Il ruolo de Parlamenti regionali nell’Unione europea: strumenti operativi per una nuova funzione legislativa e di indirizzo – Resoconto convegno

22.07.2008

Lunedì 30 giugno 2008 ha avuto luogo presso la sede del Consiglio Regionale del Piemonte, a Torino, il seminario di formazione dal titolo “Il ruolo dei Parlamenti regionali nell’Unione europea: strumenti operativi per una nuova funzione legislativa e di indirizzo”, organizzato dal Consiglio Regionale piemontese in collaborazione con Eurocooperation.

Il seminario è stato aperto dall’intervento dell’on. Davide GARIGLIO, Presidente del Consiglio Regionale del Piemonte, il quale dopo aver dato il benvenuto ai partecipanti ha introdotto il tema oggetto dell’incontro. In particolare, si è soffermato sugli effetti prodotti dal processo di integrazione comunitaria all’interno degli ordinamenti nazionali e sulla necessità di adeguare l’organizzazione interna degli organi dello Stato e delle Regioni all’esigenza di un tempestivo recepimento della normativa dell’Unione. Gran parte della legislazione nazionale e regionale, infatti, è di derivazione comunitaria: a titolo di esempio, il concerto degli Stati membri all’interno del Consiglio dell’Unione e il Parlamento europeo, secondo la procedura prescritta, assumono oggi le decisioni più rilevanti in merito al settore agricolo e alla politica di immigrazione.
La previsione di un coinvolgimento dei Parlamenti nazionali nei procedimenti decisionali comunitari, introdotto per la prima volta dal Trattato di Amsterdam, e dell’eventuale consultazione da parte di questi delle Assemblee regionali dotate di poteri legislativi, come stabilito nel Trattato costituzionale (artt. 2 e 5 del Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità), si configura quale strumento volto a contenere il deficit democratico.
Di fronte alle novità apportate dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 rispetto alla partecipazione delle Regioni alla “fase ascendente” e alla “fase discendente” di formazione del diritto comunitario, l’effettivo esercizio delle competenze ai sensi dell’art. 117, comma 5, Cost. discende dalla capacità dell’ente di esaminare in tempi brevi i progetti comunitari e di assicurare una rapida attuazione della normativa dell’Unione. L’art. 15, comma 1, dello Statuto della Regione Piemonte (legge statutaria regionale 4 marzo 2005, n. 1) stabilisce che “la Regione (…) concorre alla determinazione delle politiche dell’Unione”. Al contempo, così come accade per il recepimento delle norme comunitarie a livello statale, l’art. 42 dello Statuto identifica nella legge comunitaria regionale il fondamentale dispositivo per la partecipazione alla fase discendente. Tuttavia, mentre lo Statuto riconosce una via prioritaria all’approvazione della legge comunitaria, con la previsione di “un’apposita sessione da tenersi entro il 31 maggio di ogni anno” e del ruolo di garante della certezza dei tempi di approvazione del Presidente del Consiglio regionale, il regolamento consiliare tace sul punto. L’on. Gariglio, dunque, ha ravvisato l’urgenza dell’adeguamento di quest’ultimo allo Statuto e ha auspicato che le modifiche richieste entrino in vigore prima dell’inizio della nuova legislatura regionale.
Per quanto riguarda la “fase ascendente”, sarà necessario procedere ad una riorganizzazione degli uffici tecnici e amministrativi del Consiglio affinché esso sia in grado di acquisire prontamente tutti gli elementi informativi inerenti ad un determinato progetto comunitario e possa pronunciare il proprio parere in tempo utile.

Successivamente, per il primo ciclo di interventi su “Le Regioni italiane, le Istituzioni europee e il diritto dell’Unione europea” ha preso la parola il dott. Andrea PIERUCCI, funzionario del Segretariato generale della Commissione europea, il quale ha descritto i lineamenti del procedimento decisionale comunitario, segnalando i momenti più congeniali ad “un’interferenza” ad opera dei Parlamenti nazionali e delle Assemblee regionali. Secondo il Relatore, la comune considerazione delle procedure comunitarie come complesse e poco intellegibili si presterebbe a due interpretazioni: da un lato, esse sono poco trasparenti per la scarsa pubblicità dei lavori di alcune istituzioni, dall’altro, l’iter che caratterizza ogni progetto è tortuoso e soggetto a molteplici interferenze. Ossia gli interventi di coloro che a vario titolo intendono esprimere la loro posizione sulla proposta, i c.d. stakeholders, possono essere letti da alcuni come strumento di rafforzamento della democraticità del procedimento; da altri come ulteriore espediente per rendere più oscure le modalità di formazione delle decisioni. Queste ultime sono assunte tendenzialmente dal c.d. “triangolo istituzionale”, vale a dire dalla Commissione europea, dal Consiglio e dal Parlamento europeo. Prima della trasmissione della proposta al Consiglio e al Parlamento, la Commissione effettua “ampie consultazioni” delle parti interessate (art. 2 del citato Protocollo annesso al Trattato costituzionale e ora a quello di Lisbona) e si preoccupa di corredare la proposta con una sorta di analisi di impatto della regolamentazione. A tal fine è indispensabile non solo la consultazione di carattere politico e sociale, ma anche quella di tipo tecnico-scientifico: si pensi al caso del c.d. “regolamento REACH” (n. 1907/2006 CE) sulle sostanze chimiche.
Anche in seguito, nell’ambito del dialogo tra Consiglio e Parlamento europeo si può creare lo spazio per un’interferenza da parte dei Parlamenti nazionali e delle Assemblee regionali. Tale possibilità dipende in larga misura dalla direzione verso cui si orienta il procedimento: ad esempio, se nella procedura di co-decisione i due legislatori raggiungono subito un accordo sul testo non residua spazio per interventi di altri soggetti; viceversa, se si procede alla seconda lettura, normalmente dopo la definizione della posizione comune si cerca di sondare l’opinione degli stakeholders. In ogni caso, una volta conseguito un accordo nel Consiglio (ovvero, laddove non è richiesta l’unanimità, quando alcuni Stati hanno acconsentito ad essere messi in minoranza) e nel Parlamento (quasi sempre con l’alleanza dei gruppi del PPE e del PSE e a volte anche dell’ALDE) la volontà si considera formata e il sistema si chiude.
A parere del dott. Pierucci, però, sarebbe possibile cogliere una distinzione circa la titolarità ad interferire nel procedimento: i Parlamenti nazionali e le Assemblee regionali traggono la loro legittimazione direttamente dal Trattato di Lisbona, sebbene non in vigore; gli interventi degli altri soggetti invece, sono qualificabili in termini di attività di lobbying. Il suddetto Protocollo annesso al Trattato di Amsterdam e attualmente vigente, comunque, non prevede un intervento diretto dei Parlamenti nazionali, bensì mediato attraverso la COSAC, in particolare nelle materie dell’ex III pilastro. Il riconoscimento del ruolo dei Parlamenti nazionali è avvenuto nella prassi, come assecondata dalla Commissione europea: dalla decisione di settembre 2006 di dare anticipata applicazione al meccanismo di trasmissione dei progetti comunitari alle Assemblee nazionali, queste ultime hanno fatto pervenire alla Commissione più di duecento rilievi relativi al rispetto della sussidiarietà.
Il Relatore ha concluso evidenziando il nesso esistente tra la fase di approvazione delle norme comunitarie, specialmente delle direttive, e la fase di attuazione. La mancata partecipazione alla prima, infatti, rende molto più complicato il recepimento.

Quindi è intervenuto il dott. Enrico MARTIAL, Segretario del gruppo di lavoro “Democrazia regionale” della CALRE, che ha analizzato il quadro giuridico e politico di riferimento per i Parlamenti regionali nell’Unione. In apertura delle relazione ha osservato criticamente che le Assemblee regionali sono considerate “parenti poveri” dei Parlamenti nazionali nell’ambito delle procedure decisionali comunitarie, sebbene alcune di esse siano dotati di potestà legislativa. Più precisamente in otto Stati membri le Assemblee regionali sono titolari di tale potere, ma solo in cinque di questi è presente una definizione puntuale del riparto delle competenze per materia tra Stato e Regioni. Spesso comunque l’esercizio della potestà legislativa da parte dei diversi livelli di governo non avviene in forma cooperativa ma secondo un modello competitivo. Si tratta, pertanto di un sistema complesso di gestione delle rispettive competenze, reso ancor più articolato dalla circostanza per cui lo Stato può cedere “quote di sovranità” all’Unione anche in materie che sono riconducibili alla competenza regionale. Così come il dott. Pierucci, anche il dott. Martial rileva che oltre il 70% della legislazione nazionale ha una provenienza comunitaria, soprattutto in alcuni settori, quali quello della concorrenza e degli appalti pubblici.
Il principio di sussidiarietà, che assegna una preferenza per l’attribuzione di competenze al livello di governo più prossimo al cittadino, è stato codificato per la prima volta in una norma di diritto primario dal Trattato di Maastricht (art. 5 TCE). Soltanto con il Trattato di Amsterdam, però, sono state definite compiutamente le modalità di gestione del principio e quindi le sue due accezioni, di strumento di partecipazione e di mezzo di controllo dell’osservanza del riparto delle competenze. A ridosso del Trattato di Amsterdam i Parlamenti regionali hanno iniziato ad acquisire consapevolezza del ruolo che potevano ricoprire: sono state organizzate due conferenze per avviare una seria riflessione sul punto. La prima è stata la Conferenza dei Presidenti delle Assemblee regionali a Stoccarda nel 1996; alla seconda, che ha avuto luogo ad Oviedo nel 1997, ha preso parte anche il Presidente del Parlamento europeo. Nella Dichiarazione adottata in quella occasione si sancisce la necessità di uno scambio di informazioni tra le Commissioni del Parlamento europeo e quelle dei Parlamenti nazionali e regionali. In particolare, si sarebbe dovuto instaurare un dialogo fra le Commissioni per le Questioni Europee delle varie Assemblee Legislative Regionali Europee con gli organi omologhi presso le Assemblee nazionali e la Commissione per lo Sviluppo regionale del Parlamento europeo. Tuttavia questo entusiasmo iniziale per la cooperazione si è poi smorzato: la CALRE si è riunita in seduta plenaria soltanto una volta all’anno.
Alla Conferenza di Madeira del 2001 si è discusso della futura Convenzione europea e della Dichiarazione di Laeken, alla quale in quella sede sono stati proposti numerosi emendamenti. Tre erano le principali richieste avanzate dai Parlamenti regionali: 1) la più chiara definizione del riparto delle competenze tra Unione e Stati membri (specie dietro le insistenze dei Länder tedeschi, molto attenti alla questione della cessione della potestà normativa e al tema della partecipazione regionale) e il consolidamento della presenza delle autonomie nel sistema istituzionale comunitario, raffinando la recente esperienza del Comitato delle Regioni; 2) l’avvio di forme di cooperazione con i Parlamenti nazionali nella “fase ascendente” e in quella “discendente”; 3) l’associazione delle Assemblee regionali dotate di poteri legislativi ai lavori della Convenzione europea, come richiedeva anche il Governo tedesco. Tuttavia, alla Convenzione partecipò una rappresentanza del Comitato delle Regioni. All’interno del consesso erano presenti anche i membri di quattro Parlamenti regionali: con l’accondiscendenza dei rappresentanti dei Parlamenti nazionali il Presidente di turno della Convenzione, l’on. Ana Palacio, ha disposto la riduzione della durata degli interventi in modo da concedere la parola ai componenti delle Assemblee regionali durante ogni seduta.
Si può ritenere che queste pretese dei Parlamenti regionali abbiano trovato soddisfazione nel testo del Trattato di Lisbona, sebbene essi tuttora lamentino l’esclusione dal circuito della COSAC e da quello dell’IPEX.

In seguito, ha avuto inizio il secondo ciclo di relazioni sugli strumenti operativi a disposizione dei Parlamenti e sulla loro facoltà di intervento nel processo decisionale. Il dott. Antonio ESPOSITO, Consigliere parlamentare presso la Camera dei deputati, ha esordito affermando che i Parlamenti nazionali tanto nella “fase ascendente” quanto in quella “discendente” possono rappresentare un modello di riferimento per le Assemblee regionali. Il coinvolgimento dei Parlamenti nazionali nelle procedure comunitarie è influenzato dall’articolazione delle stesse in “macro-fasi”: 1) quella dell’iniziativa regolativa, di cui la Commissione detiene tendenzialmente il monopolio, consiste nello studio della materia interessata, nell’avvio delle consultazioni necessarie e nell’analisi di impatto della proposta o di misure alternative ad essa; 2) la fase decisionale, nel corso della quale il Consiglio e il Parlamento europeo, secondo la procedura a cui si ricorre, esaminano e approvano la proposta; 3) la fase esecutiva, che può essere promossa dalla amministrazione comunitaria stessa e/o dalle amministrazioni nazionali. Come anticipato dal dott. Pierucci, la fase più indicata per un intervento dei Parlamenti nazionali e regionali è quella dell’iniziativa. I Parlamenti successivamente possono tentare di influenzare il proprio Governo (o il Presidente di un Esecutivo regionale) in sede di Consiglio o i parlamentari europei i quali si alleano in coalizioni mobili che variano secondo la proposta, prevalendo ora l’appartenenza politica ora quella nazionale. Storicamente la forza persuasiva delle Regioni sulle decisioni comunitarie è stata tutt’altro che trascurabile: si prenda ad esempio la vicenda relativa alla direttiva sulle offerte pubbliche di acquisto. Prima di giungere all’approvazione della direttiva vigente (n. 2004/25/CE), la Commissione aveva presentato una proposta respinta dal Parlamento europeo nel 2001 in sede di approvazione del progetto comune definito dal Comitato di conciliazione. Rispetto a quella votazione è stata ritenuta decisiva la capacità del Länder della Bassa Sassonia, che detiene il controllo di fatto della Volkswagen, di orchestrare un’opposizione al provvedimento. Inoltre, visto e considerato che il maggior numero di atti normativi comunitari è costituito da norme di rango secondario adottate dalla Commissione ai sensi dell’art. 211 TCE, le amministrazioni regionali dovrebbero partecipare assiduamente al fianco di quelle nazionali ai c.d. “Comitati di comitatologia”. Infatti, le politiche comunitarie si gestiscono sulla base delle misure di esecuzione di regolamenti e direttive messe a punto da tali Comitati.
Venendo ai Parlamenti nazionali, le modalità e l’intensità della loro partecipazione alle decisioni comunitarie dipende dalla combinazione di tre antinomie. A) Le Assemblee nazionali si trovano nella condizione di dover privilegiare ora la relazione con il proprio Esecutivo ora la volontà di instaurare un rapporto diretto con le istituzioni dell’Unione e, segnatamente, con la Commissione europea. Anche se si tratta di una prospettiva che semplifica la realtà, la dottrina e il Segretariato della COSAC hanno identificato tre modelli teorici di riferimento rispetto alle relazioni tra Parlamento ed Esecutivo durante il procedimento decisionale comunitario. Secondo il primo modello, detto “del mandato negoziale”, durante le citate fasi del decision-making dell’Unione e in particolare in quella di esame della proposta il Governo ha un obbligo politico e/o giuridico (come in Danimarca e in Ungheria) di attenersi al mandato conferito dal proprio Parlamento. Il Governo danese, ad esempio, è tenuto a consultare il Folketing prima delle riunioni del COREPER. Il secondo modello, detto “document based scrutiny”, come quello inglese, consiste nell’esame parlamentare delle proposte e dei documenti di consultazione della Commissione europea: l’Assemblea o i suoi organi si esprimono una tantum con un atto di indirizzo al Governo. Il terzo modello, qualificato come “misto”, si caratterizza per il fatto che il Parlamento esamina solo alcune delle proposte e dei documenti dell’Unione, spesso anche per diversi mesi, e ricorre sistematicamente a strumenti di controllo e di indirizzo. È il caso del Parlamento italiano, che può svolgere anche indagini conoscitive e audizioni ed effettua un esame approfondito dei progetti comunitari e dei Programmi di lavoro delle Istituzioni dell’Unione, specialmente di quello della Commissione. Su questi documenti e sulla Relazione annuale sulla partecipazione dell’Italia all’Unione la Camera e il Senato si pronunciano separatamente con atti di indirizzo nei confronti dell’Esecutivo, constatando frequentemente che il Governo non ha una posizione ufficiale sulla proposta e che, addirittura, in sede di Consiglio i Ministri manifestano orientamenti antitetici fra loro, come sulla proposta di direttiva “Bolkestein” nel 2005.
B) I Parlamenti nazionali, poi, a più riprese hanno dibattuto tra loro della spinosa questione del carattere collegiale (attraverso le sedi di cooperazione interparlamentare) o individuale del controllo sulle attività dell’Unione. Secondo il Relatore, sarebbe da scongiurare una collettivizzazione della loro partecipazione agli affari comunitari; da questo punto di vista, l’assenza dei Parlamenti regionali dalla COSAC non è necessariamente un elemento negativo, poiché il confronto che ha luogo in questo consesso avrebbe una scarsa rilevanza ai fini del decision-making nell’Unione.
C) I Parlamenti nazionali, infine, si interrogano e assumono posizioni spesso divergenti tra loro circa l’opportunità di svolgere l’esame sul merito dei progetti comunitari, quindi sulle priorità politiche della scelta regolativa o, invece, sulla loro conformità al principio di sussidiarietà, ossia sul rispetto del riparto di competenze. Da quando nel 2006 la Commissione europea praeter legem ha assecondato l’anticipata applicazione delle disposizioni del Trattato costituzionale, circa il 90 % dei pareri motivati delle Camere nazionali ha riguardato il merito delle proposte esaminate. Il Trattato di Lisbona, tuttavia, sembrerebbe costringere i Parlamenti nazionali entro il ruolo di “guarda-linee” del riparto delle competenze.

Successivamente ha preso la parola la dott.ssa Cecilia ODONE, membro del Comitato direttivo di Eurocooperation, che si è intrattenuta sul tema de “I Parlamenti regionali nella fase ascendente e discendente della legislazione dell’UE: gli strumenti a disposizione dei Parlamenti regionali, dai Trattati alla legge 11/2005”. La relatrice, in apertura del suo intervento, ha sottolineato la necessità che i Consigli regionali italiani svolgano un ruolo più incisivo sulla scena internazionale, ma senza appesantire i procedimenti decisionali. A tal riguardo, il profilo più delicato del coinvolgimento delle Regioni negli affari comunitari concerne la difficoltà di coordinare “i tempi della partecipazione regionale” con quelli nazionali, i quali, a loro volta, devono raccordarsi con i “tempi dell’Unione”.
A seguito della riforma costituzionale del 2001, ai sensi dell’art. 117, comma 5, Cost. le Regioni italiane partecipano tanto alla formazione quanto all’esecuzione delle decisioni comunitarie. Tale riconoscimento costituzionale è temperato dalla previsione, contenuta nel medesimo articolo, del “rispetto delle norme di procedura stabilite con legge dello Stato” da parte delle Regioni. Le leggi di procedura adottate dallo Stato in materia sono la legge n. 11 del 2005 e la legge n. 131 del 2003. La prima, regola la fase ascendente e discendente di formazione del diritto dell’Unione sia per il livello statale sia per quello regionale di governo; la seconda, di cui la dott.ssa Odone ha lamentato la non sollecita adozione (visto che reca le disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della repubblica alla l. cost. n. 3/2001), disciplina la partecipazione delle Regioni alla c.d. “fase ascendente diretta”. L’art. 5, comma 1, della “legge La Loggia”, infatti, garantisce ad esse la possibilità prendere parte alle delegazioni del Governo presso il Consiglio, limitatamente alle materie di loro competenza. Questa disposizione, che prevede la partecipazione regionale anche ai comitati della Commissione europea, ha trovato una piena applicazione soltanto dopo il raggiungimento di un accordo in sede di Conferenza Stato-Regioni nel 2006, a cui la legge del 2003 espressamente si riferisce, e a seguito dell’istituzione con legge 4 febbraio 2005, n. 11 del CIACE e dell’emanazione del D.P.C.M. del 9 gennaio 2006 sul suo funzionamento. Tale normativa ha ricevuto quindi una piena applicazione, sebbene la procedura di designazione degli esperti regionali all’interno delle delegazioni nazionali presso la Commissione e il Consiglio risulti ancora poco trasparente.
Quanto alla disciplina regionale, quasi tutte le Regioni si sono dotate di un “articolo europeo”, attraverso un rinvio operato dallo Statuto all’art. 117, comma 5, Cost. o riprendendo l’affermazione di principio in esso contenuta. Alcuni Statuti prevedono espressamente l’adozione della legge comunitaria regionale; il passaggio successivo è consistito nell’adozione delle leggi regionali di procedura, sul modello della legge n. 11/2005, che definiscono le finalità, i tempi, le modalità e gli organi coinvolti nell’intervento regionale. Hanno provveduto in questo senso il Friuli Venezia Giulia, la Valle d’Aosta, la Calabria, le Marche, l’Emilia-Romagna ( anche se la norma in questione dovrebbe essere modificata) e l’Umbria. Tuttavia, nelle leggi di procedura regionale la disciplina della fase ascendente è piuttosto scarna, specie con riferimento alla questione dei rapporti tra Consiglio e Giunta, probabilmente per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 239 del 2004, che riconoscendo in capo allo Stato la competenza a dettare le norme procedurali sulla partecipazione regionale alla fase ascendente (in aggiunta alla competenza concorrente sui “rapporti con l’Unione europea delle Regioni”), ha posto un freno al legislatore regionale. Ad ogni modo la normativa sulla partecipazione delle Regioni italiane alla fase ascendente ancora non trova piena applicazione né per quanto riguarda i Consigli né rispetto alle Giunte e necessiterebbe comunque di un intervento legislativo degli Enti regionali. Vi sono inoltre una serie di strumenti predisposti dal legislatore statale per la fase ascendente, a cui è bene far riferimento: innanzitutto l’art. 5, comma 1, della legge n. 11/2005 sulla trasmissione dei progetti comunitari alle Regioni da parte del Governo, il quale assicura ai Consigli un flusso di informazioni sulle attività dell’Unione che non ha eguali presso le altre Assemblee regionali europee; è essenziale, inoltre, che i Consigli inizino ad esercitare le loro funzioni di indirizzo e di controllo nei confronti delle Giunte anche rispetto alle questioni comunitarie e che inviino le loro osservazioni al Governo sulle proposte legislative dell’Unione; infine è bene che i Consigli sfruttino l’opportunità di prendere parte alle sedi di cooperazione tra Assemblee regionali a livello europeo.
Quanto alla fase discendente, per le Regioni essa si esaurisce nell’approvazione della legge comunitaria regionale, “costruita” sul modello definito dalla legge n. 11/2005 per quella comunitaria nazionale. Si garantiscono tempi certi per l’approvazione della legge comunitaria regionale attraverso la previsione di una data entro cui presentare il progetto di legge e la fissazione del termine entro cui approvarla. Sarebbe preferibile anche stabilire una tempistica per l’emanazione degli atti di rango secondario di attuazione delle direttive.

Quindi, il prof. Rosario FERRARA, ha presentato una relazione dal titolo “L’importanza del procedimento e il ruolo delle pubbliche amministrazioni nel processo decisionale” e ha iniziato il suo intervento citando gli scritti di autorevoli giuristi e di uno dei padri della Costituzione: Stefano Battini parlava di “Amministrazioni senza Stato”; Massimo Severo Giannini negli anni Settanta ha pubblicato un saggio sulla Rivista Trimestrale di diritto pubblico nel quale stigmatizzava il ruolo dei Consigli regionali e locali come meri organi di teatro; Lelio Basso già nel 1958 scriveva del Parlamento come de “Il principe senza scettro”.
Oggi per esaminare il ruolo delle pubbliche amministrazioni non si può prescindere dalla dicotomia europea governance-government. Sulla governance molto è stato detto anche da parte di Istituzioni e organismi comunitari, basta pensare al Libro bianco del 2001 sulla governance europea della Commissione (COM (2001) 428 def./2) e alla relazione del Comitato economico e sociale del 26 giugno 2002 sulla governance e la responsabilità sociale delle imprese. Se il government rappresenta la forma classica della gestione statale del potere, la governance è la forma di gestione collettiva dello stesso, da parte di gruppi e di singoli individui provenienti da istituzioni e associazioni: è la base del sistema di interferenze di cui si è parlato in precedenza. A tal proposito, non è un caso che rispetto alla legge acquisisca sempre maggior rilievo la contrattazione collettiva.
Secondo una parte dominante della dottrina, il 1992 ha segnato l’eclissi della concezione tradizionale di democrazia: si è passati da un sistema di governance nazionale in cui dominavano i Parlamenti ad un sistema di governance negoziale, di tipo internazionalistico-collaborativo, di cui è indicativa la cooperazione che si affermando tra Commissione europea e Parlamenti nazionali.
Per quanto concerne la fase ascendente di formazione del diritto comunitario e, segnatamente, le “maratone negoziali” che si svolgono in seno al Consiglio, Frank Petitville, Presidente dell’European Institute of Public Administration di Maastricht, ha dedicato uno studio comparato proprio alle posizioni assunte in quella sede dagli Stati membri. Dalle evidenze emerse si potrebbe sostenere, ad avviso del Relatore, che l’Italia si contraddistingue per “la politica del seggio vuoto invertito”, poiché partecipano alle riunioni del Consiglio anche tre Ministri, portatori ciascuno di un proprio punto di vista spesso inconciliabile con quello dei colleghi: il risultato è che l’Italia di frequente non assume una posizione netta rispetto alle proposte. Come evidenziato in dottrina, l’integrazione europea costituisce una cessione di quote di sovranità a favore degli Stati membri più forti, quelli che riescono a far valere i loro orientamenti.
Tutti i Paesi dell’Unione, comunque, si trovano a dover fronteggiare le stesse sfide, come l’ingresso di specifiche tecniche e tecnologie nel mondo della regolazione. Differente è la risposta che alcuni Stati hanno saputo fornire. A titolo di esempio, la Francia detiene una posizione di avanguardia per la formazione della propria classe politica sulle questioni comunitarie e le sue amministrazioni, anche quella del Consiglio di Stato, sono dotate di apposite “cellule comunitarie”. Grazie all’elevato livello di competenze tecniche possedute dalle sue amministrazioni, la legislazione francese in numerose materie, come in quella ambientale, ha lasciato un forte imprinting sulla normativa comunitaria. In Italia, al contrario, si assiste ad un preoccupante deficit di ruolo delle pubbliche amministrazioni e anche del Consiglio di Stato rispetto alla necessaria funzione di supporto al Governo nella trattazione degli affari dell’Unione. Per quanto concerne la fase discendente, l’indagine di Petitville rivela che l’Italia è l’unico Paese dell’Unione ad essere sprovvisto di una tecnostruttura centralizzata, non necessariamente facente capo allo Stato, deputata al controllo della compliance dell’ordinamento interno alle norme comunitarie. Un altro dato problematico è rappresentato dalla lentezza e dall’incertezza sull’esito delle procedure decisionali, dato che la necessità di raggiungere intese e accordi tra i diversi soggetti del sistema multilivello sposta in avanti il momento della decisione e spesso non assicura una chiara imputazione di responsabilità. Anche l’attuazione delle direttive comunitarie da parte delle Regioni presenta delle criticità. L’individuazione delle materie di loro competenza esclusiva è tutt’altro che pacifica: ad esempio non è chiaro se la tutela dell’ambiente, che è di dominio statale, ricomprenda anche la disciplina della caccia, che invece è di competenza delle Regioni. Al cospetto di una quadro così confuso, secondo il prof. Ferrara, la Corte costituzionale ha salvato l’Italia dal collasso e su di essa si è scaricato l’abnorme aumento del contenzioso tra Stato e Regioni dopo il 2001. La Consulta nella sentenza n. 303 del 2003, attraverso la c.d. “chiamata in garanzia” o “chiamata in sussidiarietà” è giunta persino a “rispolverare” la clausola dell’interesse nazionale e il principio del parallelismo di cui al vecchio testo dell’art. 118 Cost. Oggi, di fronte a questa giurisprudenza della Corte e al fallito tentativo di pacificazione dei rapporti tra Stato Regioni è indispensabile ridefinire il quadro costituzionale, in sostanza “tornare allo Statuto!”.

Il terzo ciclo di interventi sul tema de “la Cooperazione interparlamentare e i nuovi spazi politici” si è aperto con la relazione presentata dal dott. Andrea PIERUCCI su “la Commissione europea e la cooperazione interparlamentare: Parlamento europeo, Parlamenti nazionali e Parlamenti regionali, nella prospettiva dell’entrata in vigore del nuovo Trattato”. Il Relatore ha analizzato la posizione assunta finora dalle Assemblee nazionali e regionali nel sistema comunitario, rilevando come esse siano state tendenzialmente assimilate a lobbies. Tuttavia tale tipo di considerazione, a suo parere, non può essere valida, ancor oggi non rinvenendosi più una netta separazione tra democrazia europea, democrazia nazionale e democrazia regionale. Ciò si evince anche dalle procedure di riforma dei Trattati: se fino al Trattato di Maastricht si osservava la clausola di segretezza sulla conduzione dei negoziati, dopo il 1993 il Parlamento europeo ha sistematicamente informato i Parlamenti nazionali sullo stato delle trattative. Durante l’esperienza delle Convenzioni i Parlamenti nazionali e le Regioni hanno preso parte al negoziato. Nell’autunno del 2007, pur essendo stata convocata una Conferenza intergovernativa, le Assemblee nazionali e le Regioni hanno partecipato indirettamente alla stesura del Trattato di Lisbona, i primi grazie all’intermediazione dell’Assemblea di Strasburgo, le seconde attraverso l’omonimo Comitato.
Il Parlamento europeo è un attivo promotore della cooperazione interparlamentare: ad ogni seduta delle sue Commissioni assistono parlamentari nazionali e su alcuni temi, come sulle questioni del controllo e della riforma del bilancio, sono stati organizzati innumerevoli meeting interparlamentari. L’Assemblea di Strasburgo è anche membro della COSAC, la Conferenza delle Commissioni parlamentari specializzate negli Affari europei. Sebbene inizialmente sia servita a rimuovere la marcata diffidenza dei Parlamenti nazionali verso le questioni comunitarie, la Conferenza sconta oggi qualche ritardo a causa dell’evoluzione morfologica della cooperazione tra Parlamenti. Le Assemblee nazionali e regionali, infatti, preferiscono agire uti singulae nel contesto comunitario, perché tale modalità di intervento consente loro di conseguire più facilmente gli obiettivi perseguiti.
Inoltre, dal 2006 la Commissione europea, trasmettendo direttamente le proposte legislative e i documenti di consultazione ai Parlamenti nazionali, ha determinato delle conseguenze impreviste. Non ci si attendeva, infatti, un numero tanto elevato di rilievi presentati dai Parlamenti sui progetti comunitari. Secondo il dott. Pierucci, dato il consolidamento di questa prassi, la previsione del controllo sulla sussidiarietà prevista dal Trattato di Lisbona rappresenterebbe un tentativo di alcune forze del Parlamento e della Commissione europea di limitare la partecipazione delle Assemblee nazionali all’Unione, attribuendo loro esclusivamente il ruolo di sorvegliare sul riparto delle competenze. Da un punto di vista prettamente giuridico, difatti, i Parlamenti non diventeranno titolari di un vero e proprio potere, poiché le Istituzioni dell’Unione potrebbero anche decidere di non tenere conto dei loro pareri. Qualora il Trattato dovesse entrare in vigore, però, sarà necessario affrontare un complesso problema tecnico, quello della scelta delle modalità di trasmissione dei rilievi delle Camere nazionali al Consiglio e al Parlamento europeo. Se questo è un nodo da sciogliere a livello comunitario, stante l’assenza di una disciplina in proposito, qualche difficoltà potrebbe riscontrarsi anche a livello nazionale. Giacché il Trattato di Lisbona prevede il coinvolgimento nella fase ascendente anche delle Assemblee regionali dotate di poteri legislativi attraverso la consultazione svolta da ciascun Parlamento nazionale, in qualche ordinamento potrebbe essere necessario modificare la Costituzione, se questa non consente una tale partecipazione.
In conclusione, è possibile immaginare almeno due percorsi evolutivi del ruolo dei Parlamenti regionali nell’Unione. Scartata l’ipotesi del lobbying, dato che esse sono Assemblee democraticamente elette e nominate dagli stessi Trattati, potrebbero partecipare all’attività dell’Unione indirettamente, mediante l’intermediazione delle Giunte regionali o dei Parlamenti nazionali oppure in modo diretto, sfruttando le sedi di cooperazione tra Assemblee regionali istituite sinora. Se le forme di cooperazione tra Esecutivi, non solo il Comitato delle Regioni, ma anche la Conferenza delle Regioni marittime e periferiche, sono dotate di una certa capacità di influenza politica, quella dei Legislativi regionali appare in confronto assai modesta.

Quindi sono intervenuti il dott. Enrico MARTIAL e la dott. ssa Cecilia ODONE sulle prospettive di evoluzione della cooperazione interparlamentare a livello regionale e sul controllo della sussidiarietà. Il dott. Martial si è soffermato sul carattere ancora embrionale della cooperazione tra Assemblee regionali, che ad oggi non avrebbe ancora conseguito significativi risultati. Ha evidenziato, a titolo di esempio, che la CALRE si sta occupando essenzialmente della riforma del proprio regolamento interno. La firma nel 2008, da parte della Presidenza in esercizio, dell’accordo interistituzionale con l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha assorbito le attività delle Conferenza per almeno 4-5 anni. Il Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità annesso al Trattato di Lisbona, però, consente di ipotizzare nuovi scenari circa il rafforzamento del ruolo dei Parlamenti regionali nell’Unione. Anche per loro sussiste l’antinomia, già rilevata dal dott. Esposito, sulla prevalenza del controllo del merito delle proposte legislative o, piuttosto, del rispetto del principio di sussidiarietà. La posizione degli influenti Länder tedeschi in proposito è favorevole ad un esame del contenuto della proposta, prediligendo quindi una valutazione delle scelte politiche compiute dalla Commissione europea. Dello stesso avviso sarebbero i Presidenti dei Consigli regionali italiani. Ad ogni modo, è il Comitato delle Regioni l’organismo comunitario formalmente deputato a vigilare per conto delle Regioni sulla conformità degli atti dell’Unione al suddetto principio. Se i tentativi delle Assemblee regionali di effettuare un controllo sui progetti comunitari sono stati isolati, l’azione del Comitato sul punto è stata contrassegnata sinora da “esercizi” del tutto informali che hanno riguardato settori, come la politica dei giovani, piuttosto marginali nella vita dell’Unione. Il dott. Martial ha ritenuto opportuno segnalare un’importante iniziativa promossa dalla CALRE e prevista per il 14 novembre 2008, considerandola come anticipatrice di un rinvigorimento del ruolo dei Parlamenti regionali negli affari comunitari: la prima Conferenza delle Assemblee regionali sul cambiamento climatico. Infine, rispetto alle forme che la cooperazione interparlamentare regionale può assumere, il Relatore ha suggerito lo sviluppo di sedi di raccordo a geometria variabile: una sorta di “cooperazione rafforzata” per materia.
La dott.ssa Odone, invece, ha incentrato il suo intervento sulla partecipazione dei Consigli regionali italiani agli affari dell’Unione, rilevando criticamente l’assenza di un coordinamento tra il livello statale e il livello regionale di governo. Nei regolamenti interni di alcuni Consigli regionali sono state recentemente introdotte norme relative alle modalità e ai tempi di esame delle proposte legislative comunitarie e procedure ad hoc per l’esame del Programma legislativo annuale della Commissione europea. Si prevede l’assegnazione in sede referente a una delle Commissioni consiliari e in sede consultiva a tutte le altre, con la possibilità che la prima, acquisiti i pareri richiesti, si pronunci con atti di indirizzo alla Giunta. Specialmente con riguardo alla fase discendente e nonostante il ricorso alle leggi comunitarie regionali, secondo la Relatrice, è improrogabile una riforma del sistema dei rapporti tra Stato e Regioni, come dimostrato dalle numerose pronunce della Corte di giustizia a conclusione delle procedure di infrazione. Ad esempio, il 15 maggio 2008 (causa C-503/06) l’Italia è stata condannata per l’inadempimento della direttiva 79/409/CE, sulla conservazione degli uccelli selvatici, per aver consentito il mantenimento in vigore della legge della Regione Liguria del 5 ottobre 2001, n. 34. Nel dispositivo della sentenza si legge che lo Stato italiano si è limitato a trasmettere alla Corte la posizione della Regione interessata specificando che non intendeva farla propria e che, invece, condivideva quanto sostenuto dalla Commissione europea in sede di procedura di infrazione. Ci si può domandare, dunque, per quale ragione lo Stato italiano non è intervenuto per tempo, esperendo i rimedi previsti nell’ordinamento interno. Le Regioni sono tenute a dare attuazione alle direttive comunitarie come stabilito dalla Costituzione (art. 117, comma 5), dalla legge n. 131 del 2003 e dalla legge n. 11 del 2005. Il mancato rispetto di questo obbligo è compensato dalla previsione di un potere sostitutivo statale e dalla possibilità, introdotta di recente, di ricorrere in ultima ratio all’azione di rivalsa da parte dello Stato per irrogare sanzioni nei confronti delle Regioni inadempienti in caso di sentenza di condanna ai sensi dell’art. 228 TCE. Proprio al fine di evitare il frequente utilizzo di questo estremo rimedio il 24 gennaio 2008 è stato siglato un accordo in sede di Conferenza unificata tra il Governo e le Regioni sulle modalità di attuazione degli obblighi derivanti dall’appartenenza all’UE e sulle garanzie di informazione a carico del Governo. In quella sede sono stati definiti i diritti e i doveri reciproci degli Esecutivi statali e regionali. In particolare, si assicura alle Regioni il potere di richiedere la convocazione delle c.d. “riunioni pacchetto” con la Commissione europea, limitatamente alle materie di competenza regionale. In generale, si richiede al Governo di informare le Regioni e di fornire loro la documentazione ufficiale con riferimento alle procedure di infrazione che le riguardano. Infine, anche la dott.ssa Odone ha delineato le due principali direzioni verso cui si dovrebbe orientare il controllo sulla sussidiarietà da parte dei Consigli regionali: da un lato, dovrebbero adottare atti di indirizzo nei confronti delle Giunte, quando ammesse a negoziare all’interno della delegazione governativa presso il Consiglio dei ministri dell’Unione; dall’altro, dovrebbero coordinarsi con il Parlamento nazionale.

Hanno partecipato al dibattito conclusivo il dott. Paolo PIETRANGELO, Direttore della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome, e il prof. Giuseppe PORRO, membro del Comitato scientifico dell’Istituto Universitario di Studi Europei (IUSE). Il dott. Pietrangelo ha rilevato che gran parte di risultati raggiunti nell’ambito della cooperazione tra Consigli regionali è attribuibile anche all’attività interistituzionale svolta sinora, in particolare al contributo delle Camere e del Consiglio regionale dell’Emilia Romagna, che ha assunto un ruolo di apripista anche sul piano procedurale. Il Relatore ha osservato che la questione del coinvolgimento delle Assemblee regionali negli affari comunitari necessita di un’approfondita riflessione: nel quadro della multilevel governance è già piuttosto complicato l’esercizio della potestà legislativa da parte dei Consigli; ancora più arduo appare il loro inserimento nell’esame dei progetti comunitari durante la fase ascendente. Da un punto di vista letterale, poi, sussiste anche un ostacolo semantico: mentre il Protocollo sulla sussidiarietà annesso al Trattato di Lisbona si riferisce ai “Parlamenti regionali”, la Corte costituzionale italiana ha escluso che si possa ricorrere ad una simile denominazione per i Consigli regionali, sebbene si tratti di organi democraticamente legittimati. Riprendendo le considerazioni svolte dal dott. Esposito a proposito delle politiche comunitarie e della normativa di rango secondario, il Relatore ha constatato che anche a livello nazionale le politiche pubbliche non sono più gestite esclusivamente con legge e che è in atto un’espansione della potestà normativa degli Esecutivi: lo dimostrerebbe anche il fatto che la gran parte dei progetti di legge sono di iniziativa governativa o giuntale. Per quanto concerne il rapporto tra Regioni e ordinamento comunitario, a parere del dott. Pietrangelo si dovrebbe operare per un affrancamento delle stesse dalla posizione svilente di lobbies. Anche la configurazione dell’organismo di rappresentanza regionale per eccellenza nell’Unione, il Comitato delle Regioni, è per certi versi ancora poliedrica e in via di definizione: al suo interno siedono al contempo rappresentati di Regioni con milioni di abitanti e di Province con poche migliaia di abitanti e non è chiaro se il Comitato esprima soltanto una rappresentanza di tipo territoriale o anche di tipo politico.
È necessario procedimentalizzare la partecipazione dei Consigli regionali sulle questioni dell’Unione e raggiungere a tale scopo un’intesa istituzionale con le Giunte regionali. Così come è accaduto per la cooperazione tra Esecutivi all’interno della Conferenza Stato-Regioni, la cui attività sconta pure numerose criticità a partire dalla trasparenza delle sue procedure decisionali, si dovrebbe creare una rete di Assemblee. La Conferenza dei Presidenti dei Consigli regionali ha tenuto sino ad oggi un basso profilo, in attesa di una più chiara definizione delle competenze, anche attraverso il supporto del Parlamento italiano, e di una revisione dell’organizzazione interna delle Assemblee. In particolare si dovrà rendere più agevole per i Consigli l’accesso alle informazioni sull’attività dell’Unione, prevedendo anche la costituzione da qui al 2010 di una rete telematica tra Assemblee regionali europee sul modello dell’IPEX.
Il prof. Porro in apertura della sua relazione ha ricordato che il dibattito italiano sul potere di intervento nella fase discendente di formazione del diritto dell’Unione si è concluso con la vittoria delle Regioni. La Corte costituzionale nella sentenza n. 398 del 2006, sulla base di una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Governo nazionale (che reclamava la necessità di un intervento statale) ha riconosciuto come conforme a Costituzione la legge comunitaria della Regione Friuli Venezia Giulia, con la quale si dava attuazione a tre direttive comunitarie. Gran parte delle direttive, difatti, sono attuate dalle Regioni: si pensi alla “direttiva servizi” (n. 2006/123/CE) e alla direttiva sul cioccolato (2000/36/CE), che incidono fortemente sul dinamismo economico e sociale di una Regione. Il Relatore si è soffermato quindi sulla gravissima crisi di legittimazione che colpisce l’ordinamento comunitario e che sarebbe riconducibile, almeno in parte, al discredito gettato dai Governi di alcuni Stati membri sull’azione dell’Unione, quale ostacolo all’attuazione delle politiche nazionali. L’imputazione della responsabilità per il deficit democratico e per l’opacità dell’attività dell’Unione ai burocrati di Bruxelles sarebbe fuorviante. Semmai è necessario sfruttare lo spazio concesso alle “interferenze” dalle procedure decisionali comunitarie. A tal riguardo l’intervento dello Stato e delle Regioni rispetto alla formazione del diritto dell’Unione deve svolgersi nel quadro degli interessi nazionali, dovendo presentarsi come “sistema-Paese”. Il Prof. Porro ha suggerito di procedere con “interferenze selettive”, in modo da intervenire con decisione solo sulle materie realmente rilevanti.
Da ultimo, è intervenuto nuovamente il dott. ESPOSITO, che prendendo spunto dalle considerazioni conclusive del prof. Porro, ha ricordato la complessa vicenda italiana dell’attuazione della direttiva sul cioccolato. Al momento della presentazione da parte della Commissione europea della proposta di direttiva sul cioccolato (la seconda), tanto i soggetti istituzionali quanto i produttori italiani non hanno preso una chiara posizione sul punto, intervenendo in modo piuttosto blando nel dibattito europeo. Quando si è compreso che la direttiva avrebbe avvantaggiato i produttori belgi, consentendo di denominare come “cioccolato puro” anche quello in cui sono stati aggiunti accanto al burro di cacao anche altri grassi vegetali, era troppo tardi e si è reagito cercando di non trasporre la direttiva. Le conseguenze sono state l’avvio di una procedura di infrazione giunta sino al parere motivato e il tardivo recepimento della direttiva mediante l’approvazione di un emendamento alla legge comunitaria per il 2007 (legge n. 34 del 2008).

Cristina Fasone