Deve escludersi l’applicabilità dei divieti previsti dall’articolo 13 del d.l. 223/2006 – cd. Decreto Bersani – convertito, con modificazioni, in legge 248/2006, ad una società mista indirettamente partecipata da enti e soggetti pubblici.
Il divieto di cui all’art. 13, comma 1 del d.l. n. 223 del 2006 è rivolto alle società «a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali»: il richiamo del legislatore al capitale sociale ed alla figura della costituzione e della partecipazione evoca la necessità che l’ente locale sia socio, come tale titolare di una partecipazione al capitale sociale.
Ad avviso del collegio, infatti, non è condivisibile l’orientamento – che pure ha trovato un qualche riscontro giurisprudenziale (Tar Sicilia, Palermo, I, 29 aprile 2009, n. 785 e Tar Puglia, Lecce, I, 06 maggio 2009, n. 908) – secondo cui la disposizione di cui all’articolo 13 debba ritenersi estesa alle forme di partecipazione indiretta o mediata, e, indi, anche alle società c.d. di terzo grado, ipotesi qui ricorrente.
Sul punto, infatti, i giudici rilevano come la «recente giurisprudenza del giudice di appello [abbia] chiarito che il carattere eccezionale della disposizione in argomento richiede una stretta interpretazione, che ne fa escludere l’applicazione oltre i casi in essa previsti (C. Stato, V, 7 luglio 2009, n. 4346)».
Tale interpretazione restrittiva dell’ambito di applicazione dell’articolo 13 risulta, inoltre, coerente con «l’interpretazione sistematica e teleologica della norma di riferimento» in quanto, da un lato, deve ritenersi «…significativa la circostanza che l’art. 13, comma 1, diversamente da altre fattispecie normative…non ha fatto riferimento alle figure del controllo e del collegamento societario ex art. 2359 c.c., locuzione idonea a ricomprendere nello specchio applicativo anche le società di terza generazione», dall’altro, non può non essere osservato che l’argomentazione più significativa contraria alla interpretazione estensiva «si rinviene proprio nel comma 3 dello stesso articolo 13, che evidenzia che l’effettività del divieto di cui al comma 1 è efficacemente assicurata, alla fine del periodo transitorio previsto (e indipendentemente dall’apprezzamento della durata temporale di questo), anche mediante lo “scorporo” delle attività non consentite, ovvero mediante la costituzione di una “separata società”, cui riservare le attività rivolte al mercato».
In tale linea di ragionamento, infatti, la giurisprudenza amministrativa ha evidenziato come «…per il legislatore la separatezza delle società operanti sul mercato con soggetti terzi (e dei rispettivi bilanci) rispetto a quelle direttamente partecipate dagli enti locali (e dirette fornitrici di beni e servizi strumentali agli stessi) sembrerebbe costituire – di per sé – una sufficiente garanzia di non distorsione della concorrenza, in quanto il capitale apportato dagli enti locali non affluirebbe direttamente nel capitale di rischio delle imprese operanti in regime di concorrenza» (Cfr. Tar Liguria, Genova, II, 9 gennaio 2009, n. 39; Tar Molise, I, 18 luglio 2007, n. 628).
Inoltre – osservano ancora i giudici – l’inapplicabilità dei divieti di cui al citato art. 13, comma 1 alle società indirettamente partecipate da enti o soggetti pubblici non si pone in contrasto con «…il chiaro fine della norma di cui trattasi [che] è quello di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori». Le società coinvolte nel divieto sono solo quelle «….a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività……… nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza….».
Possono definirsi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali, «tutti quei beni e servizi erogati da società a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica di cui resta titolare l’ente di riferimento e con i quali lo stesso ente provvede al perseguimento dei suoi fini istituzionali. Le società strumentali sono, quindi, strutture costituite per svolgere attività strumentali rivolte essenzialmente alla pubblica amministrazione e non al pubblico, come invece quelle costituite per la gestione dei servizi pubblici locali (per le quali il decreto fa esplicita eccezione) che mirano a soddisfare direttamente ed in via immediata esigenze generali della collettività. Seppure infatti tali società strumentali esercitano attività di natura imprenditoriale, ciò che rileva è che siano state costituite per tutelare in via primaria l’interesse e la funzione pubblica dell’amministrazione di riferimento, per la cui soddisfazione è anche possibile che venga sacrificato l’interesse privato imprenditoriale» (II, 5 giugno 2007, n. 5192, confermata da C. Stato, IV, 5 marzo 2009, n. 946).
Tale ricostruzione trova – ad avviso dei giudici – conferma anche nella sentenza della Corte costituzionale 13 agosto 2008, n. 326 che distingue «tra attività amministrativa in forma privatistica e attività d’impresa di enti pubblici: l’una e l’altra possono essere svolte attraverso società di capitali, ma le condizioni di svolgimento sono diverse. Nel primo caso vi è attività amministrativa, di natura finale o strumentale, posta in essere da società di capitali che operano per conto di una pubblica amministrazione. Nel secondo caso, vi è erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza».
In definitiva, dal momento che la portata della disposizione di cui all’articolo 13 attiene non al titolo giuridico in base al quale le società operano, bensì in relazione all’oggetto sociale delle stesse, «deve ritenersi superato l’orientamento che considerava il divieto introdotto dall’art. 13, comma 1 rivolto in via generale a tutte le società costituite o comunque partecipate da amministrazioni locali, per concludere che deve ormai ritenersi che solo alle società del primo tipo sia applicabile il divieto di operare con enti diversi da quelli di riferimento» (Cfr. in tal senso Tar Lazio, III-ter, 6 novembre 2009, n. 10891).
Sulla base di tali considerazioni, dunque, deve ritenersi che «una società indirettamente partecipata da enti e soggetti pubblici la quale ha ad oggetto sociale la gestione, riqualificazione e valorizzazione di complessi di stazioni e infrastrutture nodali di trasporto, risulta priva dei vincoli della strumentalità e della funzionalità con le amministrazioni indirettamente partecipanti al capitale sociale, e non può essere considerata società produttrice di beni e servizi strumentali ai sensi dell’art. 13, comma 1 del 223 del 2006», e non può, pertanto, essere ritenuta assoggettata ai divieti ivi previsti.