Il seguito delle decisioni interpretative e additive di principio della Corte costituzionale presso le autorità giurisdizionali – anni 2000-2005 – Resoconto convegno (Roma, 30 ottobre 2008)

05.11.2008

Il 30 ottobre si è tenuto all’ Università “La Sapienza” un dibattito in occasione della presentazione pubblica della ricerca su “Il seguito delle decisioni interpretative e additive di principio della Corte costituzionale presso le autorità giurisdizionali – anni 2000-2005 “, curata dall’Ufficio Studi della Corte costituzionale. L’incontro è stato organizzato, nell’ambito del dipartimento di scienze giuridiche, dal dottorato di ricerca in diritto costituzionale e diritto pubblico generale.
La professoressa Elisabetta Lamarque, dell’Università di Verona, che ha guidato il gruppo di ricercatori -incaricato dal Servizio studi della Corte costituzionale su iniziativa della Commissione studi e regolamenti per verificare l’accoglienza riservata alle decisioni costituzionali da parte della generalità dei giudici comuni- ha illustrato le conclusioni dell’indagine (rinvenibili anche sul sito della Consulta e nel terzo numero del 2008 della Rivista trimestrale di diritto pubblico).
Lo scopo della ricerca era conoscere le caratteristiche e il livello di effettività del sistema italiano di controllo di costituzionalità in via incidentale. Il presidente Azzariti, nel discorso tenuto in occasione della seduta inaugurale del secondo anno di attività della Corte, disse che, benché non spettasse alla Corte costituzionale esaminare l’applicazione concreta delle norme, non era escluso il potere della Corte di interpretare tanto la norma costituzionale che si assumeva violata quanto la norma della legge ordinaria che si asseriva costituzionalmente illegittima. Dunque sarebbe stato interessante esaminare l’efficacia pratica dell’interpretazione legislativa della Corte.
Si è scelto di ricomprendere nelle interpretative le decisioni nelle quali la Corte suggerisce al giudice di accogliere o comunque ricercare un’interpretazione della legge impugnata diversa da quella adottata nell’ordinanza di rimessione. Si tratta di ipotesi nelle quali la Corte rivendica il potere di re-interpretare autonomamente la legge sottoposta al suo giudizio.
Quanto alle additive di principio, sono state considerate tali quelle sentenze di accoglimento manipolativo dette anche “additive a dispositivo generico” il cui dispositivo individua appunto un principio a cui il legislatore futuro è chiamato a dare svolgimento e che i giudici comuni sono tenuti ad attuare in quanto sia possibile tramite l’utilizzo della loro capacità ermeneutica. Anche questo tipo di pronunce avrebbe fatto concretamente emergere il problema dei limiti dei poteri interpretativo-integrativi dei giudici chiamati a darvi seguito.
Il dato più impressionante è che il 68% delle pronunce interpretative consiste in ordinanze di manifesta inammissibilità per mancato esperimento di un’interpretazione adeguatrice ai canoni costituzionali. Questo sulla scia di una svolta manifestatasi alla metà degli anni 90’ quando la Corte ha iniziato ad imporre un’interpretazione adeguatrice invece di valutare la questione così come evinta dal diritto vivente. Si giunge ad una dichiarazione di incostituzionalità solo quando sia impossibile una interpretazione conforme a Costituzione, non quando sia possibile anche una interpretazione costituzionalmente non conforme. Dunque si impone ai giudici di cercare essi stessi un’interpretazione adeguatrice.
Rispetto alle interpretazioni offerte dalla Consulta, il seguito giurisprudenziale si mostra, quasi nel 70% dei casi, pacificamente conforme, nella restante percentuale faticoso con punte di ribellione che colpiscono quelle definibili come sentenze-legge. Si tratta di sentenze, sia pur interpretative, che con una robusta argomentazione gettano scompiglio nel diritto vivente. Spesso è necessario che intervengano le Sezioni Unite per condurre la giurisprudenza nel nuovo alveo tracciato dalla Corte. Si segnala che alcuni giudici hanno mostrato di non essersi resi conto della valenza interpretativa, e non solo di infondatezza, di molte pronunce. Si sono verificate anche proteste da parte della Cassazione come nella sentenza Pezzella del 2004 in cui si scandisce che la Corte Costituzionale non ha il potere di interpretare autenticamente la legge, il giudice comune è soggetto solo alla legge che può essere eliminata esclusivamente da un sentenza di accoglimento, nessun vincolo deriva per il giudice a quo da una sentenza interpretativa, neppure quello che Elia definiva “alternativo” ossia o adeguarsi o risollevare la questione.
La professoressa ricorda lo scritto di Calamandrei del ’56, “Corte Costituzionale e autorità giudiziaria”, in cui si invitavano le istituzioni ad una leale ed attiva collaborazione piuttosto che ad una puntigliosa difesa delle proprie attribuzioni. Si sarebbe dovuta promuovere un’atmosfera di intesa e di reciproca comprensione. Non sarebbe stato sufficiente il rispetto meramente negativo dei propri limiti di competenza ma sarebbe stata necessaria una cooperazione dialogante tra Corte costituzionale e giudici quali congegni complementari di un unico meccanismo processuale. Il primo presidente della Cassazione sarebbe dovuto sempre essere presente in udienza e concludere. Per un dialogo proficuo è indispensabile che la Corte scelga un mezzo comunicativo idoneo. Al contrario, le ordinanze, per la loro sinteticità, risultano oscure. Le meno comprensibili sono le ordinanze di manifesta inammissibilità per mancato esperimento del tentativo di interpretazione adeguatrice. Queste ordinanze oltretutto vengono poco esaminate dalle riviste. E’ auspicabile sia un’elevata qualità della motivazione sia la fedeltà al diritto vivente per evitare guerre con la giurisprudenza comune che la Corte dovrebbe conoscere e non sottovalutare prima di proporre alternative. Insomma si constata un’ attenzione guardinga. Questo rapporto di reciproca diffidenza è però a volte sfociato in risultati interessanti. Infatti se i contrasti si riescono a convertire in consonanze si può giungere ad autentiche conquiste come è accaduto nel 2003 in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale in caso di colpa presunta.

Il professor Gaetano Azzariti, dell’Università “La Sapienza”, commenta che i 26 volumi visionati gli hanno lasciato l’impressione che sia finita la Corte Costituzionale così come intesa dai compianti Crisafulli, Elia, Mezzanotte, cioè la Corte interagente con gli altri poteri attributari dell’indirizzo politico, analizzata nella prospettiva della forma di governo. E’ consapevole del fatto che gli si potrebbe rimproverare di non aver letto bene il titolo della ricerca commissionata ma non può far a meno di sottolineare con sconforto che proprio il tema dell’indagine richiesta sancisce la crisi della politica e la debolezza della Corte nel pungolare il Parlamento. A fronte dell’inettitudine del legislativo si è espansa l’attività ermeneutica del giudiziario. Lorenza Carlassarre ha criticato le interpretazioni eccessivamente creative benché sia labile il confine tra il normare e l’interpretare e dilaghi il timore che il corpo politico non sappia rispondere. Così si rischiano reazioni isteriche fra il Parlamento e la Corte come nel caso dell’articolo 500 del codice di procedura penale. Si pensi anche alle vicende del pluralismo televisivo, alla sentenza su Rete 4 raggirata poi dalla legge Gasparri.

Il professor Augusto Cerri, dell’Università “La Sapienza”, dice che è auspicabile raggiungere momenti di democrazia unanimistica nella collaborazione fra le corti e nel costituzionalismo multilivello. Il fenomeno può essere inquadrato da due punti di vista, quello ordinamentale e quello della giustizia del caso concreto. Il primo svela risultati apprezzabili, il secondo invece evidenzia la frustrazione del soggetto coinvolto che deve attendere molte sentenze prima di ottenere una risoluzione del proprio caso conforme ai valori costituzionali. Nota che spesso la Corte blocca il giudice a quo dicendo che si contraddice se adduce una interpretazione che ammette essere solo una fra le varie possibili. In tal modo non si illustrano le cause della difformità comunque prospettata. Sarebbe opportuno ridurre la discrezionalità della Corte nell’addentrarsi o meno in motivazioni. Il limite di tollerabilità di un’interpretazione è il dato testuale. E’ preferibile accogliere che lasciar diffondere una certa interpretazione ingiusta e, in ogni caso, si dovrebbero sempre spiegare accuratamente le critiche alle prassi giurisprudenziali .

Il professor Carmine Punzi, dell’Università “La Sapienza,” ricorda casi fecondi di dialogo fra magistratura e Consulta: gli effetti della notificazione a mezzo posta, l’efficacia esecutiva del verbale di conciliazione giudiziale, la tutela cautelare nell’arbitrato rituale. Si domanda se il riformato articolo 374 del codice di procedura civile, esaltando la funzione nomofilattica delle Sezioni Unite, abbia espropriato le sezioni semplici del potere di sollevare questione di legittimità costituzionale.

Il professor Angel Antonio Cervati, dell’Università “La Sapienza”, confessa di non aver ancora letto tutti i volumi della ricerca.

Il professor Roberto Romboli, dell’Università “La Sapienza”, asserisce che l’autorità delle sentenze interpretative della Corte può consistere solo nella persuasività del percorso argomentativo. Inoltre la proposta interpretativa non può sconfinare oltre il dato testuale forzando così il giudice a disapplicare la legge. L’unico strumento per liberare il giudice dalla soggezione ad una certa legge resta la sentenza di accoglimento. Cita la sentenza 308 del 2008 giudicandone francamente creativa la lettura in tema di assegnazione della casa familiare. Non si confondano le sentenze costituzionali con quelle della Corte di Giustizia delle Comunità Europee che sono fonte di diritto. La Corte Costituzionale dovrebbe intervenire con prudenza sulle tecniche interpretative usate dalla Cassazione. Ricorda a tal proposito la 77 del 2007 , sulla traslatio judicii, che è arrivata con una additiva allo stesso risultato ottenuto dalle Sezioni Unite rimproverandole di aver toccato un punto che in realtà non si sarebbe potuto raggiungere con la sola interpretazione.

Il professor Massimo Luciani, dell’Università “La Sapienza”, esprime la sua perplessità dogmatica per le ordinanze di manifesta inammissibilità perchè il giudice a quo non ha tentato una ricostruzione normativa conforme ai valori costituzionali. I vizi che impediscono alla Corte di ammettere la questione dovrebbero attenere alla quaestio stessa . La Consulta sembra attanagliata dal timore, non certo irragionevole, di una lacuna. Ciò è confermato anche dalla crisi delle sentenze-monito. Le pur poche additive di principio esaminate richiederebbero un previo chiarimento concettuale sulla tipologia stessa in quanto spesso mostrano un grumo di autoapplicatività.

Il professor Franco Modugno, dell’Università “La Sapienza”, considera che l’interpretazione della Consulta abbia una presa sicura solo quando sia contenuta in una additiva di principio. In effetti la sentenza Pezzella delle Sezioni Unite del 2004 ha definitivamente sepolto la tesi di Elia del vincolo alternativo. E’favorevole al fatto che la Corte sproni il giudice a quo a sforzarsi di rinvenire un’interpretazione costituzionalmente conforme purchè si tratti di un invito, un onere e non di un obbligo.

Il professor Cesare Pinelli, dell’Università “La Sapienza”, propone consapevolmente una notazione da “Candido”: prima si discuteva di seguito delle sentenze di accoglimento, analizzando i rapporti della Corte col Parlamento.Oggi si invita ad un gioco di squadra ad ogni livello istituzionale senza il quale la democrazia può incorrere in un penoso destino. La relazione della Lamarque presenta un valore aggiunto rispetto alle considerazioni che emergono nella redazione di Giurisprudenza costituzionale in quanto si considerano anche le ordinanze di manifesta inammissibilità solitamente trascurate dalla rivista. Certo l’andamento riscontrato evidenzia un serio pericolo per il meccanismo di accesso incidentale.

Il presidente del dibattito, professor Giuseppe Ugo Rescigno dell’ Università “La Sapienza”, sottolinea che si sia appena potuto constatare come nasca in realtà il diritto: i testi scritti sono solo un pretesto di fronte ad un’attività interpretativa così prepotentemente creativa.

Conclude Ugo De Siervo, Giudice della Corte costituzionale.
Dichiara che, a costo di usare un’espressione poco adeguata alla sede accademica, la Corte deve lavorare a ritmi forsennati che spesso appannano l’autocoscienza del proprio lavoro. Era dunque necessaria questa riflessione. Accenna fugacemente anche all’altro ambito delicatissimo in cui la Consulta è impegnata, quello dei conflitti di attribuzione in cui si è verificata recentemente l’assoluta novità di Camera e Senato contro la Cassazione. Dunque è opportuno che tutti gli operatori coinvolti, ad iniziare dagli assistenti di studio, considerino diligentemente i volumi presentati, evitando, come spesso accade ai giuristi, di lasciarsi trasportare da ardite architetture concettuali senza ponderare il risvolto pragmatico delle proprie decisioni. Il numero elevato di ordinanze di manifesta inammissibilità, deprecate perché non argomentate, è l’inevitabile difesa contro la mancanza di filtri nell’accesso alla Corte. Fa il paragone con la Corte Suprema degli Stati Uniti che deve occuparsi solo di 80 questioni all’anno. Raccomanda ai giovani studiosi che si accingono a fare una nota a sentenza di leggere anche i ricorsi introduttivi prima di deplorare una supposta renitenza al dialogo da parte della Consulta. Certo si deve ammettere che la Corte è in preda all’horror vacui. Bisognerebbe razionalizzare la panoplia di strumenti con cui dialoga con la comunità giurisdizionale. Indubbiamente l’ordinanza risulta indigesta, anche per lui dopo sei anni di Corte, con la sommarietà della sequela di “considerato” e “rilevato”. A ciò si aggiunga che Giurisprudenza Costituzionale non pubblica le ordinanze. Condivide la critica della Lamarque, che a volte la Corte si discosta dal diritto vivente senza conoscerlo adeguatamente. Preannuncia che la Corte sta per pubblicare le nuove norme integrative, una appetibile occasione di lavoro per molti ricercatori ai quali suggerisce un percorso a cui la Corte stessa sarebbe molto interessata: scandagliare nella concreta vita istituzionale l’esito delle proprie pronunce.


Monica Giorgi