IL RUOLO DELLE ASSEMBLEE LEGISLATIVE NELLA TRASPOSIZIONE DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA. Scuola superiore Sant'Anna. Pisa, 2 maggio 2011.

19.05.2011

La Prof.ssa Francesca Martines, dell’Università degli studi di Pisa, introduce il seminario nel quale si affronta il tema dell’esecuzione degli atti dell’Unione europea nell’ordinamento nazionale, comunemente conosciuto anche come “fase discendente” di produzione del diritto dell’Unione che, peraltro, ha richiesto l’introduzione di soluzioni nuove in relazione alle specificità che caratterizzano l’ordinamento europeo, quali l’ingente quantità di atti che vengono prodotti e che devono trovare esecuzione nei dei singoli ordinamenti.

All’interno del Trattato di Lisbona è stato previsto, inoltre, un forte rafforzamento del ruolo dei Parlamenti nazionali nell’ambito della “fase ascendente”, ovvero di partecipazione alla definizione degli atti dell’Unione: si pone dunque anzitutto l’esigenza di analizzare se tali innovazioni hanno avuto riflessi sulla fase discendente.

C’è altresì l’esigenza di indagare a quali esigenze debbano fare fronte le norme sull’adattamento del diritto interno e come tali esigenze si riflettano sui rapporti tra i principali attori istituzionali (quali Governo, Parlamento e Regioni). Tra le tante che possono essere individuate, non si può prescindere da due in particolare: la prima attiene all’efficienza e alle tempistiche delle procedure di adattamento, volte in primo luogo a scongiurare l’apertura di procedure di infrazione e l’applicazione di sanzioni; la seconda consiste nell’evitare una caduta reputazionale dell’Italia, elemento che potrebbe influire sulla redistribuzione del portafoglio della Commissione, sull’accettazione delle proposte avanzate e sul livello di severità con il quale viene trattato.

In questo senso, l’intervento del 1989 con la cd. legge La Pergola era volto a ridurre la frammentarietà dell’adattamento al diritto dell’Unione europea, arginando il fenomeno delle deleghe in bianco e superando finalmente il record negativo di ritardi nel recepimento delle direttive. Nonostante un leggero miglioramento della situazione, l’introduzione della legge comunitaria e le modifiche intervenute nel 2005 non hanno completamente risolto le due questioni precedenti: tanto che, ad oggi, si trova all’esame delle Camere una nuova proposta di revisione della legge, tendente in particolare a giungere a uno sdoppiamento dell’attuale legge comunitaria in una legge di delega al Governo per il recepimento delle direttive comunitarie e in una c.d. “legge europea”, volta a dare esecuzione diretta a sentenze e a rispondere a procedure di infrazione attivate.

In questo quadro si pone tuttavia l’esigenza di indagare se l’esito della riforma sarà quello di giungere finalmente a un riequilibrio tra il ruolo del Parlamento e quello del Governo; oppure quello di mantenere una sostanziale prevalenza di quest’ultimo.

Infine, una riflessione approfondita sulla fase discendente non può tuttavia svolgersi ignorando totalmente la fase ascendente: infatti, da un maggior coinvolgimento delle istituzioni nazionali nell’ambito della prima si otterrà necessariamente una maggiore efficacia della seconda.

 Il Dott. Giuseppe Castiglia, Vicesegretario generale del Senato della Repubblica, dichiara di voler fornire il punto di vista di un operatore interno alle istituzioni parlamentari, soffermandosi in particolare su come il Senato si approccia a tale materia e quali ricadute vi sono sull’organizzazione dell’istituzione parlamentare.

La riforma regolamentare del 1971 riconobbe la Giunta per gli affari delle Comunità europee (già istituita nel 1968), composta da 22 membri e chiamata a svolgere un ruolo meramente consultivo e di natura essenzialmente tecnica (come la stessa denominazione di Giunta anziché di Commissione lasciava intendere). Negli anni successivi si è sviluppato un acceso dibattito sulla prospettiva di riconoscere o meno alla stessa la possibilità di votare risoluzioni di indirizzo al Governo circa le scelte da operare in sede comunitaria. Tale proposta fu tuttavia respinta, in particolare per le argomentazioni avanzate dal sen. Gronchi, il quale vedeva in essa il rischio di compromettere eccessivamente la libertà di manovra del Governo.

Negli anni ’90 si assiste alla definitiva trasformazione delle Giunte del Senato e della Camera in Commissioni parlamentari, con il riconoscimento tuttavia della sola competenza dell’esame in sede referente del disegno di legge comunitaria.

La legge comunitaria ha avuto l’indubbio pregio di razionalizzare il percorso di adattamento del diritto interno a quello comunitario, ma è sempre stata caratterizzata dall’enorme limite di essere sostanzialmente utilizzata come un “treno in transito” sul quale caricare i provvedimenti più disparati, con l’esito, nefasto, di incrementarne esponenzialmente la farraginosità, riducendone la coerenza interna. Tale situazione è stata inoltre aggravata dall’impossibilità, per il Presidente di Assemblea, di stralciarne le parti ritenute non coerenti con l’oggetto specifico, così come previsto, prima, con la legge finanziaria e, ora, con la legge di stabilità, che rappresenta l’esempio più lampante di legge a contenuto tipizzato.

Il forte ruolo conquistato dai Parlamenti nell’ambito della fase ascendente è frutto della c.d. “procedura Barroso”, in base alla quale, dal 2006, tutti gli atti di iniziativa della Commissione sono inviati ai Parlamenti nazionali per ottenere un loro pronunciamento e un loro coinvolgimento fattivo anche nella fase di elaborazione del diritto dell’Unione europea. A tal proposito, i risultati numerici sono eloquenti: se, infatti, nel 2009 il Senato italiano era la quarta Camera a livello europeo per pareri inviati, l’anno successivo è risultata essere la seconda, mentre il terzo posto è attualmente occupato dalla Camera dei deputati. Di tutti i pareri inviati, solamente in un caso si è registrato un parere contrario alla proposta presentata dalla Commissione europea; in tutti gli altri casi si è sviluppato un meccanismo virtuoso di replica della Commissione e contro-replica da parte del Senato. Gli interventi che presentano i maggiori profili di criticità riguardano specificamente le proposte di atti che prevedono deleghe ampie e pressoché indeterminate alla Commissione. In un caso, inoltre, il parere del Senato concernente la modifica del regolamento sul fondo di sostegno agricolo è stato recepito in pieno della Commissione competente del Parlamento Europeo.

In seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e delle nuove procedure sul controllo del principio di sussidiarietà, queste hanno trovato nel Regolamento del Senato della Repubblica quella flessibilità sufficiente affinché potessero svilupparsi efficacemente.

Il Vicesegretario Castiglia ha altresì aggiunto che numerosi studi hanno mostrato che l’organo titolare del potere di proposta è, di fatto, titolare anche del potere di decisione: per questi motivi sarebbe quanto mai necessario introdurre la possibilità, per i Parlamenti nazionali, di intervenire nel corso dell’iter di definizione della proposta e non solamente nel corso della fase puramente emendativa.

In questo quadro, il ruolo del Governo rimane quanto mai indispensabile, essendo questo il sostanziale monopolista delle informazioni relative ai rapporti tra l’Italia e l’Unione europea ed essendo chiamato a svolgere un ruolo di mediazione senza il quale il ruolo delle Camere rischia di essere quanto mai sterile. Per tali ragioni l’attività parlamentare sta diventando sempre più un’attività di tipo consultivo, tanto rispetto al Governo quanto rispetto alla stessa Unione europea. È opportuno tuttavia porsi l’interrogativo se tale ruolo sia voluto o subito.

Considerata inoltre l’importanza di processi normativi di tale tipo, è da ritenere indispensabile la necessità di coinvolgere le assemblee nel loro plenum anche nelle procedure consultive sui decreti delegati di attuazione del diritto dell’Unione europea predisposti dal Governo, non limitando il dibattito alle sole Commissioni competenti.

 Il Dott. Antonio Esposito, consigliere dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea della Camera dei deputati, ha rilevato in apertura come l’oggetto dell’attività di trasposizione operata dal Parlamento italiano non sia limitato alle sole direttive, ma si estenda anche a tutti quegli atti dell’Unione europea direttamente applicabili che non sono però direttamente efficaci nell’ordinamento nazionale, motivo per il quale l’apertura di una procedura di infrazione ricade evidentemente anche nella responsabilità istituzionale del Parlamento stesso.

Analizzando i dati, è possibile notare come i flussi di attività normativa dell’Unione europea siano estremamente elevati: nel corso di un anno vengono infatti emanati circa 1.000-1.200 atti giuridicamente vincolanti (tra regolamenti, direttive e decisioni); dei quali 600-700 possono essere considerati veri e propri atti normativi organici; i tre quarti di questi ultimi sono infine caratterizzati da una forte complessità e contengono generalmente misure di dettaglio.

Ad oggi, sono inoltre aperte 148 procedure di infrazione nei confronti dell’Italia, delle quali un terzo sono dovute alla mera in attuazione di direttive comunitarie, mentre i due terzi sono date dalla vera e propria violazione del diritto dell’Unione europea. Tuttavia ben 40 delle 148 procedure di infrazione aperte dipendono dalla semplice inerzia nell’adozione dei relativi regolamenti attuativi da parte delle amministrazioni ministeriali, che si pongono dunque come le principali responsabili di questo risultato così negativo. Nel tentativo di arginare tale fenomeno, mediante l’introduzione dell’art. 15-bis della legge n. 11 del 2005, le Camere hanno introdotto specifiche procedure informative.

Per quanto l’introduzione all’interno dell’ordinamento nazionale dello strumento della legge comunitaria non sia stato totalmente soddisfacente in termini di efficienza nell’adattamento dell’ordinamento interno, tale innovazione ha prodotto un incremento del tasso di recepimento delle direttive dall’80 per cento, registrato nel 1980, al 98,7 per cento, registrato nel 2010.

Più in generale il Dott. Esposito ritiene possibile affermare che il Parlamento abbia una funzione di regìa complessiva della funzione di recepimento del diritto dell’Unione europea, potendo la stessa legge comunitaria essere sempre più chiaramente qualificata come una vera e propria fonte sulla produzione, cui spetta la decisione di attuare direttamente un determinato atto ovvero di prevedere, a tal proposito, una specifica delega al Governo, previo eventualmente parere parlamentare sullo schema del relativo decreto.

L’introduzione della legge comunitaria ha, tra l’altro, avuto il pregio di ridurre le asimmetrie informative tra Parlamento e Governo: quest’ultimo è infatti chiamato, all’interno della relazione illustrativa, a spiegare quali atti dell’Unione europea debbano essere attuati, motivare il mancato recepimento di direttive scadute o in scadenza ed elencare, infine, le direttive recepite direttamente dalle Regioni.

Dal 1989 a oggi, tuttavia, solamente in due occasioni la legge comunitaria è stata approvata nell’anno di riferimento, a causa dell’assenza di una sessione riservata, ma soprattutto per il ritardo nella presentazione del disegno di legge da parte del Governo (che dovrebbe avvenire entro il mese di gennaio). Non rilevano, infatti, a tal proposito i tempi di approvazione della stessa che, in genere, non vanno mai oltre i 10-11 mesi.

Pur non disponendo del potere di stralcio, nel 2010 il Presidente della Camera ha tuttavia espunto dal testo approvato dalla Commissione una norma che ha ritenuto non essere derivante da obblighi posti dall’Unione europea e, al fine di mantenere una maggiore coerenza del testo, la Commissione politiche dell’Unione europea ha teso, più di recente, a respingere con sempre maggiore forza gli emendamenti non direttamente attinenti con l’oggetto del testo.

Quanto invece ai decreti-legge adottati dal Governo per attuare direttive in scadenza e per evitare di incorrere in procedure di infrazione, va registrato il paradosso che essi sono assegnati in sede referente alla Commissione competente per materia e non alla Commissione politiche per l’Unione europea.

Rispetto alle innovazione in discussione già menzionate dal Vicesegretario Castiglia, il Dott. Esposito ritiene, in conclusione, positive le ipotesi di introdurre altre misure volte a produrre una maggiore connessione tra fase ascendente e fase discendente e a creare in capo al Governo l’obbligo di trasmettere una tavola di concordanza tra gli atti proposti dall’Unione e la normativa nazionale vigente; secondo quanto, peraltro, già avviene in paesi quali il Belgio, la Repubblica Ceca e la Germania.

 La Dott.ssa Barbara Sardella, Dirigente del Consiglio regionale delle Marche, apre il proprio intervento asserendo che le Regioni potrebbero non occuparsi del tema del recepimento del diritto dell’Unione europea, in quanto comunque, in caso di inattività, interverrebbe lo Stato in via sussidiaria. Dopo l’entrata in vigore della legge n. 11 del 2005, la Regione Marche ha tuttavia adottato una legge regionale in materia che introduce lo strumento della legge comunitaria regionale, su iniziativa del Consiglio regionale e attraverso un iter che ha visto la condivisione della Giunta e la successiva approvazione all’unanimità in Consiglio regionale.

Fino ad oggi, nelle Marche, sono state approvate due leggi comunitarie regionali: la prima, del 2008, era volta ad attuare parti di direttive non recepite a livello nazionale relative al codice degli appalti; la seconda, del 2011, era invece volta a sopperire al mancato recepimento di parti della direttiva servizi, i cui principi stentano ancora ad essere metabolizzati in pieno all’interno degli ordinamenti nazionali.

Grazie al rigore mostrato dal Presidente della Commissione consiliare competente e dal Presidente del Consiglio regionale, si è riusciti fino ad ora a sventare l’inserimento di alcune c.d. “norme intruse”.

In conclusione, risulta essere quanto mai necessario che gli organi decisionali competenti conducano una riflessione approfondita sul ruolo delle assemblee legislative nazionali e regionali, anche in riferimento al controllo sul rispetto del principio di sussidiarietà. Quest’ultimo, a livello regionale, non può essere demandato alle Giunte. Al tempo stesso, sarebbe altresì necessario operare una sempre più stretta connessione tra la fase ascendente e quella discendente.

 Infine, è intervenuto il Dott. Robert Bray, Amministratore della Commissione Affari giuridici del Parlamento Europeo, il quale si è detto anzitutto stupito dell’assenza di qualunque critica da parte degli altri relatori nei confronti del diritto dell’Unione europea. Se, infatti, una discussione simile si fosse tenuta in un altro Stato membro non sarebbero mancate le accuse verso i contenuti delle norme dell’Unione europea e verso le procedure con le quali sono approntate, mentre le uniche critiche avanzate dal dibattito in questa sede sono state rivolte alle problematiche inerenti l’adattamento da parte dell’Italia alla normativa dell’UE.

Lo stesso Parlamento europeo è consapevole della necessità di dover affrontare in modo serio e sistematico il tema della c.d. better legislation: la presenza di una molteplicità di lingue e di interessi, di attori politici e sociali, pone all’istituzione parlamentare la necessità di delineare sedi e procedure che consentano di monitorare la qualità della produzione normativa: in questo senso va infatti letta la proposta di istituire una Commissione preposta a svolgere attività di valutazione di impatto della regolazione.

In questo quadro, infine, va notato che le rappresentanze permanenti dei singoli Stati membri, se in grado di operare in modo efficiente (e in questo il Regno Unito rappresenta il caso più emblematico), operano di fatto svolgendo il ruolo di consulenti del Parlamento europeo, nei confronti del quale, talvolta, arrivano a svolgere attività di vera e propria lobbying.

a cura di Alessandro Maria Baroni