I MODELLI DI COOPERAZIONE INTER-MUNICIPALE. UNA PROSPETTIVA COMPARATA. Università degli studi di Udine. Udine, 30 marzo 2011.

20.05.2011

Il seminario di studi è stato aperto dal Prof. Fabio Honsell, Sindaco di Udine, il quale ha sottolineato come le municipalità rappresentino il livello di governo che sta assumendo sempre più poteri e funzioni anche rispetto alla dimensione europea dove, ad esempio, nell’ambito della nuova strategia 20-20-20, i Comuni hanno assunto un ruolo centrale mediante il cosiddetto Covenant of Mayors. Nell’ambito di una prospettiva in cui l’Europa si rivolge sempre più spesso ai livelli di governo comunali e ai Sindaci, nella prospettiva di una vera e propria Europa delle municipalità, il tema della cooperazione intercomunale è dunque talmente centrale che non può prescindere, nel caso italiano, dalla preventiva chiarificazione dei ruoli svolti dai differenti livelli di governo.

 Dopo il saluto del Prof. Danilo Castellano, Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Udine, che ha posto l’accento sula necessità di studiare in modo approfondito i temi dell’autonomia, sia nella sua versione delegata, sia in quella esercitata, prendendo spunto in particolar modo dalle esperienze francese e tedesca, ha preso la parola l’Assessore alle autonomie locali della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, Prof. Andrea Garlatti che, nel suo intervento, ha affermato come l’obiettivo della riforma dell’associazionismo comunale attualmente all’esame del Consiglio regionale, sia volto ad aumentare la competitività del territorio creando, dunque, maggiore sviluppo e maggiore coesione sociale tra i cittadini.

In un periodo di grande scarsità di contributi finanziari, le risorse sulle quali puntare a livello locale sono rappresentate dal territorio, dalla infrastrutture materiali e dalle infrastrutture immateriali nelle quali si colloca segnatamente la pubblica amministrazione. Una riforma dell’associazionismo comunale che sia lungimirante dovrà altresì prevedere la capacità di adattarsi ai continui mutamenti di ordine sociale ed economico che intervengono nel corso degli anni e dovrà incidere necessariamente sui tre aspetti fondamentali delle strutture, delle risorse e delle regole, avendo l’accortezza di intervenire con grande equilibrio sugli aspetti della rappresentanza politica, dell’adeguatezza delle strutture organizzative e del contemperamento degli interessi al momento della definizione delle decisioni.

Il nuovo intervento normativo a livello regionale è altresì richiesto dalla necessità di fare in modo che la prospettiva dell’associazionismo comunale continui a svilupparsi e a diffondersi, che la scelta in favore della cooperazione inter-municipale sia sempre più una scelta irreversibile e non di carattere temporaneo, che la qualità dei servizi offerti sia sempre più elevata facendo sì che l’esistenza di un livello di cooperazione inter-comunale sia sempre meno una scelta di facciata, facendo sì che le prospettive centripete prevalgano sempre su quelle centrifughe.

 È quindi intervenuto l’On. Gianfranco Pizzolitto, Presidente dell’ANCI del Friuli-Venezia Giulia, il quale ha rilevato che la grande parcellizzazione che caratterizza le autonomie locali, in rapporto all’uniformità del quadro normativo, fa sorgere notevoli problemi circa l’adeguatezza dei livelli di governo comunali. In questo quadro la prospettiva della semplificazione estrema della carta regionale e locale, oltre a ledere il principio autonomistico, non rappresenta certo la soluzione che deve essere invece rintracciata in interventi normativi adeguati.

In questa prospettiva va tuttavia preventivamente compreso che tutte le aggregazioni e le semplificazioni hanno bisogno di adeguate misure di incentivazione al fine di non ignorare il forte senso si appartenenza alle comunità locali e, in questo senso, si pone dunque l’esigenza di sviluppare dal basso, coinvolgendo i rappresentanti delle autonomie locali, qualsiasi prospettiva di riforma. In questo quadro, il mancato trasferimento delle funzioni comporterebbe un’inevitabile  iperburocratizzazione che non gioverebbe al nostro sistema amministrativo.

La prospettiva sulla quale occorrerebbe soffermarsi è rappresentata dai modelli di cooperazione inter-municipale che comportano la nascita di una nuova personalità giuridica, quali appunto le Unioni di Comuni, in luogo delle mere Associazioni intercomunali.

 La Prof.ssa Elena D’Orlando, dell’Università degli Studi di Udine, organizzatrice del seminario, ha affermato che il tema all’ordine del giorno è dibattuto in tutti gli ordinamenti europei, nei quali, all’annoso tema della frammentazione si tendono a dare due risposte: la fusione dei Comuni (realizzata in Germani negli anni ’70 e nel Regno Unito) oppure lo sviluppo della cooperazione intercomunale (come nel caso francese).

L’estrema parcellizzazione del tessuto comunale italiano e l’uniformità della disciplina giuridica dell’ordinamento locale sono caratteristiche genetiche del nostro ordinamento. La legge 142 del 1990 introduce per la prima volta una disciplina organica degli enti locali, puntando a superare la frammentazione con strumenti volontari, quali appunto le Unioni di Comuni, da istituire in vista della successiva fusione. Le cosiddette Leggi Bassanini della fine degli anni ’90 introducono il  federalismo amministrativo a Costitutzione invariata che ribalta i rapporti tra livelli di governo, ponendo al centro proprio il Comune e facendo dunque emergere il tema della dimensione ottimale per l’esercizio delle funzioni. In seguito alla riforma del Titolo V, i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione vengono inoltre costituzionalizzati.

Il dibattito sulle modalità mediante le quali è possibile garantire l’adeguatezza è stato sempre piuttosto animato, ma, a fronte di questo, gli interventi normativi sono sempre stati di tipo disorganico e non hanno mai posto mano al Testo unico sull’ordinamento degli enti locali antecedente alla riforma costituzionale. Da ultimo, il decreto legge n. 78 del 2010 obbliga all’esercizio in forma associata delle funzioni fondamentali i Comuni con popolazione fino a 5 mila abitanti, o fino a 3 mila abitanti nel caso di Comuni montanti, mediante l’istituzione di Convenzioni o Unioni Comuni, fatti salvi i margini di interventi previsti per il legislatore regionale.

L’esame comparato delle soluzioni adottate da altri ordinamenti si pone quindi come una necessità essenziale al fine della valutazione delle soluzioni da adottare in Italia e anche alla luce della prospettiva della Regione Friuli-Venezia Giulia di adottare quale principale forma associativa, anche nelle zone montane, la forma delle Unioni di Comuni.

 La Prof.ssa Adriana Vigneri, ex sottosegretario al Ministero dell’Interno e protagonista della stesura legge n. 265 del 1999 di riforma della legge n. 142 del 1990, ha ricordato che il rilancio delle Unioni di Comuni è stato dettato da due profonde innovazioni ivi introdotte concernenti la rimozione dell’obbligo di fusione dei Comuni aderenti all’Unione dopo dieci anni dalla creazione della stessa; la rimozione delle soglie demografiche oltre le quali non sarebbe stato possibile aderire ad una Unione; nonché la previsione che gli organi dell’Unione possono essere formati da membri degli organi dei Comuni, al fine di evitare l’estraneità di ceto politico tra chi governa la forma associativa e chi governa gli enti che ne fanno parte.

 Il Prof. Jens Woelk, dell’Università di Trento, ha trattato dell’esperienza tedesca rilevando come il tema della cooperazione intercomunale sia oggetto di grande attenzione, tanto da essere presenti veri e propri manuali di governo e statistiche concernenti le forme di associazionismo maggiormente diffuse e le funzioni che più spesso sono gestite in forma associata. Se a tal proposito è possibile notare una notevole diffusione in materia di trasporto scolastico, vigili del fuoco, servizi anagrafici ed e-governement, mentre vi sono maggiori resistenze nella materie della promozione turistica e dell’economia, laddove vi è una maggiore competitività territoriale.

In un quadro in cui i la Legge fondamentale riconosce il diritto all’autogoverno comunale e la possibilità per i Comuni di ricorrere in modo diretto alla Corte costituzionale e la potestà legislativa in materia di enti locali spetta ai singoli Land, la prospettiva della cooperazione è particolarmente sviluppata al fine di evitare il trasferimento della funzione al livello di governo superiore. Rimesse alla scelte volontarie dei singoli Comuni, l’attivazione di forme di collaborazione intercomunale può essere anche a carattere obbligatorio, ma solo in presenza di una base legislativa specifica prevista da ciascun Land. In Germania si è inoltre avuta una consistente fusione dei livelli comunali che ha portato alla riduzione del numero di Comuni dai 24.500 degli anni ’60 agli attuali 8.515.

Prendendo in esame il modello attuato in Baviera, è possibile notare come esistano varie modalità di cooperazione intercomunale che si attuano tanto mediante strumenti privatistici (società spa ed srl soprattutto in materia di gestione dei servizi di trasporto e della fornitura di acqua, gas ed elettricità o associazioni, per quanto concerne l’ambito culturale), quanto con strumenti giuspubblicistici. Soffermando la nostra attenzione su questi ultimi si riscontrano le seguenti forme di associazionismo comunale, tutte istituite mediante atto costitutivo adottato in base alla legge del Land e soggetto al controllo dell’autorità statale:

1)  Comunità di lavoro: si tratta di un contratto di tipo giuspubblicistico nato dal diritto amministrativo, volto a svolgere in forma associata funzioni di consultazione, informazione, programmazione e coordinamento, non ha personalità giuridica le delibere adottate hanno solo effetti al interni. Spesso rappresenta il primo passo verso forme di cooperazione più intense.

2)  Accordo di scopo (è la forma più diffusa 27%): rappresenta un accordo con cui un ente locale può delegare  l’esercizio di una funzione ad un altro ente locale o usufruire dei servizi prodotti da un altro ente  locale, solitamente di dimensioni più grandi che pertanto sarà chiamato ad operare al di fuori del proprio territorio. La creazione di tale ente è legato all’esistenza di una base normativa generale e  di un’autorizzazione specifica. È inoltre possibile che esso produca giuridici nei confronti di terzi.

3)  Consorzio di scopo (è la seconda forma più diffusa 22%): si tratta di un ente più stabile e vincolante preposto all’esercizio delle funzioni che ad esso sono trasferite e che può adottare atti normativi regolamentari, pur non essendo tutelato e garantito a livello costituzionale. È generalmente usato per l’esercizio di una sola funzione o di poche funzioni tra loro connesse e vi possono partecipare anche enti giuridici diversi da quelli territoriali. Tra gli organi che di sui esso dispone troviamo un’assemblea e un presidente.

4)  Azienda municipalizzata comune: mentre prima del 2004 la sua istituzione doveva passare necessariamente attraverso la previa istituzione di un Consorzio di scopo, oggi è possibile per due o più Comuni creare direttamente un’Azienda municipalizzata.

5)  Unione amministrativa di Comuni: è una forma di cooperazione risultante dal riordino territoriale che è assimilabile ad una nuova realtà amministrativa, ma di natura non territoriale, al cui interno esistono i Comuni originari ed è costituita o sciolta con legge del Land.

Delle forme di cooperazione intercomunale menzionate, solamente il Consorzio di scopo può essere istituito in modo obbligatorio per legge. In tutti i casi la legittimazione degli organi consortili è indiretta e i Sindaci fanno parte degli organi con mandato imperativo.

In conclusione è possibile affermare che le forme di cooperazione intercomunale esistenti sono particolarmente efficienti grazie soprattutto all’opera di riordino delle circoscrizioni comunali che la Corte Costituzionale federale non ha ritenuto lesiva del diritto all’autonomia costituzionalmente riconosciuto in quanto esso sarebbe è rivolto alla categoria degli enti comunali e non ai Comuni considerati singolarmente.

 Il Prof. Gerardo Ruiz Rico Ruiz, dell’Università di Jaén, nell’affrontare il modello spagnolo ha mostrato come la competenza in materia di cooperazione intercomunale sia condivisa tra lo Stato, che interviene mediante la legge basica, e le Comunità autonome, che le disciplinano sia nei rispettivi Statuti si mediante strumenti legislativi. Sono dunque possibili forme di associazionismo comunale, aventi una propria personalità giuridica, diverse dai livelli provinciali a patto che i trasferimenti di funzioni in loro favore non vadano a ledere, secondo quanto sancito dalla Corte Costituzionale, il nucleo essenziale dell’autonomia locale che non è nella disponibilità dei singoli enti locali.

Il riferimento all’intercomunalità si è avuto soprattutto negli ultimi anni in cui sono stati emanati i nuovi Statuti di alcune Comunità autonome (es. Andalusia e Catalogna) e nei quali si fa esplicito riferimento a enti quali le Comarcas, aggregazioni di Comuni costituiti dalla legge autonomica su iniziativa volontaria, e le Vagherias, enti assimilabili alle Province ma alle quali non possono sostituirsi in quanto enti costituzionalmente necessarie. Vi sono inoltre le Mancomunidades, preposte all’esercizio di funzioni ben determinate.

Per quanto differisca la nomenclatura, le funzioni esercitate dalle aggregazioni intercomunali non sono molto diverse da un punto di vista sostanziale da quelle previste in Germania.

Nell’ambito del modello spagnolo si tende inoltre a differenziare notevolmente la coordinazione dalla cooperazione: la prima, che rappresenta una forma di collaborazione a livello gerarchico e ha bisogno di copertura legislativa, deve essere sempre e solo sussidiaria rispetto agli strumenti di cooperazione, che avviene tra enti dello stesso livello di governo.

L’esistenza di reti di cooperazione hanno portato alla nascita di associazioni di Comuni e Province a livello statale che svolgono funzioni estremamente importanti e che, soprattutto a livello di Comunità autonoma, possono partecipare alla funzione legislativa. A tal proposito va rilevata la recente istituzione dei Consigli delle autonomie locali che variano molto da comunità a comunità.

Uno sviluppo coerente dell’intermunicipalità deve tuttavia passare attraverso una revisione della legge basica statale, che resta comunque un punto di riferimento che non si può superare a livello di Comunità autonoma, e una coerente volontà politica di svilupparle.

 Il Prof. Neil Mc Garvey, dell’Università di Strathclyde, Glasgow, ha mostrato come nel Regno Unito non vi sia una tradizione di cooperazione intercomunale per una molteplicità differente di ragioni: l’accentramento amministrativo che si accompagna all’assenza di garanzie costituzionali in favore delle autonomie locali; la cultura politica fortemente centralista; la grande competizione che esiste tra territori confinanti; la scarsa indole da parte dei partiti politici di trattare e realizzare accordi con altri partiti; la notevole ampiezza territoriale e demografica dei livelli di governo locali.

Negli ultimi tempi, tuttavia, si stanno facendo strada vari strumenti di cooperazione intercomunale volti in relazione alla cosiddetta Shared Services Agenda, tanto che al giorno d’oggi l’80% delle autorità locali gestisce i servizi in modo condiviso attraverso:

–  Public Sector Consortium;

–  Joint committees (limitatamente alla Scozia);

–  Public private partnership;

–  Regional marketing;

–  Limited Liability partnership (che prevede l’accordo con imprese commerciali);

–  The Community Interest Company;

–  Joint Venture;

–  Partenering Contracts.

In questo quadro va altresì messo in luce come il Governo centrale svolga un ruolo fondamentale per dettare l’agenda delle autorità locali e di come queste abbiano margini di autonomia estremamente ridotti.

 Il Prof. Alain Boyer, dell’Università del Sud Toulon-Var, ha affrontato il tema delle forme di cooperazione intercomunale in Francia, con i suoi circa 37 mila Comuni, rappresenta l’emblema della frammentazione comunale. I Comuni nascono infatti sulla base delle parrocchie dell’ancien régime e non mutano la loro fisionomia nemmeno dopo la rivoluzione, portando ad una sostanziale  incapacità della gran parte di questi numerosi comuni di rispondere efficacemente alla sfide che si ponevano loro a causa del notevole sottodimensionamento. Solo alla fine dell’800 nacquero i primi consorzi di Comuni, quali enti pubblici che rappresentavano la prima e principale forma di cooperazione intercomunale

Il ruolo centrale spetta dunque al legislatore statale che può operare nel rispetto di due regole costituzionali fondamentali: il principio della libera amministrazione, in base al quale ogni collettività deve essere amministrata da un consiglio elettivo e questo deve possedere competenze effettive; e il divieto di stabilire una collettività territoriale sull’altra.

I tre modelli principali che sono stati sviluppati sono:

–  il modello per la gestione del servizio pubblico, che nasce per primo con la legge del 1970;

–  il modello per la realizzazione del coordinamento delle competenze comunali in materia urbanistica, nato con le leggi del 1982 e 1983 che attribuivano ai Comuni le competenze in tale ambito e confermato con la legge di  solidarietà e rinnovamento urbano del 2000;

–  il modello per politiche integrate che ha condotto alla nascita delle Comunità urbane, delle Comunità di Comuni e delle altre forme associative, con propri poteri fiscali e autoritativi e che produrranno la cancellazione di fatto dei Comuni quanto più si trasferiscono ad essi funzioni amministrative.

Gli organi di queste forme di cooperazione sono composti in modo paritario tra tutti i Comuni, a prescindere dalla rispettiva popolazione. Successivamente si decise di comporli mediante suffragio universale indiretto che permetteva di tenere conto della consistenza della popolazione nei rispettivi Comuni, mentre nel 2010 è stata introdotta la previsione dell’elezione e suffragio universale e diretto, contestualmente all’elezione dei consigli municipali. Tale prospettiva condurrebbe inevitabilmente alla scomparsa di fatto dei Comuni originari in favore delle forme di cooperazione intercomunale, passando dagli attuali 37 mila enti a un numero ipotetico di 2.600 Comuni circa, lungo un processo che le esigenze finanziarie e di bilancio potrebbero notevolmente accelerare.

 Il Prof. Roberto Scarciglia, dell’Università degli Studi di Trieste, evidenzia a tal proposito tre aspetti fondamentali di cui è necessario tenere conto:

–  la dimensione costituzionale che emerge dalla sent. n. 397 del 2006 della Corte Costituzionale, in base alla quale ogni forma di cooperazione intermunicipale deve necessariamente svilupparsi nel rispetto della leale collaborazione, senza mortificare l’autonomia comunale che precede la nascita stessa della Repubblica;

–  l’elemento finanziario, a proposito del quale va registrato il contrasto (se non l’irragionevolezza e l’incoerenza) tra le disposizioni del cd. federalismo municipale e i tagli per quasi 14 mld di euro disposti dal decreto legge n. 78 del 2010;

–  il profilo necessariamente organizzativo di qualsiasi prospettiva, pena lo scontrarsi con organizzazioni obsolete e non in grado di fornire servizi efficienti.

Inoltre lo scenario in cui operano gli enti territoriali è ormai segnato dal d.lgs. n. 216 del 2010, in materia di costi e fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province, che, all’art. 5, prevede che questi enti sono tenuti a rispondere a particolari questionari in materia, pena il taglio di tutti i trasferimenti finanziari. Accanto al quadro normativo tracciato dl TUEL, è possibile pertanto riscontrare l’esistenza di cosiddette “super norme” con rilevanza economica cui è legata l’esistenza stessa delle entità locali e comunali e che predispongono un controllo tipicamente cartolare dell’autonomia che ne esce fortemente mortificata. In questo quadro, la costituzione di forme di cooperazione intercomunale rappresenta una prospettiva necessaria per l’effettivo sviluppo della sussidiarietà verticale e garantire in pieno i servizi sociali dei cittadini che possono andare dagli accordi di diritto privato alle forme di cooperazione più penetranti.

A cura di Alessandro Maria Baroni