(Nota a Tar Catania, sent. n. 2688 del 17/11/2011)
Abstract: Una disamina ragionata della normativa vigente in ordine ai rapporti tra società d’ambito e Comuni soci può certamente essere d’aiuto ai tanti amministratori che, loro malgrado, sono vittime di un sistema che ad oggi ha prodotto in Sicilia il drammatico debito di oltre un miliardo di euro.
Sommario: 1. L’intervento sussidiario dei Comuni soci della società d’ambito – 2. La coerenza del tributo con lo strumento della pianificazione d’ambito – 3. Le esigenze motivazionali dell’imposizione tributaria – 4. Considerazioni finali.
La recente decisione n. 2688 del 17/11/2011, stringata dal rito delle sentenza breve, attraverso la quale il Tar di Catania afferma che, in assenza di una regolare approvazione del “piano d’ambito”, la società d’ambito, alla quale il legislatore ha affidato la competenza in ordine alla gestione integrata del servizio dei rifiuti in Sicilia, non può imporre ai Comuni soci le spese afferenti il progetto tecnico economico adottato ai sensi dell’art. 10 della l.r. n. 9/2010, non può passare inosservata, attesi gli effetti domino che potrebbe sortire sul sistema già sottoposto alle cure emergenziali[1].
Il Tar di Catania, infatti, respingendo il ricorso presentato dalla società d’ambito “EnnaEuno” avverso le delibere dei Comuni di Gagliano Castelferrato e Nissoria attraverso le quali i rispetti Consigli comunali hanno approvato un progetto tecnico ed economico per il servizio di raccolta dei rifiuti e conferimento in discarica difforme rispetto a quello proposto dalla medesima società d’ambito, ha indirettamente legittimato l’operato di detti Comuni nell’approvazione delle rispettive articolazioni tariffarie sottese all’imposizione della TARSU/TIA. Ma poiché, com’è noto in giurisprudenza, il processo amministrativo si fonda sul principio della domanda, appare azzardato dedurre, sic et simpliciter, che l’operato dei citati Comuni resistenti sia legittimo a 360°.
A nostro avviso, infatti, la questione, controversa e meritevole di un vasto approfondimento giuridico, concerne non solo i rapporti tra i Comuni siciliani e le rispettive società d’ambito ma, di riflesso, anche quelli tra Comuni e contribuenti. Infatti il costo necessario per assicurare alle comunità amministrate il servizio integrato di raccolta e gestione dei rifiuti è remunerato dai contribuenti attraverso l’imposizione tributaria della TARSU/TIA. Appare quindi evidente che l’ammontare dell’articolazione tariffaria, la cui competenza rimane in capo ai Comuni fin quando non sarà operativo il nuovo meccanismo previsto dall’art. 238 del d.lgs. n.152/2006[2], risente inevitabilmente del costo complessivo del servizio, secondo un’impostazione che è quella della unicità della gestione integrata per ambito territoriale ottimale.
Secondo questa impostazione, infatti, la partecipazione obbligatoria degli enti locali impedisce al singolo Comune di non aderire al modello associativo. Per i consorzi obbligatori la giurisprudenza amministrativa, chiamata a sindacare il comportamento di alcuni Comuni ostili ad aderire agli ambiti territoriali ottimali per la gestione integrata dei servizi ed ambientali, si è espressa in questi termini: “Il principio di leale collaborazione tra gli enti è stato enucleato dalla Corte costituzionale con riferimento allo svolgimento dei diversi rapporti di rango costituzionale tra Stato e regioni, pur tuttavia la relativa applicazione non può condurre a situazioni di stallo decisionale che possano compromettere gli interessi pubblici oggetto delle decisioni da assumere, ed il rispetto di detto principio non può legittimare comportamenti che tendono a paralizzare la costituzione degli A.t.o.”[3]. Ancora, “Dal momento della costituzione dell’Ente di ambito tutte le funzioni in materia di servizi idrici dei comuni e delle province consorziati sono esercitati dall’ente di ambito medesimo, restando sottratta agli enti territoriali partecipanti al consorzio obbligatorio l’esercizio di un potere diretto sugli impianti e la possibilità di incidere, con propria autonoma delibera, sulla gestione del servizio”[4].
Orbene, se la partecipazione ad un modello di tipo associativo ed integrato non sembra essere in discussione, ciò che desta preoccupazione, anche alla luce delle sentenza in commento, è lo spazio di manovra che residua in capo ai Comuni nel determinare il tributo da esigere ai contribuenti a titolo di TARSU/TIA. A questo interrogativo sembra rispondere indirettamente il Tar di Catania, ma le argomentazioni contenute nella sentenza in commento, non sembrano esaustive.
Invero, se la mancata adozione del piano d’ambito prescritto dall’art. 10 della l.r. n.9/2010 preclude alla società d’ambito di pretendere dai propri Comuni soci l’approvazione di un’articolazione tariffaria TARSU/TIA coerente con il sistema di gestione integrata dei rifiuti, i medesimi Comuni non possono ritenersi svincolati dalle esigenze sussidiarie richieste dalle normative vigenti in materia al fine di contribuire, quota parte, ad assicurare la copertura integrale del servizio, “…in quanto ciò porrebbe l’ente locale al di fuori del sistema che vuole l’instaurazione del servizio idrico integrato”[5]. Né, tanto meno, è ipotizzabile una gestione autonoma del servizio di raccolta dei rifiuti ad opera del Comune socio della società d’ambito, ponendosi in manifesto contrasto col principio della unicità della gestione integrata dei rifiuti previsto dall’art. 200, comma primo, lettera a), del d.lgs. n. 152 del 2006, secondo cui la gestione dei rifiuti urbani è organizzata, fra l’altro, sulla base del criterio del superamento della frammentazione delle gestioni attraverso un servizio di gestione integrata dei rifiuti[6]. Peraltro, tale principio è stato recepito anche dal legislatore siciliano con la l.r. n. 9/2010.
In tale contesto, almeno tre sono gli argomenti che, opportunamente sviluppati, possono indurci a prendere le distanze dalla sentenza di cui trattasi: a) l’intervento sussidiario dei Comuni soci della società d’ambito; b) la coerenza dell’articolazione tariffaria con lo strumento della pianificazione d’ambito; c) l’esigenza istruttoria e motivazionale sottesa all’articolazione tariffaria della TARSU/TIA.
1. L’intervento sussidiario dei Comuni soci della società d’ambito
In disparte ogni ulteriore considerazione in ordine all’effettiva operatività del citato articolo 10 della l.r. n. 9/2010, attesa la mancata costituzione delle nuove società di regolamentazione dei rifiuti in luogo delle liquidande società d’ambito e la mancata adozione, a monte, del piano regionale di gestione dei rifiuti prescritto dal precedente art. 9 della l.r. n. 9/2010, ciò che ci preme approfondire è se, anche in assenza di una specifica programmazione finanziaria ed economica adottata dalla società d’ambito, il Comune socio possa decidere autonomamente l’ammontare di un segmento comunale del più complessivo costo del servizio integrato dei rifiuti e, di riflesso, un’articolazione tariffaria della TARSU/TIA sganciata dall’esigenza di verificare parametri di calcolo certi e rapportati al costo del servizio.
A nostro avviso, la mancata adozione di uno strumento, pur importante, qual’è il “piano d’ambito” non può liberare il Comune dall’obbligo di intervenire sussidiariamente nei confronti della società d’ambito a cui aderiscono. L’intervento sussidiario del Comune, infatti, risulta espressamente previsto dal legislatore regionale e precisamente dal comma 17 dell’art. 21 della l. r. 19/2005 che ha ribadito l’obbligo dei Comuni soci della società d’ambito di prevedere nel proprio bilancio un capitolo per intervenire “sussidiariamente” rispetto alla propria società d’ambito, dotandolo di “adeguata” capacità finanziaria, da stabilire secondo criteri di buon senso ed in considerazione della obbligatorietà dell’assicurazione degli equilibri economici e finanziari della società d’ambito stessa.
L’intervento sussidiario è stato altresì confermato all’art. 4, comma 2 lett. c), della l.r. n. 9/2010 secondo cui i Comuni provvedono al pagamento del servizio di gestione integrata dei rifiuti nel territorio comunale, assicurando l’integrale copertura dei relativi costi, congruamente definendo a tal fine, sino all’emanazione del regolamento ministeriale di cui all’articolo 238 del d.lgs. n. 152/2006 e s.m.i., la TIA di cui all’art. 49 del d.lgs. 22/97 o la TARSU, ovvero prevedendo nei propri bilanci le risorse necessarie e vincolandole a dette finalità. Inoltre, il successivo art. 15, comma 4, prescrive che “I Comuni posso adeguare la TIA o la TARSU allo standard fermo restando che, nel caso in cui si determini uno scostamento rispetto a quanto necessario a garantire la corretta gestione del servizio, sono comunque tenuti a individuare nel proprio bilancio le risorse finanziarie ulteriori rispetto a quelle provenienti dalla tariffa o dalla tassa, vincolandole alla copertura dei costi derivanti dal servizio di gestione integrata dei rifiuti”.
Orbene, anche a volere aderire alla tesi della mancanza di operatività di buona parte delle citate disposizione della l.r. n. 9/2010, ragionamento che, a fortiori, travolgerebbe le argomentazioni a supporto della sentenza in commento del Tar di Catania, appare utile evidenziare che il citato principio dell’intervento sussidiario dei Comuni contenuto nelle disposizioni illustrate non ha valore innovativo, ma confermativo di un principio immanente al sistema, e quindi operativo, anche in mancanza di una specifica disposizione normativa esplicativa.
Infatti, secondo la giurisprudenza della Corte dei Conti[7], i costi che il socio deve coprire non sono soltanto quelli risultanti dal contratto di servizio, ma anche quelli generati dalla gestione (ad esempio perdita di esercizio) che devono essere coperti, in quota parte, da tutti i Comuni soci, fermo restando l’obbligo di avviare l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori della società d’ambito. Tutto ciò è conseguenza del fatto che al Comune compete l’onere di svolgere al meglio le proprie funzioni istituzionali – agendo con tutte le opportune cautele del caso – non solo nella gestione diretta della res pubblica, ma anche nell’esercizio dei poteri di indirizzo e di controllo delle società partecipate.
A conferma di ciò, resta insuperata, per eloquenza e chiarezza, una sentenza della Corte dei Conti[8] con la quale il Sindaco del Comune di Tivoli, socio unico di “Acque Albule SpA”, viene condannato per mancato esercizio di azione sociale di responsabilità nei confronti di amministratori della società, resisi responsabili di comportamenti illegittimi ed illeciti, nonché della violazione delle regole di gestione (efficienza, economicità ed efficacia) cui deve uniformarsi l’azione di qualsiasi amministrazione pubblica. Del tutto identiche sono le conclusioni cui perviene la medesima Corte dei Conti[9], ad avviso della quale “l’ente locale è responsabile delle irregolarità contabili delle proprie partecipate, sulle quali è tenuto a svolgere un attento e costante controllo, per impedire l’utilizzo di risorse in modo non conforme ai criteri di sana e gestione che possono causare squilibri sul bilancio dell’ente”. In altre parole, ciò significa che in presenza di segnali gravi e certi – come ne caso di numerose società d’ambito siciliane – che indicano pressanti difficoltà economico-finanziarie, pregiudizievoli al regolare funzionamento di una società partecipata, il Dirigente del settore comunale competente in uno al Sindaco, hanno il dovere di vigilare sull’andamento della relativa gestione, nonché l’onere di intraprendere tutte le iniziative in loro potere, utili per agevolare al meglio il ripristino della normale e corretta gestione societaria, con la messa in atto degli idonei rimedi correttivi.
2. La coerenza del tributo con lo strumento della pianificazione d’ambito
La correttezza del procedimento di formazione della pretesa erariale esige il rispetto della sequenza ordinata degli atti, perché sia garantito “un efficace esercizio del diritto di difesa”[10], atteso che “la carenza di motivazione e di istruttoria che non consente di comprendere l’iter logico seguito per la determinazione delle tariffe costituisce motivo di illegittimità”[11].
Orbene, allorquando l’ente impositore coincideva con l’ente gestore del servizio pubblico per la raccolta dei rifiuti in ambito comunale, risultava decisamente più semplice assicurare la coerenza tra l’articolazione tariffaria della TARSU e i dati consuntivi e previsionali relativi ai costi del servizio. Gli organi elettivi del medesimo ente locale (Giunta municipale e Consiglio comunale) dovevano solamente assicurare un’equa distribuzione delle risorse finanziarie tra quelle proprie e quelle derivanti dall’imposizione tributaria al fine di garantire la copertura integrale del costo del servizio.
In seguito alla riforma del sistema di gestione dei rifiuti introdotta nell’ordinamento con il decreto Ronchi, l’attribuzione della titolarità delle risorse per la gestione dei rifiuti è avvenuta in applicazione di quanto stabilito dal Commissario delegato per l’Emergenza rifiuti nella Regione Sicilia che, in merito, ha previsto come obbligatoria la gestione dei rifiuti in ambito territoriale ottimale (A.T.O.) a mente dell’art. 233 del d.lgs. n. 22/97, secondo le modalità ivi pure stabilite[12].
Attraverso tale modello di gestione il legislatore statale ha, in altri termini, differenziato l’aspetto della gestione del servizio (affidato alle società d’ambito) dalle altre competenze relative alla determinazione delle tariffe, che permangono in capo all’ente Comune. In tale nuovo contesto procedimentale l’anello di congiunzione è rappresentato dal “piano economico-finanziario”. L’art. 49, comma 8, del d.lgs. n. 22/97, prevede infatti che “la tariffa è determinata dagli enti locali, anche in relazione al piano finanziario degli interventi relativi al servizio”. Negli stessi termini depone altresì il comma 4 dell’art. 3 del successivo D.P.R. n. 158/99 a norma del quale è previsto letteralmente che “Sulla basa del piano finanziario l’ente locale determina la tariffa, fissa la percentuale di crescita annua della tariffa ed i tempi di raggiungimento del pieno grado di copertura dei costi nell’arco della fase transitoria; nel rispetto dei criteri di cui all’articolo 12, determina l’articolazione tariffaria”.
Peraltro, al punto 5 dell’art. 1 del Regolamento-tipo (per la determinazione della tariffa d’ambito provvisoria per la gestione dei rifiuti urbani e assimilati) introdotto nell’ordinamento regionale attraverso l’Ordinanza commissariale del 08/08/2003, viene espressamente previsto che “Ai fini della determinazione della tariffa, ai sensi dell’art. 8 del D.P.R. n. 158/99, la società d’ambito, gestore del ciclo dei rifiuti urbani di cui all’art. 23 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 e successive modificazioni e integrazioni, approva il piano finanziario degli interventi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani”. Dello stesso avviso è la giurisprudenza secondo la quale “invero l’art. 49 co.8 d.lgs. 22/97 impone ai Comuni – ai fini della determinazione della tariffa – di tenere conto del piano finanziario redatto dalla società d’ambito, senza che ciò valga, tuttavia, a stravolgere l’ambito delle rispettive competenze”[13].
Successivamente, il legislatore regionale, all’art. 10 della l.r. n. 9/2010, ha sostanzialmente recepito la su citata impostazione, prescrivendo alle, non ancora costituite, società di regolamentazione dei rifiuti (S.R.R.), l’adozione del “piano d’ambito” e del relativo “piano economico-finanziario”. Il comma 6 di detto articolo dispone inoltre che: “le previsioni contenute nel piano d’ambito sono vincolanti per gli enti soci, nonché per i soggetti che ottengano l’affidamento dei servizi di gestione integrata dei rifiuti”.
E’ su quest’ultima disposizione della normativa regionale che il Tar di Catania fonda la propria decisione, ritenendo che la mancata adozione del “piano d’ambito” da parte della società d’ambito, “che costituisce il punto essenziale di riferimento per il controllo e la verifica della relativa correttezza gestionale……impedisce alla società ricorrente di imporre al Comune le spese afferenti il progetto tecnico economico adottato…”.
Orbene, ammesso che, come già detto, sia operativa la disposizione del citato art. 10 della l.r. n. 9/2010, anche in assenza del “piano d’ambito”, il Comune non sembra abilitato ad adottare un’articolazione tariffaria che non tenga conto del piano economico e finanziario indicato dalla società d’ambito, sia per rispetto formale delle su citate disposizioni di legge sia per fatti riconducibili ad esigenze istruttorie sottese alle determinazioni di siffatta tipologia di atti amministrativi. Infatti, anche a prescindere dall’individuazione dell’organo competente, l’adozione di un’adeguata programmazione economica e finanziaria del servizio rappresenta il presupposto tecnico indispensabile per una corretta allocazione previsionale delle risorse finanziarie da esigere attraverso lo strumento dell’imposizione tributaria, pena l’inevitabile scivolamento della scelta politico-amministrativa, curata dal Consiglio comunale, verso l’arbitrarietà più assoluta.
3. Le esigenze motivazionali dell’imposizione tributaria
Se il mancato rispetto della richiesta “coerenza” tra pianificazione d’ambito ed articolazione tariffaria evidenzia un fisiologico deficit istruttorio, tale vizio di legittimità dell’articolazione tariffaria della TARSU/TIA contamina inevitabilmente l’atto amministrativo anche sul piano più propriamente motivazionale.
La TARSU è un tributo erariale, istituito, nell’ambito della competenza legislativa esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., dalla legge dello Stato (art. 58 del d.lgs. n. 507/93) e da questa disciplinato[14], salvo quanto espressamente rimesso dalla stessa legge statale all’autonomia dei Comuni[15]. La norma fondamentale dalla quale trae origine la TARSU è quindi rappresentata dal citato d.lgs. n. 507 del 15/11/1993 il quale, in attuazione del comma 4 dell’art. 4 della legge di delegazione 23/10/1992 n. 421, ha stabilito, all’art. 58, che, in relazione all’istituzione e all’attivazione del servizio relativo allo <<smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni, svolto in regime di privativa>> nelle zone del territorio comunale, i Comuni <<debbono istituire una tassa annuale>> da applicarsi <<in base a tariffa>>, secondo appositi regolamenti comunali, a copertura (dal 50% ovvero, per gli enti locali dissestati, dal 75%) del costo del servizio stesso, nel rispetto delle prescrizioni e dei criteri specificati negli artt. da 59 a 81 del medesimo decreto legislativo.
Tale norma conferisce ai comuni il potere-dovere di articolare un piano tariffario finalizzato ad una distribuzione del peso fiscale tra i cittadini amministrati sulla base di un calcolo che tiene conto delle diverse categorie di contribuenti nel rispetto, peraltro, del principio comunitario del “chi inquina paga”[16].
L’art. 69, comma 2, del d.lgs. n. 507/93 prevede che la deliberazione con cui si dispone l’aumento tariffario “deve indicare le ragioni dei rapporti stabiliti tra le tariffe, i dati consuntivi e previsionali relativi ai costi del servizio discriminati in base alla loro classificazione economica, nonché i dati e le circostanze che hanno determinato l’aumento per la copertura minima obbligatoria del costo”.
La motivazione ha lo scopo di consentire al cittadino la ricostruzione dell’iter logico-giuridico attraverso cui l’amministrazione si è determinata ad adottare un determinato atto o provvedimento, al fine di verificare il corretto esercizio del potere alla stessa conferito dalla legge e di far valere eventualmente nelle opportune sedi, giustiziali o giurisdizionali, le proprie ragioni. Ciò, anche in considerazione che la delibera comunale di variazione delle tariffe è da annoverare tra gli atti amministrativi generali a contenuto non normativo e da tale qualificazione discende, per il suo carattere di specialità e maggiore garanzia procedimentale, che, in applicazione dell’art. 69, comma 2, del d.lgs. n. 507/93, in forza l’ente impositore ha l’obbligo di motivare analiticamente le scelte espresse nelle relative deliberazioni[17]. Dello stesso avviso è la giurisprudenza secondo cui “pur avendo il provvedimento natura di atto generale, si deve ritenere che nei confronti dello stesso non sia applicabile la disciplina prevista dall’art. 13 l. n. 241/1990, bensì, per il suo carattere di specialità e maggiore garanzia procedimentale, la disciplina prevista dall’art. 69, comma 2, D.lgs. n. 507/93, secondo cui l’Amministrazione, quando (ri)determina le tariffe, deve dar conto delle ragioni dei rapporti stabiliti tra le tariffe, nonché dei dati e delle circostanze che hanno determinato l’aumento per la copertura minima obbligatoria del costo; tale disposizione comporta l’obbligo per l’Amministrazione di motivare analiticamente le scelte espresse nella relativa deliberazione”[18].
L’omissione ovvero il difetto di motivazione, determina un’evidente violazione degli oneri esplicativi posti a carico degli enti locali dalla citata normativa speciale, ma anche dal più generale principio contenuto nello Statuto del contribuente che disciplina l’esercizio della potestà impositiva agli stessi devoluta. In particolare, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 212/2000, gli organi e gli uffici degli enti territoriali devono indicare gli elementi di fatto e le ragioni giuridiche che determinano l’emissione di atti e provvedimenti diretti al contribuente espressivi di un pretesa fiscale. Peraltro, anche nell’orientamento della Corte di Cassazione la disciplina recata dall’art. 7, legge n. 212/200 si inquadra a pieno titolo nel paradigma dei principi generali ed immanenti del diritto e dell’azione amministrativa in materia tributaria, in virtù della relativa funzione di diretta attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 della Cost.. Giova a tal fine evidenziare “Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, la determinazione dell’ammontare delle tariffe per servizi resi a particolari categorie di utenti presuppone una chiara ed esauriente motivazione dell’onere sostenuto dal soggetto pubblico, che specifichi la misura dei costi trasferiti agli utenti, e ciò da una parte per verificare se effettivamente le somme pretese corrispondono al rimborso delle spese sostenute e, dall’altra, per evitare che esse si traducano in un sostanziale tributo privo dell’indispensabile supporto legislativo; laddove, nella specie, l’aver considerato motivato <<per relationem>> l’impugnato provvedimento con riferimento al Piano d’impresa presentato dalla Società ed approvato con la delibera giuntale, si risolve, in definitiva, in una petizione di principio”[19].
4. Considerazioni finali
I principi della “sussidiarietà” e della “coerenza”, così come argomentati, sono quindi alla base del ragionamento secondo cui il singolo Comune può stabilire autonomamente solo l’articolazione tariffaria della TARSU/TIA ma non anche il relativo costo del servizio, trattandosi di una specifica competenza demandata alla società d’ambito di cui il Comune socio fa parte per obbligo di legge. Infatti come già evidenziato, sia la TARSU che la TIA sono approvati dall’ente locale sulla base del “piano economico-finanziario” adottato dalla società d’ambito.
Ne consegue che, laddove la normativa vigente conferisce ai Consigli comunali il potere di determinare l’importo della TARSU/TIA, certamente attribuisce nel contempo anche il potere di non approvarle, ma s’intende che la disapprovazione può ammettersi solo in presenza di vizi di legittimità del “piano d’ambito” o del “piano economico-finanziario” che portano comunque al riesame dell’atto e non può in alcun caso riferirsi al merito delle decisioni inerenti la gestione del servizio integrato dei rifiuti, essendo questo riservato per legge alla società d’ambito (domani S.R.R.) e agli organi della medesima.
Ove, infatti, si consentisse la disapprovazione per ragioni di merito, si attribuirebbe ad ogni organo consiliare il potere di veto sulle determinazioni assunte dall’assemblea dei soci dell’ATO secondo il principio maggioritario, così dandosi ingresso ad una sorta di parziale cogestione del sistema integrato dei rifiuti che – dato il numero dei Comuni costituenti l’ambito territoriale e la mutevolezza della maggioranze politiche che li governano – renderebbe di fatto impossibile la gestione unitaria e in ambito sovra-comunale della gestione dei rifiuti così vanificando gli obiettivi della legge.
Questo non comporta però che i Comuni soci, e di riflesso i cittadini contribuenti, debbano accettare anche l’imposizione di un costo del servizio ingiusto, anche perché le tariffe della TARSU/TIA, devono essere calibrate, secondo quanto previsto dalla citata normativa di riferimento, sugli effettivi costi del servizio reso e non rapportate, di fatto, (come del resto traspare dai bilanci di numerose società d’ambito siciliane) all’esigenza di sopperire agli oneri economici correlati alla marcata e condizionante utilizzazione di personale in esubero; modello di governance che non appare conforme alla volontà del legislatore di far gravare sull’utenza solamente gli oneri effettivi del servizio (determinati sulla base di reali e dimostrabili oneri d’impresa, in funzione del servizio concretamente assicurato) e non anche oneri diversi e, latu sensu, assistenziali, non coerenti con gli ordinari canoni di un equilibrato esercizio d’impresa (e che dovrebbero trovare, quindi, altre fonti di copertura)[20].
E però, quando ciò si verifica, le ragioni del Comune dissenziente vanno fatte valere all’interno dell’organo assembleare della società d’ambito o, all’esterno, solo presso il Giudice ordinario per l’eventuale lesione di diritti sottesi alla posizione di socio. Non è infatti ipotizzabile un contenzioso innanzi al Tribunale Amministrativo, trattandosi di conflitto interorganico insindacabile dal giudice amministrativo. In un simile contesto, i conflitti che sorgono tra ogni società d’ambito siciliana ed i Comuni che ne fanno parte nella qualità di soci, non possono che trovare la loro composizione attraverso la mediazione politica esplicabile all’interno degli organi dell’organizzazione sovra-comunale; fermo restando che alla fine è la maggioranza che decide, e che i provvedimenti dell’organizzazione sovra-comunale – se adottati nel rispetto del procedimento di formazione della volontà degli organi collegiali, ed indenni da vizi di legittimità – risultano vincolanti anche per la minoranza[21]. Infatti, il componente di un organismo collegiale, qual’è l’assemblea della società d’ambito, è in un rapporto di immedesimazione con l’organo di appartenenza che, nonostante la pluralità dei suoi componenti, costituisce un centro unitario di imputazione degli atti adottati.
Le volontà dei singoli Sindaci soci assumono rilevanza solo nell’ambito dell’iter di formazione della decisione collegiale, ma non sono idonee a differenziare la posizione dei dissenzienti (come pure degli astenuti o degli assenti) una volta che la manifestazione di volontà si sia espressa in forma unitaria secondo il voto della maggioranza. Tant’è che il contrasto tra minoranza e maggioranza non ha natura intersoggettiva e non può perciò trovare la sua soluzione innanzi al giudice amministrativo[22].
In conclusione, il Comune componente della società d’ambito che non sia assente alle sedute decisionali dell’assemblea d’ambito, deve manifestare il proprio dissenso alla delibera di approvazione del “piano economico-finanziario” facendolo verbalizzare, pena la decadenza dalla stessa possibilità di eccepirne i vizi di legittimità presso il competente Giudice ordinario. Infatti, un diverso comportamento, quale la partecipazione attiva alla seduta e alla votazione favorevole all’approvazione della delibera assembleare, comporta la imputabilità del deliberato anche al componente presente non dissenziente, ovvero acquiescenza al provvedimento.
[1] Il Presidente della Regione Siciliana, nella qualità di Commissario delegato ex O.P.C.M. 09/07/2010 n. 3887, ha recentemente emanato l’Ordinanza n. 151 del 10/11/2011 disponendo di provvedere attraverso la nomina di soggetti attuatori all’affidamento dei servizi di gestione integrata dei rifiuti per singoli ambiti territoriali, così sostituendosi agli attuali organi gestionale delle società d’ambito.
[2] Sulla competenza del Comune in ordine all’approvazione dell’articolazione tariffaria si vedano: CGA sent. n. 48 del 09/02/2009, Cassazione, Sez. Tributaria, sent. n. 8313 del 02/03/2010 e, più recentemente, Tar di Catania, sent. n. 1669 del 05/07/2011.
[3] Tar Catania, sez. I°, sent. n. 1974/2003.
[4] Tar Campania, Napoli, sez. I, 28/10/2008 n. 18797.
[5] Il principio affermato dal Cons. di Stato con sent. n. 4901 del 01/09/2011 si riferisce al sistema integrato del servizio idrico la cui logica associativa per ambito territoriale ottimale risulta analoga al sistema integrato per la gestione dei rifiuti.
[6] Tale principio è stato confermato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 373/2010.
[7] Corte dei Conti, sez. controllo Lazio, n. 46/2008.
[8] Corte dei Conti, sez. controllo Lazio, del 10 settembre 1999.
[9] Corte dei Conti sez. controllo Lazio, n. 67/2009.
[10] Corte Cass. sent. n. 16412 del 25/07/2007.
[11] Tar Lombardia, Milano, sez. I°, 10/06/1998, n. 1430; Cons. Stato, sent. 03/08/2004, n. 5438.
[12] Ordinanza n. 488 dell’11/06/2002 e n. 1069 del 28/11/2002.
[13] Tar Palermo, sez. I°, sent. n. 2290/2007.
[14] Si vedano, ex plurimis, a proposito dei tributi erariali in generale, le sentenze della Corte Cost. n. 168 del 2008 e n. 75 del 2006.
[15] Secondo quando stabilito dalla Corte Cost. con sent. n. 442 del 2008, “La TARSU non è istituita dalla Regione e, quindi, non è un tributo regionale, ai sensi dello statuto e delle norme di attuazione statutaria (art. 36 dello statuto speciale ed art. 2 del d.lgs. n. 1074 del 1965)”.
[16] Corte di Giustizia CE, sent. 16/07/2009.
[17] Tar Sardegna, sez. II, 11/03/2008 n. 411; Tar Palermo, sez. I, sentt. 01/10/2009 n. 1550 e 15/12/2009 n. 2017.
[18] Tar Puglia, Lecce, sez. I°, sent. 966/2011.
[19] Cons. Stato, sez. V°, sent. n. 7235/2003.
[20] Cons. Stato sez. V°, sent. n. 6317/2003.
[21] Tar Latina, 17/02/ 2009, n. 124.
[22] TAR Campania, sent. n. 17231/2010. In senso contrario si veda Cons. di Stato, sez. V°, sent. n. 4237/2010.