Con una sentenza del 31 gennaio scorso, la Corte di giustizia, investita di ben dieci questioni pregiudiziali dal Consiglio di Stato, ha avuto modo di pronunciarsi, tramite l’ormai noto uso “alternativo” del meccanismo offerto dall’art. 234 TCE, sulla normativa italiana in materia di telecomunicazioni e, in particolare, sulla vicenda della società Centro Europa 7, vicenda che si protrae da diversi anni, senza che, al momento, vi sia stata messa la parola fine.
I fatti che hanno preceduto l’appello al Consiglio di Stato sono noti, ma è tuttavia opportuno riportarli qui sinteticamente: in base alla legge 31 luglio 1997, n. 249, le competenti autorità italiane hanno rilasciato alla Centro Europa 7 una concessione per la radiodiffusione televisiva di frequenze terrestri che l’autorizzava a installare ed esercitare una rete televisiva con tecnica analogica.
Le frequenze dovevano essere assegnate dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (creata dalla legge menzionata) entro il 30 aprile 1998, termine tuttavia da non considerarsi perentorio, giusta la circostanza che la stessa legge 249 prevedeva un regime transitorio che consentiva alle “reti eccedenti” (quelle cioè destinate a scomparire dal panorama delle trasmissioni analogiche, in quanto – appunto – eccedenti il limite delle concentrazioni stabilito dalla stessa legge 249) di continuare a trasmettere dopo quella scadenza, in attesa dell’assegnazione delle frequenze da parte dell’Autorità ai soggetti, come la Centro Europa 7, cui era stata rilasciata una concessione. Un nuovo termine – anche qui non perentorio – veniva fissato dalla legge 20 marzo 2001, n. 66 (con la quale veniva convertito il decreto-legge 23 gennaio 2001, n. 5), la quale autorizzava le “reti eccedenti” a continuare a trasmettere, in attesa dell’attuazione del piano nazionale di assegnazione delle frequenze televisive in tecnica digitale. La Corte costituzionale, investita dal T.A.R. del Lazio (presso cui erano stati impugnati alcuni provvedimenti dell’Autorità) della questione di legittimità relativa alla mancanza di un termine perentorio per l’assegnazione delle frequenze, lo fissava al 31 dicembre 2003.
Poco prima dello spirare del termine fissato dalla Corte costituzionale, è tuttavia intervenuto il decreto-legge 24 dicembre 2003, n. 352 (poi convertito con legge 24 febbraio 2004, n. 43), il quale ha prorogato ulteriormente il regime per le “reti eccedenti”, fino alla conclusione dell’esame sullo sviluppo delle reti televisive digitali. Successivamente, è stata varata la legge 3 maggio 2004, n. 112 (la cd. legge “Gasparri”, dal nome dell’allora Ministro delle comunicazioni), che, da una parte, ha prorogato per l’ennesima volta il regime “transitorio” delle “reti eccedenti” e, dall’altra, ha riformulato completamente il quadro delle norme relative alle concentrazioni in materia di telecomunicazioni, tenendo conto dello sviluppo della rete digitale.
A fronte della mancata concreta assegnazione delle frequenze, scaturita da questo complesso quadro normativo, la Centro Europa 7 ha proposto un ricorso al T.A.R. del Lazio allo scopo di ottenere sia l’assegnazione, sia il risarcimento del danno dovuto al protrarsi dei tempi dell’assegnazione ben oltre il momento del rilascio della concessione. La sentenza del giudice amministrativo ha respinto (tralasciando peraltro volutamente la questione relativa all’assegnazione delle frequenze) il ricorso in data 16 settembre 2004, ritenendo che la mancata assegnazione si dovesse a fattori essenzialmente normativi, a fronte dei quali la ricorrente non poteva dunque vantare un diritto al risarcimento. La Centro Europa 7 ha proposto appello avverso la sentenza del T.A.R. presso il Consiglio di Stato, il quale, a sua volta, giusta la circostanza che l’appellante lamentava, fra l’altro, l’incompatibilità del regime nazionale con quello previsto dai Trattati comunitari e dalle norme di diritto derivato in materia di concorrenza e di libera circolazione dei servizi, si è rivolto alla Corte di giustizia per conoscere la portata delle stesse regole comunitarie.
In particolare, il giudice del rinvio ha chiesto ai giudici di Lussemburgo di pronunciarsi su dieci questioni pregiudiziali: (1) se l’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, in quanto richiamato dall’art. 6 del Trattato UE, obblighi gli Stati membri a garantire un pluralismo e una concorrenza effettivi nel settore radiotelevisivo; se la normativa nazionale sia compatibile con le norme comunitarie che impongono agli Stati membri (2) di tutelare i principi di affidamento delle concessioni, principi capaci di assicurare un trattamento non discriminatorio, paritario, nonché trasparenza, proporzionalità e rispetto dei diritti dei singoli, (3) di assegnare in modo effettivo le frequenze necessarie per svolgere l’attività, ove quest’ultima fosse stata oggetto, come nel caso di specie, di un provvedimento concessorio, (4) di allestire procedure pubbliche, trasparenti e non discriminatorie, svolte in base a criteri obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionali, per il rilascio delle concessioni, (5) di far cessare l’occupazione di fatto, da parte delle “reti eccedenti” delle frequenze; (6-8) se, e in quale misura, gli Stati membri possano valersi del regime derogatorio previsto dalle norme comunitarie; (9) se, infine, l’intero impianto normativo comunitario non avrebbe imposto una diversa soluzione normativa interna, ispirata a evitare la sovrapposizione della proroga del vecchio regime transitorio analogico collegata all’avvio del cd. digitale terrestre, e (10) se la tutela del pluralismo delle fonti d’informazione e della concorrenza nel settore radiotelevisivo a livello europeo sia garantita da un sistema che prevede un nuovo limite del 20% delle risorse, collegato ad un nuovo paniere molto ampio che include anche attività che non hanno impatto sul pluralismo delle fonti d’informazione.
La Corte, com’era prevedibile, ricorda al Consiglio di Stato che l’art. 234 TCE esclude la possibilità che essa si pronunci sulla compatibilità del diritto interno col diritto comunitario, ma che dal momento che la sua giurisprudenza consolidata vuole essa sia “competente a fornire al giudice del rinvio tutti gli elementi interpretativi attinenti al diritto comunitario che gli consentano di pronunciarsi su tale compatibilità per la definizione della causa per la quale è adito […], la Corte è tenuta […] a limitare il suo esame alle disposizioni del diritto comunitario, fornendone un’interpretazione utile al giudice del rinvio, al quale spetta la valutazione della compatibilità delle disposizioni legislative nazionali con il diritto comunitario” (punto 50 s.).
La Corte, peraltro, dichiara irricevibili alcune questioni ipotetiche e formulate in modo incompleto dal giudice di rinvio (segnatamente la decima, parte della seconda e la nona), mentre afferma la sua piena competenza per le restanti (riguardanti prevalentemente le norme sui servizi).
Dal momento che tutti gli elementi della controversia principale sono circoscritti al territorio di uno Stato membro – il che escluderebbe prima facie l’applicabilità delle norme comunitarie e, dunque, la competenza stessa della Corte – quest’ultima procede a verificare che sussista “un collegamento con gli scambi intracomunitari” (punto 65). I giudici ne riconoscono la sussistenza dal momento che “non si può escludere che, nella causa principale, imprese stabilite in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana siano state o siano interessate a fornire i servizi di cui si tratta” (punto 66).
Dopo avere brevemente tracciato un quadro della pertinente normativa comunitaria, la Corte afferma chiaramente che “l’applicazione in successione dei regimi transitori istituiti […] a favore delle reti esistenti ha avuto l’effetto di impedire agli operatori sprovvisti di frequenze di trasmissione l’accesso al mercato di cui trattasi” (punto 95 s.), effetto – aggiunge la Corte – “consolidato” dall’autorizzazione generale ad operare sul mercato dei servizi radiotelevisivi a favore delle sole reti esistenti, previsto dalla cd. legge “Gasparri”.
D’altra parte, la Corte rammenta che un regime del genere, cui osterebbe la normativa comunitaria, potrebbe trovare una legittima giustificazione qualora obbedisca a obiettivi di interesse generale e sia anche organizzato sulla base di criteri obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionati. Tuttavia, la Corte riconosce che, “dagli elementi forniti dal giudice del rinvio […], l’attribuzione delle frequenze ad un numero limitato di operatori non è stata effettuata in base a criteri siffatti” (punto 108). Né, limitatamente al regime previsto dalla cd. legge “Gasparri”, “le restrizioni constatare supra […] possono essere giustificate dalla necessità di garantire una rapida evoluzione verso la trasmissione televisiva in tecnica digitale” (punto 114).
La Corte conclude pertanto affermando che le norme comunitarie “ostano, in materia di trasmissione televisiva, ad una normativa nazionale la cui applicazione conduca a che un operatore titolare di una concessione si trovi nell’impossibilità di trasmettere in mancanza di frequenze di trasmissione assegnate sulla base di criteri obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionati” (punto 116).
Per meglio comprendere la portata della pronuncia della Corte e i possibili scenari che ora si aprono, abbiamo il piacere di ospitare il prof. Roberto Mastroianni che, oltre ad essere professore ordinario di Diritto dell’Unione europea presso l’Università di Napoli “Federico II” e uno dei maggiori esperti in materia, ha difeso la Centro Europa 7, assieme agli avvocati proff. Pace e Grandinetti, presso la Corte di giustizia.
D: Professore, come è stato possibile prorogare il regime delle “reti eccedenti” nonostante le sentenze della Corte costituzionale e in che modo ha influito su ciò la legge Gasparri?
R: Le c.d. “reti eccedenti” hanno continuato a trasmettere nonostante non fossero state destinatarie di alcun formale provvedimento concessorio (ma solo di un’autorizzazione transitoria) grazie agli interventi legislativi successivi all’attribuzione delle concessioni. Detti interventi hanno consentito la prosecuzione delle trasmissioni costringendo la Corte costituzionale ad adottare la sentenza 466 del 2002, con la quale si è imposto un termine certo (31 dicembre 2003) per la liberazione delle frequenze analogiche da parte delle reti eccedenti. Questa richiesta è tuttavia rimasta senza esito per la successiva adozione della legge “Gasparri”. Questa, preceduta da un decreto-legge adottato per evitare le conseguenze della scadenza del termine prima indicato, è intervenuta nell’aprile del 2004 in modo da consolidare e rendere sostanzialmente definitivo quel sistema transitorio che era appunto stato introdotto in palese violazione dei dettami della Corte costituzionale. La legge “Gasparri” ha consentito alle reti eccedenti di continuare a trasmettere fino alla scadenza del periodo transitorio, cioè fino al definitivo trasferimento delle trasmissioni televisive al sistema del digitale terrestre: quindi, in definitiva, con un termine incerto. Paradossalmente, è il nostro meccanismo di controllo della costituzionalità delle leggi che, nel richiedere l’intervento della Consulta per la rimozione delle leggi incostituzionali, ha indirettamente “favorito” la prosecuzione di questo sistema.
D: E rispetto a ciò, quale vantaggio ha avuto, per la Centro Europa 7, la proposizione del rinvio pregiudiziale nella causa di fronte al Consiglio di Stato?
R: Ha avuto il vantaggio di avere dalla Corte di giustizia un chiarimento definitivo sulla portata delle norme comunitarie vigenti in materia di assegnazione delle frequenze, norme che fungono da parametro di legalità delle leggi interne. Perché in questa materia, sia le disposizioni del Trattato CE, sia le direttive sulle comunicazioni elettroniche del 2002 richiedono agli Stati membri non soltanto di porre in essere un meccanismo di attribuzione delle licenze che sia chiaro e trasparente, ma anche e soprattutto di dar effetto all’esito delle gare svolte. Esattamente quello che non è avvenuto in Italia, dove senz’altro la gara si è svolta, ma i suoi risultati non hanno mai trovato un compimento concreto con l’attribuzione delle frequenze a chi la gara l’aveva vinta. La proposizione del rinvio pregiudiziale è servita, sostanzialmente, a dare al Consiglio di Stato una parola definitiva sull’interpretazione delle direttive comunitarie al fine di decidere se la nostra legislazione sia o meno compatibile con le regole del diritto comunitario.
D: Quindi, si potrebbe dire che la sentenza della Corte di giustizia ha il vantaggio di poter resistere meglio delle sentenze della Corte costituzionale?
R: Sì, perché notoriamente una norma interna non compatibile con una regola comunitaria non deve essere accertata come tale da un organo giudiziario, come avviene invece con la violazione della Costituzione, ma spetta al singolo giudice o addirittura all’amministrazione disapplicare le regole interne laddove si accerti la loro incompatibilità con le regole comunitarie. È ovvio che l’amministrazione lo può e lo deve fare anche in assenza di un intervento della Corte di giustizia comunitaria, ma ovviamente se la Corte di giustizia chiarisce definitivamente la portata del quadro normativo di riferimento le conseguenze sono obbligate per l’operatore giuridico interno.
D: Quali sono i possibili scenari dopo la sentenza della Corte di giustizia?
R: Il Consiglio di Stato, chiamato ad emettere una decisione finale sul caso Europa 7, si è già pronunciato, anche se in maniera non definitiva, sulle conseguenze della sentenza della Corte di giustizia: nelle decisioni assunte nei mesi di giugno e luglio ha rimesso il compito di dare applicazione a queste sentenze al Ministero delle comunicazioni, cui spetta dare finalmente esito alla richiesta di Europa 7 di avere le frequenze analogiche necessarie per svolgere la sua attività. Ha quindi fissato un termine al Ministero per rispondere a questa richiesta, precisando che questa risposta deve avvenire in conformità con la sentenza della Corte, ciò vuol dire che essa deve essere data attribuendo a Europa 7 le frequenze cui ha diritto. Quindi spetta ora al Ministero dare una risposta e il Consiglio di Stato ha già fissato una nuova udienza per il mese di dicembre allo scopo di valutare la correttezza della risposta del Ministero.