Corte Costituzionale: sentenze 24, 25, 26 e 27/2011 in tema di referendum abrogativi della disciplina dei servizi pubblici locali e del servizio idrico integrato

25.05.2011

La Corte Costituzionale con le sentenze 24, 25, 26 e 27/2011 si è pronunciata sulle richieste di referendum abrogativo promosse contro la disciplina in materia di servizi pubblici locali dettata dall’articolo 23 bis del d.l. 112/2008 conv., con mod., dalla legge 133/2008 e s.m.i. e contro alcune disposizioni contenute del d.lgs. 152/2006 (cd. codice dell’ambiente) in tema di disciplina del servizio idrico integrato.

Più nel dettaglio, con la pronuncia 24/2011, la Corte ha ritenuto ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’intero art. 23 bis del d.l. 112/2008, mentre con la pronuncia 26/2011 è stata ritenuta ammissibile la richiesta di referendum abrogativo promossa avverso l’art. 154, co. 1 (Tariffa del servizio idrico integrato) del d.lgs n.152/06 limitatamente alla parole «dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito».

Sono state invece ritenute inammissibili le altre richieste di referendum promosse contro l’articolo 150 del d.lgs. n. 152/2006, in tema di scelta della forma di gestione e procedure di affidamento nel servizio idrico integrato (sentenza 25/2011) e contro alcune puntuali disposizioni della disciplina delineata dall’articolo 23 bis – comma 10, let. d)  e contro l’articolo 15, co. 1 ter, del d.l. 135/2009 (sentenza 27/2011).

Di seguito, vengono richiamati i principali passaggi argomentativi svolti dai Giudici costituzionali, analizzando dapprima le pronunce di ammissibilità (sentt. 24 e 26/2011) e poi quelle di inammissibilità (sentt. 25 e 27/2011).

Nella sentenza 24/2011 relativa alla richiesta di abrogazione referendaria dell’intero articolo 23 bis, la Corte ha ritenuto che il quesito fosse rispettoso dei limiti di cui all’articolo 75 della Costituzione. Con particolare riferimento alla questione del rapporto tra la disciplina oggetto della richiesta ed il diritto comunitario, la Corte ha osservato, da un lato, come tale disciplina non abbia un contenuto comunitariamente vincolato – e, dunque, non possa essere considerata come a contenuto costituzionalmente vincolato ex artt. 11 e 117, 1 co., Costituzione; dall’altro, che a seguito dell’eventuale abrogazione della disciplina non si determinerebbe alcun inadempimento ad obblighi comunitari.

In relazione al primo profilo, viene richiamato quanto di recente affermato dalla stessa giurisprudenza costituzionale con la sentenza 325/2010 secondo cui l’articolo 23 bis non costituisce una applicazione necessitata del diritto comunitario in quanto essa integra solo una delle diverse possibili discipline della materia che il legislatore nazionale avrebbe potuto legittimamente adottare senza violare il primo comma dell’articolo 117 della Costituzione. Attraverso tale disciplina, infatti, all’interno dell’ordinamento nazionale si è scelto di introduttore regole concorrenziali più rigorose di quelle minime richieste dal diritto dell’Unione Europea.

In tale medesima linea di ragionamento, in relazione al secondo profilo, la Corte osserva che dalla eventuale abrogazione non si determinerebbe né una lacuna normativa incompatibile con gli obblighi comunitari né l’applicazione di discipline contrastanti con l’assetto concorrenziale minimo ed inderogabile richiesto dall’ordinamento comunitario.

Al riguardo, i Giudici affermano espressamente che «…all’abrogazione dell’articolo 23 bis da un lato non conseguirebbe alcuna reviviscenza delle norme abrogate…dall’altro conseguirebbe l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (come si è visto, meno restrittiva rispetto a quella oggetto del referendum) relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici locali di rilevanza economica. Ne deriva l’ammissibilità del quesito per l’insussistenza di impedimenti di natura comunitaria».

Il quesito è giudicato ammissibile anche sotto il profilo della sua formulazione in quanto rispettoso di tutti i requisiti richiesti dalla giurisprudenza costituzionale in tema di ammissibilità a referendum: omogeneità; chiarezza e semplicità; univocità; completezza; coerenza; rispetto della natura essenzialmente ablativa dell’operazione referendaria[1].

Con la sentenza 26/2011 è stata ritenuta ammissibile la richiesta di abrogazione parziale della disciplina dettata dall’articolo 154, co. 1, del d. lgs. 152/2006 (cd. codice dell’ambiente) in materia di determinazione della tariffa del servizio idrico integrato.

La Corte – richiamata l’intera formulazione dell’articolo 154 a mente del quale «La tariffa costituisce il corrispettivo del servizio idrico integrato ed è determinata tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere, dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia, nonché di una quota parte dei costi di funzionamento dell’Autorità d’ambito, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio secondo il principio del recupero dei costi e secondo il principio “chi inquina paga”. Tutte le quote della tariffa del servizio idrico integrato hanno natura di corrispettivo» – ha osservato che la richiesta referendaria, volta ad espungere dalla richiamata formulazione l’inciso «dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito», non può essere considerata inammissibile per contrasto con la disciplina comunitaria.

Ad avviso del Giudice costituzionale, infatti, «l’inciso oggetto della richiesta referendaria non risulta a contenuto imposto dalla normativa indicata, essendo coessenziale alla nozione di “rilevanza” economica del servizio idrico integrato l’esercizio dell’attività con metodo economico, «nel senso che essa, considerata nella sua globalità, deve essere svolta in vista quantomeno della copertura, in un determinato periodo di tempo, dei costi mediante i ricavi (di qualsiasi natura questi siano, ivi compresi gli eventuali finanziamenti pubblici)» (sentenza n. 325 del 2010, punto 9.1. del Considerato in diritto). Pertanto il carattere remunerativo della tariffa non può essere definito elemento caratterizzante la nozione di «rilevanza» economica del servizio idrico integrato».  La Corte osserva altresì che «…il quesito, benché formulato con la cosiddetta tecnica del ritaglio, presenta, d’altro canto, i necessari caratteri della chiarezza, coerenza ed omogeneità. Infatti, attraverso l’abrogazione parziale del comma 1 dell’art. 154, e, in particolare, mediante l’eliminazione del riferimento al criterio della «adeguatezza della remunerazione del capitale investito», si persegue, chiaramente, la finalità di rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell’acqua. Non si può condividere, al riguardo, l’ulteriore rilievo circa la presunta inidoneità del quesito a perseguire il fine di eliminare la remunerazione del capitale investito, non potendosi non tenere conto anche di quest’ultimo nella determinazione della tariffa di un servizio qualificato di rilevanza economica. Invero, il quesito in questione risulta idoneo al fine perseguito, perché, come sopra si è notato, coessenziale alla nozione di “rilevanza” economica del servizio è la copertura dei costi (sentenza n. 325 del 2010), non già la remunerazione del capitale» (§ 5.2 cons. diritto).

Con la sentenza 25/2011 è stata affermata l’inammissibilità del quesito per l’abrogazione dell’articolo 150 del d. lgs. 152/2006 recante disciplina delle forma di gestione e procedure di affidamento in materia di risorse idriche.

Ad avviso della Corte, la richiesta referendaria – volta essenzialmente a rendere inapplicabile al servizio idrico integrato la disciplina di carattere generale in materia di servizi pubblici locali dettata dall’articolo 23 bis del d.l. 112/2008 – è da ritenersi inammissibile in quanto «si rivela inidoneo e non coerente (con conseguente difetto di chiarezza) rispetto al fine, che l’iniziativa referendaria si propone, di rendere inapplicabile al servizio idrico integrato la disciplina delle modalità di affidamento della gestione dei SPL a rilevanza economica».

Al riguardo, infatti, la Corte ha osservato che la normativa di risulta non può mai comportare l’abrogazione delle norme di cui all’art. 23 bis, limitatamente al settore del servizio idrico integrato, dal momento che «…la richiesta di abrogazione ha per oggetto soltanto l’art. 150 del codice dell’ambiente, il quale è stato già in buona parte abrogato, sia in modo espresso, sia per incompatibilità, dall’art. 23 bis (direttamente e per mezzo del regolamento di delegificazione autorizzato dallo stesso art. 23bis»[2].

Infine, con la pronuncia 27/2011 è stata ritenuta inammissibile la richiesta di referendum abrogativo delle due parti in cui si articolava il quarto quesito, volto ad incidere – con la tecnica del ritaglio – da un lato, sulla formulazione della lettera d) del comma 10 dell’art. 23 bis del decreto-legge n. 112 del 2008[3] e, dall’altro, sul comma 1 ter, dell’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009[4].

Nell’articolato motivazionale, la Corte rileva che «la richiesta di abrogazione referendaria non ha ad oggetto l’indicata complessiva disciplina delle modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso il servizio idrico integrato), ma solo frammenti di disposizioni non idonei ad incidere in modo significativo su di essa…Ne consegue che l’abrogazione delle parole “,nonché in materia di acqua», contenute nel menzionato comma 10, lettera d), di tale articolo, avrebbe il solo effetto di far venire meno la possibilità per il Governo di armonizzare la disciplina generale dell’affidamento della gestione del servizio idrico integrato (non toccata dal quesito) con la disciplina di settore dello stesso servizio. Tale effetto è intrinsecamente contraddittorio e rende obiettivamente oscuro il quesito, in quanto questo appare contemporaneamente diretto, da un lato, a rispettare l’intervenuta riforma generale dell’affidamento della gestione del servizio pubblico locale di rilevanza economica (anche idrico) e, dall’altro, ad impedire l’armonizzazione della disciplina del settore idrico con quella generale.

Inoltre, mentre la suddetta abrogazione di parte del comma 10, lettera d), dell’art. 23-bis sembra vòlta ad ostacolare, in qualche misura, l’armonica applicazione al servizio idrico della normativa generale concernente l’affidamento mediante gara pubblica della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, l’abrogazione del frammento del comma 1-ter dell’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009, per un verso, sembra diretta a produrre l’opposto effetto di favorire l’ente pubblico locale, in quanto non piú tenuto ad applicare il principio di autonomia del soggetto gestore del servizio idrico, e, per altro verso, pare avere l’intento di indebolire la posizione dell’ente locale, sembrando voler escludere, per il servizio idrico integrato, l’operatività dei princípi della piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, nonché della riserva esclusiva alle istituzioni pubbliche del governo di tali risorse» (§ 4 cons. diritto.)

Alla luce di tali considerazioni dunque la Corte conclude per l’inammissibilità della richiesta in quanto il quesito risulta privo dei requisiti di chiarezza ed univocità richiesti per l’ammissione a referendum abrogativo.


[1] Relativamente al requisito dell’omogeneità, nella sentenza si afferma che «…l’abrogazione richiesta riguarda una normativa generale, prevalente su quelle di settore…che è diretta sostanzialmente a restringere, rispetto alle regole concorrenziali minime comunitarie, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, di gestione in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. L’evidente unitarietà della disciplina di cui si richiede l’abrogazione comporta l’omogeneità del quesito. Esso, infatti, proprio perché diretto ad escludere l’applicazione di tale regolamentazione generale, è sorretto da una matrice razionalmente unitaria» (§ 5.1. cons. diritto).

Relativamente al requisito della congruità tra intento referendario e formulazione, la Corte osserva che «appare evidente che l’obiettiva ratio del quesito  va ravvisata, come sopra rilevato, nell’intento di escludere l’applicazione delle norme, contenute nell’art. 23-bis, che limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso il servizio idrico). Non sussiste, pertanto, alcuna contraddizione o incongruità tra tale intento intrinseco e la formulazione – del tutto chiara, semplice ed univoca − della richiesta referendaria di abrogare l’intero art. 23-bis» (§ 5.2 cons. diritto).

[2]. Più precisamente, nella sentenza 26/2011, la Corte osserva che «l’art. 150 del codice dell’ambiente rinvia all’art. 113 del d.lgs. n. 267 del 2000 (TUEL), il quale, come si è detto, è stato abrogato (in parte) dal citato art. 23-bis, anche mediante il suddetto regolamento di delegificazione. Quest’ultimo, poi, ha disposto che il richiamo al comma 7 dell’art. 113 TUEL (contenuto nell’art. 150) è sostituito dal richiamo all’art. 3, comma 1, del medesimo regolamento, il quale rinvia all’art. 23-bis, comma 2, concernente il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali in via ordinaria. La disposizione da ultimo citata stabilisce in modo espresso (comma 1, secondo periodo) che le sue norme si applicano a tutti i settori di SPL (tranne alcuni esclusi, tra cui non è compreso il servizio idrico), prevalendo sulle normative di settore e, quindi, anche su quella relativa al servizio idrico. Ne deriva che l’abrogazione referendaria dell’art. 150 del Codice dell’ambiente (attualmente consistente, peraltro, in una mera armonizzazione delle norme sul servizio idrico integrato con quelle, già autoapplicative, dell’art. 23 bis), in difetto dell’abrogazione di quest’ultima norma, non è idonea a far venire meno l’applicazione al solo servizio idrico delle forme di gestione fissate, anche per tale servizio, proprio dal detto art. 23-bis. In altre parole questo articolo è applicabile al settore idrico indipendentemente dalla vigenza dell’art. 150 del codice dell’ambiente» (§ 5.1. cons. diritto).

[3] La prima parte del quarto quesito era volta ad espungere le parole «, nonché in materia di acqua» dal testo dell’articolo dell’art. 23-bis, comma 10, lettera d), del d.. 112/2008, conv. con mod., dalla legge 133/2008 e s.m.i.

[4] La seconda parte del quarto quesito era volta ad espungere, da un lato, le parole ««di cui all’articolo 23-bis del citato decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008», dall’altro, le parole «nel rispetto dei princípi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio» dal testo dell’articolo 15, co. 1-ter, del d.l. 135/2009, conv., con mod., dalla legge 166/2009 e s.m.i.

a cura di Luigi Alla


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