. Il legislatore statale, dunque, una volta raggiunta l’intesa ed espletata la fase di collaborazione, dovrebbe poter essere libero di agire come meglio crede.

Infine, il paradosso maggiore viene a verificarsi allorquando, alla luce delle novità introdotte dal Trattato di Lisbona, i Consigli regionali risultano a tutti gli effetti interlocutori da consultare nella verifica del rispetto del principio di sussidiarietà sul piano europeo (secondo quanto stabilito dal Protocollo n. 2, annesso al Trattato), mentre non hanno nessuna voce in capitolo sul piano del controllo della sussidiarietà interna.

a cura di Antonio Bruno