MARCO DI FOLCO, La garanzia costituzionale del potere normativo locale. Statuti e regolamenti locali nel sistema delle fonti fra tradizione e innovazione costituzionale, CEDAM, 2007

14.01.2008

1. L’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, di riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, ha determinato, come noto, una profonda revisione dei rapporti tra livelli di governo e della posizione delle autonomie locali, e delle loro fonti, nel sistema repubblicano.
Pur a fronte di un quadro costituzionale ampiamente mutato, basti pensare alla distanza che intercorre tra la nuova e la vecchia formulazione dell’art. 114 Cost., l’ordinamento e il sistema istituzionale non sempre paiono però aver tratto, o essere intenzionati a trarre, tutte le conseguenze che, esplicitamente o implicitamente, discendono dal testo costituzionale.
In questo quadro, risulta quindi particolarmente interessante uno studio, quale quello in esame, volto espressamente a verificare se tra l’assetto ante riforma, e quello successivo alla revisione del Titolo V, vi sia una cesura, tale da giustificare (ed imporre) una rilettura dei rapporti tra Stato ed autonomie “in termini almeno parzialmente innovativi rispetto al passato” (p. 2). Una questione che Di Folco analizza ponendo al centro della sua riflessione, come già è chiaro dal titolo del suo lavoro, in modo specifico le fonti espressione del potere normativo locale: fonti che trovano ora una esplicita, e però “imperfetta”, garanzia costituzionale.

2. Il lavoro si segnala, già nella sua prima parte, per una significativa attenzione al metodo scientifico: l’individuazione del tema è impostata nelle pagine iniziali, per essere quindi meglio definita alla luce di una ricostruzione (introduttiva, ma già sufficientemente ampia) degli sviluppi, in primo luogo normativi, che hanno interessato il sistema delle autonomie.
L’evoluzione del sistema ordinamentale è colta in una chiave prospettica che parte dalle prime teorizzazioni precostituzionali relative ai concetti di autarchia ed autonomia ed alla genesi del potere normativo locale, passando poi attraverso almeno tre stagioni di progressiva valorizzazione, specie dottrinale, del principio autonomistico così come radicato nella Costituzione repubblicana del 1948. In questi passaggi Di Folco è efficace nel sintetizzare, pur operando inevitabili selezioni, l’evoluzione di un dibattito decisamente articolato che ha coinvolto una fetta consistente della migliore dottrina, costituzionalistica ed amministrativistica, italiana.
E’ interessante, e di sicura utilità formativa per quanti non avessero avuto modo di confrontarsi già con la diretta lettura di questi autori, l’analisi che attraverso rapidi accenni ripercorre le tappe della “valorizzazione dottrinale delle autonomie locali”: partendo dalla prima (pp. 140 ss.), che si lega ai nomi di Giannini, Esposito, Crisafulli, nonché Benvenuti, passando per la seconda, in merito alla quale sono viste come particolarmente rilevanti le tesi di Berti, Sandulli, Pizzetti, Pubusa. Tesi, peraltro, come l’autore non manca di segnalare, tra loro talvolta dissonanti, frutto di impianti legati a volte ancora a “presupposti tradizionali”. La ricchezza del dibattito dottrinale ben emerge dalla lettura delle pagine che Di Folco dedica a questo periodo che va dall’ultima parte degli anni ’60 del secolo scorso fino all’approvazione della legge sulle autonomie locali del 1990 (che si pone, in quest’opera ed in via generale, quale vero spartiacque normativo in materia). Nel selezionare i principali autori meritevoli di attenzione, l’autore ne tralascia altri che pure hanno dato un significativo contributo alle ragioni delle autonomie: è un rischio però inevitabile, specie a fronte della ricordata ricchezza del dibattito dottrinale.

3. Con l’approvazione della legge n. 142, seguendo l’andamento dell’analisi di Di Folco, il legislatore diviene il nuovo “motore” di una innovazione altrimenti vista come legata essenzialmente all’evoluzione delle riflessioni dottrinali: si apre in particolare, con la legge sull’autonomia locale, una nuova stagione per le fonti normative dei “minori” enti territoriali, cui si accompagnano slanci teorici volti a vedere sempre più nella competenza, anziché nella gerarchia, la chiave interpretativa del rapporto tra le fonti di autonomia e la legislazione, statale ed anche regionale. Qui i contributi scientifici sono vari, e di segno diverso, tendenti peraltro ad escludere, almeno in via maggioritaria, tesi, pure evocate, miranti ad assegnare alle fonti statutarie locali una sfera di attribuzioni esclusiva ed inderogabile. La tesi prevalente, pur tra oscillazioni e posizioni parzialmente diverse, appare quindi quella della “subprimarietà”, ma in un panorama che va, come detto, dal disconoscimento del criterio gerarchico, fino al riconoscimento del fatto che questo continua a mantenere piena cittadinanza nel sistema, specie alla luce della (allora) immutata disposizione contenuta nell’art. 128 Cost.
L’evoluzione della riflessione della dottrina è però sempre più, inevitabilmente, legata al procedere delle riforme in senso autonomistico di cui si fa portatore, almeno a seguire le grandi leggi di sistema che caratterizzano il decennio degli anni ’90 del secolo scorso, il Parlamento: la legge n. 59 del 1997 (cd. Bassanini 1) segna in questo scenario un momento decisamente significativo, anche perché la stessa riforma costituzionale del 2001 sarà spesso letta, anche alla luce dei processi che hanno legato le riforme per via ordinaria a quelle per via costituzionale, in continuità con questa. Un rapporto, quello tra riforma “ordinaria” riforma costituzionale, che peraltro l’autore tende ad allentare: gli interventi legislativi degli anni ’90 hanno operato nel senso della realizzazione piena delle potenzialità insite nel testo costituzionale ante riforma, piuttosto che nel senso della “anticipazione” della successiva riforma costituzionale (spec. p. 174).

4. La ricostruzione, ampia e ragionata, di Di Folco, conduce quindi alla parte conclusiva del suo lavoro (il cap. III, pp. 168 ss.), nella quale l’autore arriva a confrontarsi, con tutto l’armamentario teorico discendente da una così ampia analisi specie dottrinale, con il riformato quadro ordinamentale che poggia, da un lato, sul Testo unico degli enti locali, d.lgs. n. 267 del 2000, nel quale giungono a coronamento, e sono posti a regime, i processi riformatori “per via ordinaria” di cui si è poc’anzi detto, ma che si fonda soprattutto, dall’altro lato, sulla modifica costituzionale che ha interessato il Titolo V della Parte II della Costituzione.
Alla domanda posta inizialmente dall’autore, circa la prevalenza degli elementi di continuità o di quelli di cesura, viene quindi data risposta attraverso un’analisi che si centra sul riconoscimento e la garanzia del potere normativo dell’ente locale dopo la riforma costituzionale. Risposta che varia, peraltro, (come avremo modo di evidenziare e pur tra tratti comuni) se prendiamo a riferimento la potestà statutaria o piuttosto la potestà regolamentare locale.
Il che significa anche, come evidenzia l’autore, sviluppare la riflessione di chi un ventennio fa individuava nelle insufficienze del (previgente) Titolo V e nella sua inattuazione legislativa le ragioni della “(allora) asfittica condizione delle minori istituzioni territoriali” (p. 170, con riferimento alla tesi di G.C. De Martin): mutato il quadro costituzionale è ora, realmente, in grado di svilupparsi appieno, in tutte le sue conseguenze, il principio autonomistico insito nell’art. 5 della Costituzione?
A prendere sul serio, come non può non essere, la riforma del Titolo V, sembrerebbe naturale rispondere positivamente, così come parrebbe doveroso orientarsi verso un mutato (sia in chiave qualitativa che quantitativa) ruolo delle fonti di autonomia locale, in particolare nella prospettiva del pieno sviluppo delle conseguenze di una autonomia effettiva, vale a dire in quella di una differenziazione su base locale. La riforma costituzionale pone, quindi un punto di non ritorno (Di Folco parla di irretrattabilità, p. 174) rispetto alle pregresse elaborazioni dottrinali più evolute emerse in ordine al valore autonomistico, così come in relazione all’inveramento del principio dell’art. 5 Cost. operato dalla legislazione nel decennio 1990-2000.

5. L’abrogazione dell’art. 128 Cost. è, in questa chiave di lettura, un elemento particolarmente significativo: complessivamente intesa, è però la “rottura” di un ordinamento delle autonomie locali uniforme l’elemento decisivo nella prospettiva di una reale apertura ad una differenziazione locale che costituisca effettiva espressione della potestà statutaria (in primis) e regolamentare locale. Salvo che, sia inteso, a fronte della perdita del generale carattere unitario ed uniformante della legislazione statale, circoscritta come è, o come parrebbe essere, alle tre submaterie di cui all’art. 117, co. 2, lett. p) Cost., non si finisca per riconoscere una centralità della legislazione regionale in materia di ordinamento locale.
Esito, quest’ultimo, valutato criticamente da Di Folco, se è vero, come pare indubitabile, che gli enti locali ne vedrebbero diminuiti, anziché aumentati, gli spazi di autonomia garantita: mentre il vecchio art. 128 prevedeva una disciplina sì statale, ma generale e di principio, dell’ordinamento locale, tali garanzie verrebbero meno (p. 180-181), ora, laddove si riconoscesse una piena competenza regionale (salve le tre submaterie statali) a dare disciplina legislativa alla materia.
Il quadro che si pone all’interprete è, come si sa, complesso: la compresenza di fonti statali, regionali, locali (statutarie e regolamentari) in materia di ordinamento locale lascia spazi di manovra necessariamente circoscritti per le disposizioni poste da ciascun livello di governo, ma senza che ne discendano univoche risposte interpretative in relazione al rapporto reciproco ed al “contenuto minimo” da assicurare alle previsioni locali.

6. Come ravvisa Di Folco, questa (almeno apparente) irriducibile complessità è espressione anche della coesistenza, nel riformato testo costituzionale, di elementi di segno opposto: così, ponendo al centro dell’attenzione la potestà statutaria locale, la “compresenza di elementi che sembrano operarne una completa e significativa valorizzazione” e, d’altra parte, di profili che “valgono a ridimensionare questa iniziale impressione”, delineano lo scenario di una disciplina costituzionale “sospesa tra conservazione e innovazione” (p. 184).
Nel senso della valorizzazione, troviamo quindi: la previsione costituzionale della potestà statutaria locale, la sua collocazione nello stesso art. 114, co.2, che si affianca alla stessa proclamazione dell’autonomia degli enti territoriali (e, quindi, quale elemento costitutivo della nuova “qualità” dell’autonomia territoriale, secondo una “omogeneità di genus” che, almeno in questo, accomuna le fonti fondamentali degli enti locali a quella delle Regioni), la comune sottoposizione al rispetto dei principi fissati dalla Costituzione (formulazione che parrebbe di primo acchito escludere la possibilità di una interposizione del legislatore). Di segno opposto, però: la “laconicità” delle disposizioni costituzionali (che si limitano a prevedere tale potestà statutaria, ma nulla dicono in merito al procedimento di approvazione, ai contenuti, all’ambito di competenza), che finisce per depotenziare ciascuno degli elementi innovativi poc’anzi ricordati. L’assetto delle competenze legislative in materia pare, inoltre, escludere la reale “solitudine” dello Statuto locale di fronte ai principi costituzionali (aspetto, questo, che pone significative criticità anche rispetto alla prima accennata presunta omogeneità di genus tra statuti locali e regionali).
E’, quindi, analizzando il rapporto, desumibile in primis dalla Costituzione formale (e però anche dal suo effettivo sviluppo e la sua attuazione, attraverso la legislazione e la giurisprudenza), tra fonti eteronome (statali e regionali) e fonti di autonomia locale, che possiamo realmente comprendere il “posto”, nel sistema, dello statuto, e quindi dei regolamenti, degli enti locali.

7. La riflessione dottrinale, estremamente ricca, fornisce non una, ma più risposte: come segnala Di Folco, anzi, tale dibattito successivo alla riforma del Titolo V “sembra sin qui aver toccato […] tutte le opzioni interpretative astrattamente ipotizzabili con riferimento agli statuti locali” (p. 187). Si tratta, quindi, di fonti secondarie, subprimarie, o primarie, soggette e in che misura legate alle fonti statali ed a quelle regionali? Appaiono, come ben segnala l’autore, poco convincenti quelle ricostruzioni che, esaltando i “limiti” presenti nel testo costituzionale, finiscono per privare di ogni innovatività la formulazione dell’art. 114 Cost. ed addirittura per svuotare quelle garanzie (deboli ma comunque) che le minori autonomie locali conoscevano nel “pariforme sistema” affermato dall’ormai abrogato art. 128 Cost.
Se questo è vero, è però non pacifico sostenere anche il carattere pienamente “primario” della maggiore fonte locale, tesi della quale l’autore non manca sin dall’inizio di segnalare il carattere “indubbiamente suggestivo” nel nuovo quadro costituzionale. Di Folco non rinuncia, peraltro, a questa sfida: se la riforma del Titolo V è, come dovrebbe essere, una “cesura”, allora merita davvero di essere percorsa la strada della primarietà della fonte statutaria. Qui Di Folco si lega alla teorica di una dimensione organizzativa, in ordine alla quale le istanze della differenziazione (e qui della stessa riserva alla fonte statutaria) risultano più forti nel testo costituzionale: l’autore individua, in particolare attraverso una via indiretta (passando per la disciplina della potestà regolamentare, di cui all’art. 117, co. 6, e sulla base di un ragionamento a fortiori) una riserva in materia organizzativa a favore degli statuti e delle fonti di autonomia locale (p. 200).

8. Riscontrato l’ambito materiale (l’organizzazione interna), che vale per i regolamenti e quindi per gli statuti, Di Folco si impegna nel senso di escludere, in questo campo, un “libero concorso eteronomo con la fonte legislativa statale e regionale” (che, evidentemente, priverebbe la potestà normativa locale di una garanzia costituzionale sostanziale): esclusa la competenza statale (che invero, con le precisazioni di cui nel prosieguo, può incidere sull’organizzazione dell’ente, ma limitatamente agli organi di governo, ai sensi della lettera p) dell’art. 117, co. 2, Cost.), si presenta come “più delicata” la questione del possibile intervento regionale (p. 204).
Qui la clausola di residualità, che giustificherebbe un intervento regionale in tutti i campi dell’ordinamento locale non demandati a legge dello Stato, viene letta alla luce dell’art. 114 Cost., e quindi di quel principio paritario, o di equiordinazione, cardine concettuale della riforma, che mal tollererebbe di essere svuotato di contenuto attraverso nuovi modelli latamente gerarchici (ancorché su base regionale).
Leggere l’art. 114 alla luce dell’art. 117, co. 2 (e, quindi, della clausola di residualità), porterebbe altresì ad esiti opposti, ma qui Di Folco è netto nell’escludere un percorso argomentativo volto ad utilizzare “una disposizione costituzionale sulla distribuzione delle competenze normative per giungere ad un’interpretazione svalutatativa di quella che si è avuto modo di definire la norma fondamentale” (l’art. 114, co.1, appunto: p. 205). Il tutto è convincente, anche se va confrontato con una realtà nella quale la stessa Corte costituzionale si è avventurata in percorsi argomentativi non meno arditi, come quando ha utilizzato una disposizione in materia di allocazione delle funzioni amministrative per ridefinire il riparto di competenze legislative.

9. L’autore procede, quindi, a definire un’area (l’organizzazione, appunto), come totalmente riservata alla competenza statutaria, e regolamentare, locale: qui il rapporto tra l’art. 114, co. 2, e l’art. 117, co. 2, lett. p), solo a fatica può essere ricostruito sulla base di un criterio esclusivamente di competenza, che vorrebbe eliminata ogni “interferenza” fra organi di governo (la cui disciplina è rimessa espressamente alla legge statale) e organizzazione interna (di competenza delle fonti di autonomia locale).
Il nodo concettuale della persistenza, o meno, di tracce gerarchiche assume talvolta caratteri gordiani, e Di Folco di conseguenza cerca un percorso “laterale”, che consenta se non di scioglierlo, di tagliarlo: la teoria della norma interposta viene quindi utilizzata per giustificare la persistenza di un’area, che si voglia o no attiene all’organizzazione dell’ente, in cui lo Stato mantiene la possibilità di adottare una normativa uniforme che in ultima istanza conforma necessariamente taluni caratteri organizzativi delle autonomie minori. Una via scivolosa, percorsa nel tentativo di garantire la “pienezza” di una primarietà della fonte statutaria peraltro, come segnala più avanti lo stesso autore, comunque “immatura” in termini di garanzie costituzionali.
Forse, nel quadro di un testo costituzionale che, comunque lo si legga, presenta inevitabilmente alcune lacune, è talvolta necessario ammettere alcuni gradi di imperfezione nei “modelli”, pena il rischio di alcune forzature.
Sia come sia, attraverso il percorso di cui si è detto e quindi salvando il carattere “pienamente primario” degli statuti, Di Folco arriva ad individuare una garanzia costituzionale della potestà statutaria locale che è completa nei confronti della legislazione e della regolamentazione regionale, così come nei confronti della legislazione e della regolamentazione statale, salvo però il caso di una disciplina legislativa (che in sostanza ricalcherà, in un ambito materiale però più circoscritto, i caratteri della disciplina “uniforme” prevista dal precedente art. 128 Cost.) nelle materie di cui alla lettera p) dell’art. 117, co. 2: rispetto a quest’ultima, la garanzia opererà quindi “secondo un modulo di concorrenza e non di separazione” (p. 217).

10. Diverso il discorso per la potestà regolamentare, cui l’autore dedica una riflessione non meno attenta, il cui campo materiale si estende alle funzioni proprie e a quelle conferite: il rapporto tra legge (statale e regionale) e regolamenti locali, infatti, “non si atteggia ad una rigida separazione delle competenze” (p. 267).
Senza che sia possibile qui ripercorrere le conseguenze, che l’autore analizza, di questi approdi interpretativi, merita in chiusura dedicare qualche notazione di ordine generale ad un tema, complessivamente inteso, di così grande interesse. Un interesse che discende non tanto dall’attuale assetto della attuazione legislativa del disegno costituzionale (quadro nel quale, in attesa del cd. Codice delle autonomie, si segnala in modo particolare la l. 131 del 2003 cui viene, nell’opere, dedicata specifica attenzione), ma dalla stessa difficoltà di mettere a sistema il disegno prefigurato dal legislatore della riforma costituzionale: una difficoltà che è ben mostrata da Di Folco nella terza parte del suo lavoro, dove il lettore è spesso guidato a confrontarsi con alcune assenze, talune aporie, certe contraddizioni.
La sentenza n. 303 del 2003, sulla quale l’autore si sofferma al fine di indagarne le potenziali ricadute in termini di competenza statutaria e regolamentare locale, appare solo un passaggio di un confronto tra le esigenze dell’uniformità e quelle della differenziazione che sta rendendo vieppiù mobile quel delicato, controverso e non per tutti soddisfacente, equilibrio che pareva fissato nel testo costituzionale così come riformato dalla legge cost. n. 3 del 2001. Le ragioni dell’autonomia, anche alla luce del cattivo utilizzo che troppo spesso ne è stato e ne viene fatto, paiono sempre più spesso recedere di fronte ad istanze unitarie che trovano, in particolare attraverso l’interpretazione del giudice delle leggi, percorsi sempre nuovi: in questo scenario è particolarmente utile quel lavoro dottrinale che mira, in un panorama con pochi approdi certi, a porre alcuni validi punti di riferimento, come fa Di Folco attraverso il suo contributo.

recensione a cura di Enrico Carloni