Milano, 3 ottobre 2008
All’Università di Milano, presso la facoltà di Lettere e Filosofia, Dipartimento di Filosofia, si è svolto un convegno dedicato alla laicità organizzato dalla cattedra di Filosofia Morale II e dalla cattedra di Storia della Filosofia Politica.
Introduce i lavori la professoressa Maria Cristina Bartolomei.
Nonostante la laicità non sembri oggi in questione, godendo di unanime consenso anche nei documenti ufficiali dell’Unione Europea, il relativo concetto resta ambiguo situandosi nel crocevia fra politica, diritto e religione. In un mondo globalizzato, privo ormai di una Weltanschauung dominante, è necessario ripensare la propria consistenza cognitiva ed etica insieme con la relazione fra autocoscienza e verità. Insomma, riflettere sulla laicità è un esercizio filosofico che in una giornata di lavoro può solo offrire stimoli non certo indicare soluzioni.
Il preside, professor Elio Franzini, confessa quanto sia impegnativo, per un docente di filosofia, affrontare un termine così carico di implicazioni semantiche la cui compresenza va con franchezza messa in luce. Le radici dell’Europa non sono solo cristiane ma anche illuministiche. “Al principio erano i logoi” e il nostro dovere di onesti intellettuali è far sì che dialoghino pacificamente. Tipico del post-secolarismo è il prepotente ritorno delle religioni nella sfera pubblica che destabilizza l’assetto raggiunto dalla cultura liberal-democratica. Secondo la ormai abusata formula del costituzionalista tedesco Böckenförde lo Stato liberale secolarizzato non può garantire le premesse normative su cui si fonda e deve attingere altrove la coesione etica di cui necessita. Ma in uno Stato aconfessionale non si può privilegiare una credenza in quanto tutte devono avere lo stesso diritto di cittadinanza. Che alla laicità si accostino aggettivi quali sana o positiva, sminuisce la pregnanza intrinseca del termine che non dovrebbe necessitare ulteriori tematizzazioni, come può dimostrare il confluente apporto di varie discipline quali diritto costituzionale, filosofia del diritto, filosofia politica, filosofia morale, storia della Chiesa, storia dei rapporti Stato-Chiesa.
Il professor Gustavo Zagrebelsky inizia la sua relazione avvertendo che si tratta di un tema che, debordando continuamente dall’orticello dei giuristi, non può essere affrontato giocando solo con le norme ma occorre partire da una ricostruzione storica dell’atteggiamento della Chiesa verso la società a cui dirige le sue pretese autoritative. Nel quarto secolo la società civile è cristiana, l’essere cittadino coincide con l’essere cristiano. Dunque la Chiesa può perseguire una potestas circa temporalia per tre ragioni: che la salvezza dell’anima sia la vocazione suprema dell’uomo, che extra Ecclesiam nulla salus, che il contemptus mundi riguardi solo alcuni particolari carismi ma la maggioranza dei christifideles debba impegnarsi ad instaurare omnia in Christo. Il peccatum Caesaris nei negotia regni si considera, per l’elevatezza della funzione governativa, foriero di gravissime conseguenze che richiedono una preventiva potestas corrigendi a costo di ogni sorta di intromissione. Attraverso varie giustificazioni teoriche, dalla dottrina del sole e della luna, a quella delle due spade, a quella dell’anima e del corpo, si sostiene la preminenza della Chiesa per garantire la perseveranza dell’umanità, corrotta dal peccato originale, nella lotta per la salvezza.
La specifica dignità dello Stato consiste proprio nel collaborare come braccio secolare alla missione della Chiesa a cui spetta sempre il giudizio definitivo in ogni ambito escatologico.
La bolla Unam sanctam (1302) di Bonifacio VIII giustifica la militanza politica in termini salvifici.
L’enciclica Immortale dei (1885) ormai aderisce alla teoria bellarminiana delle due società ciascuna governata da un potere sovrano nella propria sfera ma ribadisce la preminenza dell’autorità ecclesiastica in ogni ambito afferente alla salus animarum per cui finisce per essere il dovere più sacro del sovrano favorire la religione.
La secolarizzazione della società cambia l’atteggiamento della Chiesa: non si tratta più di condurre rettamente un gregge che comunque coincide con l’insieme della popolazione ma di convertire ad una visione trascendente un mondo sempre più disinteressato a fini ultramondani. Non risale alla Riforma la fine del predominio del religioso e della coincidenza suddito-cristiano anche se, con l’istituzione delle Chiese di Stato, muta il soggetto affidatario della pur sempre prioritaria missione salvifica. La cesura si verifica con la Rivoluzione liberale in Francia che proclama i diritti dell’individuo divenuto, da suddito obbligato a professare la fede del regnante, cittadino con la sua insopprimibile libertà di coscienza. La rottura dell’omogeneità del popolo come cristiano infrange la portata universale dell’azione ecclesiastica. I destinatari dell’attività pastorale diventano indifferenti alla sequela Christi, incontrollabili con gli antichi strumenti disciplinari. La reazione della Chiesa fino a Pio XII è la chiusura nell’esclusività del proprio magistero salvifico suggellata da Pio IX con la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia e la condanna delle maligne dottrine liberali contenuta nel Syllabus. La speranza di restaurare una res publica christiana resta simboleggiata dall’istituzione della festa di Cristo Re dell’Universo da parte di Pio XI . L’offerta di salvezza non è più rivolta alle anime anche tramite l’azione dello Stato in spiritualibus ma, attraverso l’opera ecclesiastica in temporalibus, all’intera società in disfacimento. La dottrina sociale della Chiesa pone in prima linea un programma sociale: per condividerlo basta avere a cuore il bene della civitas da perseguire nelle mondane traversie. La Rerum Novarum di Leone XIII (1891) è definita da Pio XI, nella Quadragesimus annus del 1931, la Magna Charta dell’ordine sociale da tutelare di fronte alla minaccia del socialismo indicando un’azione collettiva alternativa ma pur sempre a favore di una pacifica e più equa convivenza civile. Attraverso la sussidiarietà, maniera elettiva di esprimere l’esercizio comune della virtù cristiana del servizio al prossimo, la Chiesa si inserisce nel processo di democraticizzazione della società. La sollecitudine del magistero si dirige non solo al battezzato ma all’uomo in quanto tale, come emerge dalle encicliche di Giovanni XXIII (Mater et magistra e Pacem in terris) e di Paolo VI (Populorum progressio) in cui si autoqualifica la Chiesa “esperta in umanità”.
Fioriscono, in scienze tradizionalmente coltivate nel mondo profano, accademie cattoliche che offrono la propria soluzione ai problemi dell’umanità, in esplicita concorrenza con analoghe strutture secolari. La radicale innovazione dogmatica è sancita dal Vaticano II, la cui costituzione pastorale Gaudium et spes dichiara (al numero 3) il fine di salvare la persona umana rinnovando la società. L’uomo diventa l’asse di ogni indagine: l’uomo concreto e integrale con corpo e anima, cuore e coscienza, intelligenza e volontà. Si offre a tutto il genere umano una sincera cooperazione per forgiare quella universale fraternità che corrisponde all’altissima vocazione dell’uomo, animato dalla scintilla del Dio-Amore. Poichè sono molti e diversi gli uomini che si riuniscono in una comunità politica essi possono legittimamente orientarsi verso varie soluzioni di ricerca del bene comune. La dichiarazione Dignitatis humanae proclama espressamente il diritto alla libertà religiosa fondato sulla dignità stessa della persona umana: quale distanza rispetto all’enciclica Libertas che nel 1888 aveva definito la libertà di culto l’anticamera dell’ateismo! Tali posizioni, avversate dai conservatori che continuano a proporsi come militia Christi, sfociano in una distinta relazione col potere politico. Accettare il pluralismo significa riconoscere la convivenza, nella sfera pubblica, di differenti visioni della verità con le quali confrontarsi pur testimoniando rigorosamente la propria che dovrebbe avvincere e convertire unicamente per la forza irresistibile dell’autentico bene.
La religio, che da socialis si è trasformata in humana, subisce,nel nuovo millennio, un’ulteriore mutazione. Nell’ormai sfilacciato tessuto connettivo della società post-moderna la religione apporta un contributo insostituibile alla creazione di un “consenso etico di fondo”, come ha dichiarato Benedetto XVI durante la visita a Parigi il 13 settembre 2008. E’ la riproposizione di una funzione già teorizzata da Marco Terenzio Varrone, riportata da Agostino nel De civitate dei, della religione non come cammino per la vita eterna ma come strumento di coesione sociale apportatore di quelle premesse normative che lo Stato liberale secolarizzato non è in grado di garantire. Si prospetta come un’atto di amicizia nei confronti delle democrazie liberali, altrimenti preda di pulsioni autodistruttive. Il magistero cattolico si propone quale rimedio al pensiero debole e alla consequenziale frantumazione sociale e cedevolezza di fronte ad identità religiose solide e minacciose come quella islamica. Inoltre rispetto alla inusitata potenza della tecnica la teologia pretende di illustrare un diritto naturale in grado di orientare razionalmente le scienze umane. In questa veste di guida morale collude con progetti politici interessati a sfruttarne il prestigio e la persistente capacità di presa sulle masse. Così è lo Stato che dovrebbe riposizionarsi al servizio di una Chiesa detentrice di quegli unici valori sui quali costruire un pacifico e fecondo ordine pubblico. Ma questa visione stride con l’inquadramento costituzionale che presuppone la reciproca indipendenza dei due ordini, quello spirituale e quello statuale, in quanto considera la società civile imperfecta, incapace di badare a se stessa, bisognosa di un collante altrove elaborato. Brutalmente si tratta di inculcare principi etico-politici prodotti al di fuori del circuito democratico-rappresentativo. Questo pericolo, piuttosto che suscitare sterili deprecazioni, dovrebbe spronare gli animi culturalmente più ricchi ad una pervasiva opera di sensibilizzazione affinché l’etica pubblica sia nutrita da un dialogo onesto e vivace palpitante in seno alla società civile e non delegata ad altre istituzioni.
Il professor Baldassare Pastore invita ad interrogarsi sui compiti del diritto in una società multiculturale. L’idea che gli individui oggi hanno dell’ordinamento è quella di un sistema deputato a coordinare le azioni sociali e i rapporti intersoggettivi in modo tale che si sviluppino senza arbitrio, insicurezza o violenza, stabilizzando le legittime aspettative. A tal fine occorre gestire conflitti come quello identitario e quello valoriale. Quest’ultimo deve scontare le inevitabili pretese universalistiche che una assiologia dedotta da una verità presuntamene incontrata importa. Il punto d’equilibrio consiste nel far coesistere la vivacità dialettica dell’arena politica con la pace. E’ impegnativo custodire la convivenza delle diversità senza compromettere l’identità di alcuno dei partecipanti al discorso pubblico. Non ci si può limitare a definire un nucleo di valori condiviso in quanto linfa della democrazia è un flusso comunicativo incessante e cristallino in cui chiunque possa incanalarsi purchè aderisca alle regole della navigazione. La laicità non beneficia solo lo Stato ma anche la Chiesa che può, libera da insane vischiosità, testimoniare con trasparenza la sua missione evangelizzatrice. E per attrarre autenticamente al discepolato sarebbe improprio l’uso del braccio secolare. In uno Stato laico ogni proposta etica deve essere ostensibile in un regime di libertà ed uguaglianza. Gli argomenti religiosi devono rispettare i canoni del dialogo democratico basato sulla comunicabilità ed argomentabilità delle convinzioni a prescindere dal relativo statuto epistemico. Ogni linguaggio dovrebbe essere traducibile in un idioma comprensibile e sottoponibile alla riflessione critica. Laicità significa proprio impegno ad un pluralismo pacifico e fecondo, libero da ogni sorta di costrizione o emarginazione, in cui si rispettano le scelte esistenziali dissonanti anche se l’altro si ritiene in errore ed infelice. Laicità è metodo di regolamentazione del multiculturalismo che postula non indifferenza e neutrale distacco ma infaticabile esercizio di ragione critica, rifiuto di ogni dogmatismo. Si cita il saggio di Bobbio sulla scuola, in cui si valutano maggiormente formative le istituzioni aconfessionali proprio perché aperte al confronto senza censure. I valori entrano nel diritto, che inevitabilmente non può limitarsi a regole procedurali, ma il legislatore dovrebbe formulare la norma in modo tale da renderla opaca rispetto alle ideologie che, una volta generatala, andrebbero imprigionate in essa come in una stanza di raffreddamento. Si ricorda “Il diritto mite” di Zagrebelsky e la sua illustrazione della ragionevolezza come unica impalcatura del diritto che è costitutivamente laico, antisacrale e antidogmatico .
Il professor Luciano Guerzoni coglie lo spunto per sottolineare come di tutto ciò che attiene all’area semantica della recta ratio la Chiesa si ritenga unica depositaria. E questa attitudine viene cavalcata da chi, come Tremonti, può inquadrarsi in una risorgente corrente di clerico-moderatismo. Riprendendo Enzo Bianchi, occorre che lo Stato rimanga laico, benché la società non lo sia, al fine di tutelare quella libertà di coscienza che, seppur scaturita da una rivoluzione liberal-borghese, rimane la condizione necessaria di ogni regime democratico, quale che ne sia la formula organizzatoria. Certo con l’avvento della social-democrazia fra il pubblico e il privato inizia a dilagare un’irrefrenabile contaminazione che richiede l’instaurazione del principio di laicità all’interno stesso della società civile affinché la convivenza possa continuare pacificamente nonostante l’omogeneità della popolazione sia stata definitivamente infranta dal multiculturalismo.
Geneticamente la laicità attiene alla sfera statuale-pubblica ma, mutato ormai il contesto, deve riformularsi anche in ambito privatistico benché ciò possa apparire blasfemo ai cultori del costituzionalismo.
Il professor Valerio Onida invita a non essere pessimisti sul dissolversi della separazione fra pubblico e privato in quanto il diritto è comunque una risposta a fatti sociali in cui vibrano aspirazioni e passioni di individui concreti che non possono limitarsi ad animare le regole squisitamente civilistiche.
Il teologo don Giuseppe Ruggeri delicatamente corregge la ricostruzione di Zagrebelsky. Precisa che la teologia civile, così come proposta da Varrone, è distinta dal diritto naturale originato dalla retta ragione. Infatti a differenza della teologia fisica che cerca il vero, quella civile indaga sulle virtù necessarie alla tenuta sociale ed è appannaggio dei sacerdoti e degli amministratori. Sulla stessa scia si pone Rousseau che proprio per questo ammette possa essere autoritativamente imposta ai governati. Nel medioevo le prescrizioni ecclesiastiche traevano forza dal comune sentimento religioso dei sudditi. Scomparso questo sostrato psichico uniforme occorre elaborare un altro collante sociale nel rispetto della libertà. Per un teologo laicità significa pace. Nella gerarchia ecclesiastica sono sempre esistite due anime: quella interessata alla genuina proposta evangelica di amorevole accompagnamento all’homo viator e quella che vuole controllarre la società sia pure per un nobile fine: imporre il vero bene anche a menti purtroppo incapaci di un corretto discernimento.
I primi cristiani non si sentivano responsabili delle sorti del mondo, anzi la loro povertà si contrapponeva al potere ma questi, che ha sempre avuto come componente il sacro, è riuscito ad asservire persino una opzione trascendente radicalmente innovativa e basata proprio sull’estremo abbassamento dell’Altissimo.
Il professor Alberto Melloni concorda sulla fragilità del termine laicità che può essere distorto da chiunque con l’accostargli l’attributo opportuno. Nota che bisogna attendere Montini per avere, da parte di un pontefice, una valutazione positiva sulla perdita del potere temporale. Ogni principio del costituzionalismo per inverarsi nella realtà necessita un’educazione capillare e permanente delle coscienze, non riesce ad attuarsi solo per la brillantezza del suo apparato dogmatico.