L’Europa dei diritti- Resoconto convegno

16.05.2008

Venerdì 9 maggio 2008, presso la sede dell’Istituto Luigi Sturzo, nell’ambito del Comitato Nazionale “I Trattati di Roma”, è stato organizzato il seminario di studio sul tema de «L’Europa dei diritti».

Il prof. Andrea SIMONCINI, che ha moderato il dibattito, ha introdotto la nozione, di nuovo conio, di “politica europea dei diritti” e ha sollevato subito alcune questioni sul punto. Innanzitutto ha rilevato l’esistenza di diverse basi culturali da cui muovere per tutelare tali diritti e si è quindi interrogato sull’opportunità di un aggiornamento di questi fondamenti. Prima di lasciare la parola ai relatori, ha richiamato l’attenzione sulla coesistenza nell’ordinamento internazionale e in quello comunitario di una pluralità di custodi dei diritti fondamentali, in primo luogo le Corti costituzionali nazionali e la “Corte costituzionale europea”, vale a dire la Corte di giustizia dell’Unione europea.

Il prof. Andrea BIXIO, premettendo che il sistema comunitario dei diritti non è chiuso, ma che, al contrario, trae alimento dagli ordinamenti degli Stati membri, ha esaminato il retroterra giuridico sottostante alla concezione dei diritti fondamentali nell’Unione, le modalità di produzione degli stessi e l’esistenza di un loro fondamento assoluto o relativo.
In apertura del suo intervento, il relatore ha rilevato come nell’ordinamento comunitario sia possibile rintracciare i due tipi di statualità correntemente riconosciuti in dottrina, quella di tipo liberale e quella di tipo democratico. A tal riguardo, se si osserva il contenuto della Carta di Nizza è possibile rinvenire anzitutto una netta asimmetria nella tutela dei diritti di libertà, a discapito di quelli politici e sociali. Tale ampia piattaforma di diritti civili in assenza di un forte sistema di protezione dei diritti politici e in aggiunta ai limitati poteri di cui gode il Parlamento europeo rischiano di potenziare il ruolo della tecnocrazia e delle lobbies e di alimentare il deficit di democrazia. Tuttavia, sebbene la Carta dei diritti fondamentali sembri ancorata a una concezione individualistica (o libertaria) dei diritti, nell’Unione europea è diventata sempre più manifesta la capacità di condizionamento nelle decisioni dei gruppi di interesse, economici e sociali. Pertanto, l’ordinamento comunitario si ispira contemporaneamente anche al modello di Stato sociale corporativo affermatosi in Europa nel XX secolo, che attiene più propriamente alla concezione democratica della statualità. Con la Carta si è tentato di tenere in conto entrambi gli orientamenti, assegnando formalmente diritti agli individui ma producendo un “effetto corporativo”, giacché la fruizione di tali prerogative risulta più agevole in quanto si è collocati in un gruppo di interesse.
Per quanto concerne le modalità di creazione del diritto, a mezzo di cognizione, ossia attraverso la giurisprudenza delle Corti, e a mezzo di produzione, vale a dire tramite le istituzioni titolari della potestà legislativa, la Carta di Nizza è la risultante del “combinato disposto” fra positività e cognizione. Qualora si intendesse promuovere, sulla scorta dell’idea di Habermas, un “patriottismo costituzionale europeo”, allora sarebbe necessario limitare nell’Unione l’ambito di intervento del giudice comunitario, rimettendosi prevalentemente alla volontà del legislatore.
Il prof. BIXIO ha svolto poi alcune considerazioni in merito alla questione del fondamento dei diritti fondamentali. Richiamandosi al pensiero di Norberto Bobbio, il quale esclude l’esistenza di un loro fondamento assoluto, ha affermato di condividere la visione secondo cui in una prospettiva diacronica si assiste ad un mutamento della semantica dei diritti. Questi, infatti, sono da considerarsi come l’esito di un processo di positivizzazione dei bisogni avvertiti in società. Ad ogni modo, il relatore ha sottolineato che, nonostante la difficoltà di fornire i diritti di un fondamento proprio, è possibile presentare ulteriori osservazioni sul punto, data la rilevanza dell’argomento. In parziale difformità con la “definizione classica” dei diritti, si è sostenuto che essa non si addice propriamente ai diritti fondamentali: questi ultimi, infatti, non possono dirsi tali solo se è posto un obbligo corrispettivo simmetricamente ad essi. Altrimenti, si legittimerebbe una visione dei diritti fondamentali come meri strumenti per il calcolo delle azioni, per “parametrare” la propria condotta rispetto a quella dell’altro. In altri termini si asseconderebbe un’assimilazione dei diritti fondamentali ai diritti comuni. I primi, invece, non si prestano ad essere inquadrati all’interno del meccanismo della razionalità calcolante, che ordinariamente regola i rapporti reciproci, in special modo quelli di natura economica.

La Prof.ssa Marta CARTABIA ha ricostruito con metodo storico-evolutivo la parabola che ha caratterizzato l’ordinamento comunitario sul tema dei diritti e delle libertà fondamentali. Contrariamente a quanto si è potuto registrare nell’immediato secondo dopoguerra, quando sia a livello nazionale che internazionale la questione della tutela dei diritti dell’uomo era massimamente avvertita (ne sono un esempio la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 e la CEDU del 1950), le Comunità europee sono nate sprovviste di uno specifico sistema di garanzie in materia. Giacché, a giudizio della relatrice, è da escludersi che i padri fondatori non si siano posti il problema, una delle ragioni di tale mancanza può rinvenirsi nella limitatezza degli ambiti di azione delle Comunità e nella correlata assenza di una menzione del primato del diritto comunitario: la salvaguardia dei diritti fondamentali, pertanto, era considerata un “affare” di competenza delle Costituzioni nazionali.
Nel corso di cinquant’anni, però, la situazione si è completamente ribaltata, tanto è vero che rispetto alla trattazione delle problematiche inerenti ai diritti fondamentali oggi si riscontra un’attrazione delle stesse all’interno della sfera di influenza dell’ordinamento dell’Unione e la comparsa di aree di sovrapposizione con le Costituzioni nazionali. Due sono stati gli snodi principali di questo percorso progressivo: il primo punto di svolta, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, ha visto quale protagonista la Corte di giustizia; il secondo momento cardinale è stato rappresentato dalla prima proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel 2000.
Con riferimento al ruolo svolto dal giudice comunitario, dopo la sanzione del principio del primato del diritto comunitario (causa 6-64, sent. Costa c. ENEL del 15 luglio 1964) la Corte di Lussemburgo è stata sollecitata a più riprese dalle Corti nazionali affinché con le sue pronunce iniziasse ad assicurare una qualche forma di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali nell’ambito delle Comunità. Così nel “caso Stauder” del 1969 (causa 29-69, sentenza del 12 novembre 1969) la Corte di giustizia si è posta in un’ottica ricognitiva, affermando di voler tutelare i diritti ascrivibili alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Tale orientamento giurisprudenziale, tuttavia, è diventato viepiù recessivo rispetto al richiamo alla CEDU, operato sin dal “caso Nold” (causa 4/73, sentenza del 14 maggio 1974). Il cambiamento dei parametri di giudizio e il costante riferimento prima esclusivamente alla Convenzione, a cui aderivano tutti gli Stati membri delle Comunità, e poi anche alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha determinato un mutamento del contenuto dei diritti protetti. In questa fase, quindi, la Corte di giustizia, senza alcuna intenzione di sostituirsi alle Corti nazionali, ha tentato di coprire il vuoto nella tutela dei diritti fondamentali che si era creato dopo l’affermazione del primato del diritto comunitario. Ciò nondimeno l’idea di mantenere i due livelli di protezione rigidamente separati – la Corte di giustizia giudicava sugli atti comunitari mentre le Corti costituzionali e i giudici nazionali si preoccupavano degli atti di diritto interno – si scontrava col dato fattuale della crescente interpenetrazione tra ordinamento delle Comunità e ordinamenti dei Paesi membri. La Corte di giustizia, dal canto suo, ha cercato di limitare tale mancanza di flessibilità attraverso la dottrina c.d. “dell’incorporation”, che le ha consentito di procedere ad “incursioni” negli ordinamenti interni, estendendo il suo controllo anche sugli atti nazionali di esecuzione del diritto europeo.
Venendo al secondo snodo principale, la proclamazione della Carta di Nizza, con essa l’Unione è diventata una comunità di diritti fondamentali e si è operata una cesura netta rispetto agli indirizzi giurisprudenziali appena menzionati. La Corte di giustizia (la quale dal 2006 ha iniziato a riferirsi espressamente al testo della Carta, sebbene essa non sia ancora uno strumento giuridicamente vincolante), in precedenza criticata da più parti perché attraverso le sue pronunce sembrava sacrificare le ragioni dei diritti fondamentali a quelle economiche, ha iniziato a mutare atteggiamento. A titolo esemplificativo, nei casi “Schmidberger” (causa C-112/00, sentenza del 12 giugno 2003), “Omega” (causa C-36/02, sentenza del 14 ottobre 2004) e “Dynamic” (causa C-244/06, sentenza del 14 febbraio 2008) la Corte ha anteposto, rispettivamente, i valori della libertà di espressione, della dignità umana e della tutela dei minori al diritto alla libera circolazione delle merci e alla libera prestazione dei servizi. Essa ha mostrato, inoltre, una tendenza accentratrice nei confronti della tutela dei diritti fondamentali, ampliando il suo ambito di intervento in materie di competenza statale. Tale circostanza si è verificata nel “caso K.B.” (causa C-117/01, sentenza del 7 gennaio 2004) sull’esclusione di un convivente transessuale dal diritto a percepire la pensione di reversibilità, prestazione il cui godimento è riservato dalla legislazione britannica al coniuge superstite, e nel “caso Richards” (causa C-123-04, sentenza del 27 aprile 2006), concernente il rifiuto di concedere la pensione di vecchiaia all’età di 60 anni ad un transessuale che si è sottoposto ad un intervento chirurgico di conversione dal sesso maschile al sesso femminile – nell’ordinamento inglese, infatti, tale pensione è corrisposta all’età di 65 anni agli uomini e a 60 anni alle donne. In entrambi i casi, nonostante la materia previdenziale sia esclusa dal novero delle competenze dell’Unione, la Corte si è espressa e ha rinvenuto una violazione del divieto di discriminazione in base al sesso. Nella recentissima pronuncia sul “caso Tadao Maruko” (causa C-267/06, sentenza del 1 aprile 2008), giudicando ancora una volta su una materia che non è oggetto del processo di integrazione comunitaria, quella della previdenza sociale, ed equiparando la pensione di reversibilità ad una retribuzione, ha ritenuto confliggente col divieto di operare discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale la normativa tedesca sulle unioni solidali registrate, nella misura in cui esclude che a seguito di un’unione civile tra omosessuali il partner superstite possa beneficiare della pensione di reversibilità.
In conclusione la relatrice ha sottolineato come, a dispetto dell’ebbrezza generale con cui la Carta di Nizza è stato accolta in letteratura, pochi hanno saputo mettere in luce “i pericoli” che da tale documento potevano derivare. Se l’effetto centralizzatore che la Carta ha innescato, rendendo l’ordinamento comunitario il baricentro della tutela dei diritti fondamentali (da ultimo anche con l’istituzione nel 2007 dell’Agenzia europea dei diritti fondamentali, la quale, però, agisce mediante strumenti di soft law) può assumere una connotazione positiva, merita qualche osservazione, invece, la diversa ispirazione che soggiace a questo documento e, in particolare, alla giurisprudenza del giudice dell’Unione rispetto alla maggior parte delle Costituzioni nazionali e ad alcuni Trattati internazionali in materia. Si tratta di una questione di carattere sostanziale poiché, se la Costituzione italiana, quella tedesca e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 sono plasmate da una visione dignitaria dei diritti umani, la Corte di giustizia, al contrario, si ispira ad una concezione libertaria degli stessi. Ciò si evince anche da una sua recente pronuncia del 26 febbraio 2008 (“caso Sabine Mayr”, causa C- 506/06) riguardante il rapporto tra procreazione assistita e divieto di licenziamento (più specificamente una ex lavoratrice chiedeva di essere reintegrata nel posto di lavoro dopo essere stata licenziata a causa delle numerose ore di assenza necessarie per sottoporsi alle terapie mediche ai fini della procreazione assistita) in cui essa ha ritenuto che la fattispecie rientrasse tra i casi di discriminazione in base al sesso, quindi attinente alla sfera dei diritti civili, e che non afferisse, invece, al diritto previdenziale. Il progressivo spostamento della giurisdizione in materia di diritti fondamenti a livello comunitario, l’intervento della Corte di giustizia anche al di fuori della competenze dell’Unione (come in tema di procreazione assistita) e il peculiare orientamento che essa ha assunto nei giudizi rendono non indifferente “il trasferimento” della sede della tutela da Roma o da Karlsruhe a Lussemburgo.

Il prof. Ugo DE SIERVO in apertura della sua relazione ha presentato alcune considerazioni sul contenuto della Carta di Nizza e ha quindi affrontato la questione del rapporto fra la Corte di giustizia e le Corti costituzionali in tema di diritti fondamentali.
Il relatore ha inizialmente puntualizzato come la sua esperienza lo abbia condotto ad apprezzare il peso del diritto positivo e ad avvertire l’esigenza di una definizione più precisa dei contenuti, dei limiti e delle procedure di garanzia dei diritti. A tal proposito, ha segnalato che molte disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, a cui l’art. 6 TUE, come modificato dal Trattato di Lisbona, attribuisce la stessa forza giuridica dei Trattati comunitari, presentano un contenuto troppo generico, quasi indeterminato. Questo è il caso, ad esempio, dell’art. 6 della Carta, che, riconoscendo a ogni individuo il diritto alla libertà e alla sicurezza, riesce “nell’impresa” di associare fra loro due valori ritenuti normalmente l’uno il limite dell’altro e, altresì, dell’art. 38 sulla tutela dei consumatori, il quale omette di precisare cosa si intende per “elevato livello di protezione”. Con ogni probabilità spetterà al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Corte di giustizia specificare in modo puntuale il contenuto delle norme ricavabili da tali disposizioni. Inoltre, sebbene l’art. 51, comma 2, preveda che la Carta non modifichi le competenze dell’Unione e che, pertanto, le sue disposizioni non siano riconducibili all’interno dell’ordinamento comunitario, l’art. 52, comma 2, con formulazione piuttosto ambigua, afferma che i diritti in essa riconosciuti, qualora trovino fondamento nei Trattati dell’Unione, si esercitano alle condizioni e nei limiti definiti dagli Accordi stessi.
Ulteriori questioni da chiarire, poi, a parere del relatore, sono quelle del rapporto tra la Carta e la CEDU, da una parte, e tra la Carta e le tradizioni costituzionali degli Stati membri, dall’altra. Sul primo punto, l’art. 52, comma 3, stabilisce che, laddove i diritti contenuti nella Carta corrispondano a quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla Convenzione, ammettendo però che il diritto dell’Unione possa concedere una protezione più estesa. Dalla lettura di tale ultima disposizione non si comprende quale sia il parametro di paragone tra le due Carte, al fine di applicare, caso per caso, quella che assicura la protezione più ampia di una certa fattispecie, con ricadute negative quanto al profilo della certezza del diritto per i cittadini dell’Unione. Circa il rapporto tra la Carta di Nizza e le tradizioni costituzionali nazionali, l’art. 53, sul livello di protezione, vieta che le disposizioni della Carta possano essere oggetto di un’interpretazione meno garantista dei diritti rispetto a quella fornita dalle Costituzioni degli Stati membri. Tale riferimento agli ordinamenti nazionali, tuttavia, può suscitare alcune perplessità, riscontrandosi una grande varietà nei livelli di tutela da Paese a Paese: in materia di garanzia della riservatezza della corrispondenza, ad esempio, l’art. 7 della Carta si limita a sancire genericamente il diritto di ogni individuo al rispetto delle sue comunicazioni; l’art. 15 della Costituzione italiana stabilisce una doppia riserva, assoluta di legge e di giurisdizione, mentre in molti Stati membri e, segnatamente, nella CEDU non è assicurata la riserva di giurisdizione. Un eguale riflessione può svolgersi nei confronti dell’art. 11 della Carta, sulla libertà di espressione e di informazione, che appare di gran lunga più laconico rispetto all’art. 21 della Costituzione italiana. Ci si potrebbe interrogare, quindi, su quale diritto prevalga, se quello interno, quello della Carta o quello della CEDU.
Affrontando successivamente la spinosa questione dell’ampliamento della competenze comunitarie, il prof. DE SIERVO ha rilevato che, sebbene esse siano state razionalizzate dal Trattato di Lisbona, è possibile osservare un progressivo sconfinamento dell’Unione anche negli ambiti propri del diritto civile e di quello penale. Tale attrazione di competenze in capo all’UE è condizionato principalmente dal ricorso alle c.d. “clausole di elasticità”, che impongono l’assunzione delle decisioni all’unanimità in seno al Consiglio. A titolo di esempio, l’art. 81 TFUE (nella versione consolidata), in caso di ratifica dei Trattati, consentirà all’Unione di adottare misure relative al diritto di famiglia aventi implicazioni transnazionali soltanto a seguito di un procedimento aggravato che prevede un coinvolgimento, tra gli altri, anche dei Parlamenti nazionali, titolari di un potere di veto. Con riferimento ad altre materie, specie quelle a competenza concorrente e per le quali non si prescrive alcun onere procedurale ulteriore, si riscontra comunque uno slittamento (probabilmente) non consapevole dell’Unione verso una competenza piena. Le modalità tramite le quali si consegue l’ampliamento della sfera di influenza dell’UE non sono in ogni caso assimilabili a quelle che connotano il momento costitutivo degli Stati federali, laddove per lo più organi a composizione mista definiscono con chiarezza il riparto delle competenze tra livelli di governo.
Inoltre, preoccupazioni sono state espresse riguardo all’attivismo della Corte di giustizia, la quale sempre più spesso condiziona anche l’avvio di processi di riforma costituzionale. Nel 2001, ad esempio, la Germania è stata costretta ad emendare la sua Legge fondamentale sulla scorta di una sentenza del giudice comunitario, che ha ritenuto contrario al principio della parità di trattamento tra uomo e donna la limitazione del reclutamento femminile nelle forze armate solo ad alcuni ruoli.
Per quanto concerne il rapporto tra diritto comunitario e internazionale, da una parte, e giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, dall’altra, la Consulta nell’ultimo anno ha mostrato un’indiscutibile apertura nei suoi orientamenti: a seguito del primo rinvio pregiudiziale operato dal giudice costituzionale italiano alla Corte di giustizia (con ordinanza n. 103 del 13 febbraio 2008), la Corte italiana nella sentenza n. 102 del 15 aprile 2008 ha disposto la sospensione del giudizio limitatamente a quei profili per cui si attende la pronuncia del giudice di Lussemburgo; in precedenza, nelle sentenze n. 348 e 349 del 2007, essa si era già espressa sul valore della CEDU nell’ambito dei giudizi di legittimità costituzionale.
A conclusione del suo intervento, il relatore ha osservato come l’indeterminatezza del contenuto di alcune disposizioni tanto dei Trattati comunitari quanto della Carta di Nizza sta assecondando l’estensione del novero della materie sulle quali la Corte di giustizia si pronuncia; al contempo, tuttavia, la Corte costituzionale italiana non può reagire alle sentenze del giudice comunitario invocando la nota teoria c.d “dei controlimiti”, elaborata, piuttosto, quale argine all’esercizio della funzione legislativa da parte delle istituzioni dell’Unione. Semmai è possibile richiamarsi alla sentenza n. 349 del 2007 della Corte costituzionale, nella quale, pur riconoscendo che i diritti fondamentali, in particolare quali risultano dalla CEDU, fanno parte integrante dei principi generali del diritto comunitario, si è precisato che il primato dei diritto comunitario non può essere fatto valere negli ordinamenti interni quando tali principi si riferiscono a fattispecie che esulano dalle competenze dell’Unione.

Il seminario si è chiuso con l’intervento del prof. SIMONCINI, che ha ricordato come Luigi Sturzo, sin dalla fine degli anni Venti, abbia visto negli “Stati Uniti d’Europa” tutt’altro che un’utopia, bensì un percorso concreto da svolgersi per tappe successive, giungendo a preconizzare la nascita di un’unione doganale. In particolare, il nucleo centrale di tale unione sarebbe dipeso dalla volontà dei due Stati antagonisti, Francia e Germania, di raggiungere un accordo: nella costruzione dell’Europa unita, dunque, si è partiti dall’economia ma si voleva la pace. Oggi, però, al cospetto della questione dei diritti fondamentali il processo di integrazione comunitaria si trova dinanzi ad un bivio. La direzione che si deciderà di intraprendere rivestirà un’importanza determinante per la legittimazione dell’Unione in una fase in cui il fallimento dei “processi costituenti comunitari” e l’assenza di trasparenza nella redazione del Trattato di riforma rischiano di favorire l’ascesa della tecnocrazia.

Cristina Fasone