Con motivazioni diverse ma – possiamo immaginare – un’eguale preoccupazione, la Commissione europea, il Consiglio e il Regno Unito hanno impugnato presso la Corte di giustizia la sentenza, resa il 30 settembre 2010, dal Tribunale, con la quale il medesimo ha annullato il regolamento 1190/2008 della Commissione (per la quale sentenza si veda, in questa Rivista, la nostra precedente segnalazione Un’ennesima tappa nella vicenda Kadi di fronte ai giudici dell’Unione europea). Prima fra tutti, la Commissione ha presentato il proprio ricorso il 13 dicembre 2010 (causa C-584/10 P), con le seguenti motivazioni: il «livello di controllo giurisdizionale adottato dal Tribunale è erroneo da un punto di vista giuridico in quanto la Corte non si è pronunciata sul livello di controllo giurisdizionale preciso applicabile e in quanto il livello di controllo giurisdizionale specifico applicato dal Tribunale non può essere richiesto dall’Unione europea»; «erroneamente il Tribunale ha ritenuto che le procedure attuate dalla Commissione non soddisfacessero i requisiti applicabili in materia di diritti fondamentali per questo tipo di regime di misure restrittive»; «erroneamente il Tribunale ha respinto l’argomento della Commissione riguardante la procedura nazionale avviata dal sig. Kadi negli Stati Uniti»; ed erroneamente il Tribunale ha respinto gli argomenti della Commissione riguardanti le procedure di revisione amministrativa e di riesame attuate in applicazione delle risoluzioni 1822(2008) e 1904(2009) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – ivi compresa la procedura del punto focale e dell’ufficio del mediatore.
Alla Commissione sono seguiti il Consiglio e il Regno Unito, che hanno proposto ricorso entrambi il 16 dicembre 2010. Il primo (causa C-593/10 P) ha addotto le seguenti motivazioni: in via principale, il Tribunale avrebbe commesso un «errore giuridico ritenendo che il regolamento impugnato non beneficiasse di un’immunità giurisdizionale»; in subordine, in quanto «il Tribunale ha interpretato ed applicato la giurisprudenza della Corte di giustizia in maniera erronea, nel ritenere che il controllo da effettuarsi debba essere “completo e rigoroso” nonché nell’esigere la trasmissione delle prove su cui si fonda la decisione alla persona o all’entità designata nonché ai giudici dell’Unione, allo scopo di garantire che i diritti della difesa di tale persona o entità siano rispettati» e in quanto «il Tribunale è incorso in un errore di diritto non tenendo debitamente conto dell’istituzione dell’ufficio del mediatore ad opera della risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1904(2009)». Il Regno Unito (causa C-595/10 P) ha invece ritenuto che «la conclusione cui è giunto il Tribunale secondo cui è appropriato un pieno controllo giurisdizionale con riferimento ai provvedimenti adottati dall’Unione europea per attuare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è contraria ai termini del Trattato UE nonché alla giurisprudenza dei giudici dell’Unione»; inoltre, dopo avere insistito sulla prevalenza degli obblighi della Carta delle Nazioni Unite su qualsiasi altro accordo, il Regno Unito ha affermato che «[n]ei limiti in cui possa dirsi adeguato un controllo dei provvedimenti dell’Unione europea che danno fedele attuazione alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, i giudici dell’Unione devono tener conto della natura e dello scopo della Carta delle Nazioni Unite, nonché del ruolo del Consiglio di Sicurezza, come organo primario incaricato di garantire la sicurezza e la pace internazionali».
Il Presidente della Corte di giustizia, al momento, ha già adottato una decisione di rito sui tre ricorsi, riunendoli, con ordinanza del 9 febbraio 2011, a norma dell’art. 56 dello Statuto. Ben più arduo è il compito che invece spetterà ai giudici della Corte, chiamati (nuovamente) a pronunciarsi sulla vicenda. In merito ad essa, è qui opportuno segnalare che un punto di significativa differenza fra la prima “tornata” di sentenze del Tribunale (allora di primo grado) e della Corte verteva sulla natura della competenza dell’Unione europea ad attuare le misure sanzionatorie decise dal Consiglio di Sicurezza, il primo ritenendo che essa fosse vincolata (sentenze del 21 settembre 2005, causa T-306/01, Ahmed Ali Yusuf e Al Barakaat International Foundation c. Consiglio e Commissione, punto 265, e caso T-315/01, Yassin Abdullah Kadi c. Consiglio e Commissione, punto 214), l’altra che invece fosse caratterizzata da un certo margine di manovra (sentenza del 3 settembre 2008, cause riunite C-402/05 P e C-415/05 P, Yassin Abdullah Kadi e Al Barakaat International Foundation c. Consiglio e Commissione, punto 298). Nell’ultima sentenza del Tribunale, esso è sembrato riluttante a riconoscere l’esistenza di quel margine di manovra, per il resto seguendo le indicazioni che la Corte aveva dato nella sentenza del 3 settembre 2008. Tuttavia, dal momento che, da un lato, è stata proprio la Corte, in quella sentenza, a concedere alla Commissione tre mesi di tempo per allinearsi agli standard europei di tutela dei diritti fondamentali, così ammettendo la natura discrezionale della competenza dell’UE ad attuare le misure del Consiglio di Sicurezza, e, dall’altro, non potendo – crediamo – la Commissione spingersi più in là di quanto fatto in occasione dell’adozione del regolamento 1190/2008 (semmai dovendosi ritenere, insieme ad autorevole dottrina – P. Gargiulo, Le misure di contrasto al terrorismo nell’era dei diritti umani: considerazioni introduttive, in La tutela dei diritti umani nella lotta e nella guerra al terrorismo, a cura di P. Gargiulo, M. C. Vitucci, Napoli, 2009, p. 1 ss., e spec. p. 16 – che l’unica soluzione percorribile sia quella nazionale), è facile (ed opportuno) rilevare il rischio che la Corte di giustizia “si accontenti” dell’operato dalla Commissione, con buona pace dei diritti fondamentali del sig. Kadi.