Tar Lazio, sez. III ter, 17 luglio 2008, n. 7279 – La determinazione del lucro cessante in caso di aggiudicazione illegittima: novità giurisprudenziali

08.04.2008

Consiglio di Stato, sez. V, 13 giugno 2008, n. 2967;

Tar Lazio – Roma, sez. III, 2 luglio 2008, n. 6366;

 Tar Lazio, sez. III ter, 17 luglio 2008, n. 7279.

Il tema della determinazione del danno nel caso di gara d’appalto illegittimamente aggiudicata rappresenta da tempo un nodo problematico per la giurisprudenza, soprattutto in considerazione dell’esigenza di specificare i criteri di liquidazione del danno ingiusto che il giudice amministrativo è tenuto ad applicare nell’alveo della cognizione devolutagli dall’art. 35 del D. lgs. 80/1998 (come modificato dall’art. 7 della L. n. 205/2000).
Tra le due voci componenti il danno risarcibile (ex art. 1223 c.c.), mentre la determinazione del danno emergente è stata ancorata, pacificamente, alle spese sostenute dall’impresa esclusa per partecipare alla gara, l’individuazione dei criteri per quantificare il lucro cessante è stata oggetto di dispute giurisprudenziali.
Tradizionalmente, la giurisprudenza aveva fatto ricorso al meccanismo presuntivo di forfetizzazione del danno previsto dall’art. 345 della L. n. 2248/1865, all. F, successivamente ripreso dall’art. 122 del d.P.R. n. 554/1999 in tema di recesso unilaterale della p.a. dal contratto di appalto di opere pubbliche, ed infine recepito dall’art. 134 del D. lgs. n. 163/2006, che fissava, in generale, il margine di profitto lucrato dall’appaltatore nella misura del 10% del prezzo posto a base di gara.
Pertanto tale criterio, circoscritto dal legislatore al solo danno cagionato dal recesso della p.a., veniva applicato in via analogica dalla giurisprudenza anche nel caso di aggiudicazione illegittima, in considerazione del difficile onere gravante sul privato, il quale, in mancanza di criteri presuntivi, avrebbe dovuto dimostrare il mancato accrescimento della sua sfera patrimoniale nella misura che avrebbe raggiunto se il provvedimento amministrativo riconosciuto illegittimo non fosse stato adottato.
L’applicazione di tale meccanismo automatico di forfetizzazione del lucro cessante costituiva ius receptum nella giurisprudenza amministrativa di gran lunga dominante fino agli arresti giurisprudenziali in questa sede segnalati.
Il primo di questi interventi, in ordine di tempo, è costituito dalla sentenza del Consiglio di Stato del 13 giugno 2008, n. 2967, con la quale è stato criticato il ricorso al criterio del 10% del prezzo a base d’asta, a titolo di danno presunto ed in via equitativa.
Secondo i giudici di Palazzo Spada “tale riferimento, pur evocato come criterio residuale in una logica equitativa, conduce di regola al risultato che il risarcimento dei danni è per l’imprenditore ben più favorevole dell’impiego del capitale. In tal modo il ricorrente non ha più interesse a provare in modo puntuale il danno subito quanto al lucro cessante, perché presumibilmente otterrebbe di meno”. Viene, invece, indicato come preferenziale “l’indirizzo minoritario che esige la prova rigorosa, a carico dell’impresa, della percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell’appalto; prova desumibile, in primis, dall’esibizione dell’offerta economica presentata al seggio di gara”.
La seconda sentenza, Tar Lazio – Roma, sez. III, 2 luglio 2008, n. 6366, ha ulteriormente sviluppato gli enunciati contenuti nella citata sentenza del Consiglio di Stato, chiarendo specificamente il rapporto tra il criterio presuntivo del 10% e il criterio dell’offerta economica effettiva.
In particolare, il Tar ha affermato che “per la determinazione del lucro cessante, il criterio primario è quello della misura prevista dal concorrente medesimo nell’offerta o nella sua disaggregazione analitica costituita dalle giustificazioni degli elementi costitutivi della stessa o di qualsiasi altro atto o documento, mentre la misura massima del 10% è residuale”. Sulla base della considerazione che, come già rilevato dai giudici di Palazzo di Spada, “il criterio previsto dall’art. 345 della L. n. 2248/1865 all. F […] deve essere inteso come un criterio generale di quantificazione del margine di profitto dell’appaltatore nei contratti con l’Amministrazione. Tale forma di forfetizzazione del danno assume una funzione residuale e non può pertanto in alcun modo essere automaticamente riconosciuta al soggetto leso dal comportamento dell’Amministrazione, in quanto un simile modus operandi risulterebbe in contrasto con il principio che impone al ricorrente nei giudizi risarcitori di provare l’entità del pregiudizio subito nonché comporterebbe il pericolo che all’impresa danneggiata possa essere riconosciuta una sorta di overcompensation in violazione della regola della risarcibilità del danno effettivamente sofferto di cui all’art. 1223 c.c”.
Orbene, in relazione a tale profilo, tale pronuncia ha già iniziato ad avere un seguito nell’ambito della giurisprudenza dei Tar ed è destinata, con ogni probabilità, a divenire lo spartiacque ideale di un mutamento di indirizzo giurisprudenziale nella tematica in questione.
A conferma di ciò, pochi giorni dopo la sua pubblicazione, le sue argomentazioni più significative sono state riprese ed approfondite dal Tar Lazio, sez. III ter, nella sentenza del 17 luglio 2008, n. 7279.
Il Tar ha ribadito il principio in virtù del quale “per la determinazione del lucro cessante, nel caso di risarcimento dei danni per mancata aggiudicazione di una gara di appalto, il criterio primario da seguire è proprio quello della misura prevista dal concorrente nell’offerta o nella sua disaggregazione analitica costituita dalle giustificazioni degli elementi costitutivi della stessa”. Precisando, altresì, che “tale misura dell’utile non conseguito risulta idonea a coprire anche il pregiudizio consistente nel non avere potuto partecipare ad altre procedure ad evidenza pubblica; in linea di principio, infatti, ove l’impresa non documenti di non avere potuto utilizzare mezzi e maestranze per lo svolgimento di altri servizi, si procede ad una riduzione in via equitativa del danno risarcibile. Essendosi fatta un’applicazione elastica del criterio dell’aliunde perceptum (cioè dell’utile alternativo che l’impresa può avere acquisito svolgendo prestazioni incompatibili con quella che avrebbe dovuto eseguire, ove si fosse aggiudicata l’appalto), la cui prova, secondo quanto già esposto, grava sull’impresa, deve ritenersi incluso nel mancato utile d’impresa anche il c.d. “danno curriculare”, consistente nel pregiudizio subito dalla società a causa del mancato arricchimento del curriculum professionale per non potere indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto, sfumata a causa del comportamento illegittimo dell’Amministrazione”.
In conclusione, come si evince dalla giurisprudenza passata in rassegna, è auspicabile che il nuovo criterio di liquidazione del lucro cessante divenga nuovo ius receptum, sia perché risulta più rispondente alla realtà dei fatti, poiché attribuisce una funzione meramente residuale al criterio presuntivo del 10%, sia perché valorizza la cognizione piena devoluta al giudice amministrativo, che costituisce attributo proprio e non rinunciabile della giurisdizione amministrativa dopo l’entrata in vigore del D. lgs. n. 80/1998, a maggior ragione, dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004.

a cura di Filippo Lacava