L’espressione in house providing identifica il fenomeno di “autoproduzione” da parte della Pubblica Amministrazione, che acquisisce un bene o un servizio attingendoli all’interno della propria compagine organizzativa senza ricorrere a “terzi” tramite gara (c.d. esternalizzazione) e dunque al mercato.
Per un legittimo affidamento in house è necessario che concorrano i seguenti due elementi: a) l’amministrazione aggiudicatrice deve esercitare sul soggetto affidatario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi; b) il soggetto affidatario deve svolgere la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di appartenenza.
In ragione del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività”, l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa (principi affermati dalla Corte di giustizia a partire dalla sentenza Teckal del 18 novembre 1999, C-107/98).
L’assenza della partecipazione pubblica totalitaria esclude in radice la possibilità di configurare il requisito del “controllo analogo” richiesto dalla giurisprudenza comunitaria per gli affidamenti in house.
La Corte di Giustizia ha, infatti, escluso che possa sussistere il controllo analogo in presenza di una compagine societaria composta anche da capitale privato (Corte di giustizia, 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle; 11 maggio 2006, C-340/04).
La giurisprudenza comunitaria ha, inoltre, riconosciuto che la partecipazione pubblica totalitaria è elemento necessario, ma non sufficiente, per integrare il requisito del controllo analogo, essendo necessari maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente pubblico rispetto a quelli previsti dal diritto civile:
– il consiglio di amministrazione della s.p.a. in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale;
– l’impresa non deve aver «acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo» dell’ente pubblico e che può risultare, tra l’altro, dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutto il territorio nazionale e all’estero (Corte di giustizia, 13 ottobre 2005, C-458/03, Parking Brixen.; 10 novembre 2005, C-29/04, Mödling; anche Cons. Stato, V, 30 agosto 2006 n. 5072, ha escluso il controllo analogo in presenza della semplice previsione nello statuto della cedibilità delle quote a privati);
– le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante (in questo senso, anche Cons. Stato, V, 8 gennaio 2007 n. 5).
I requisiti dell’in house providing, costituendo un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, devono essere interpretati restrittivamente (Corte di Giustizia, 6 aprile 2006, C-410/04). L’in house non costituisce dunque un principio generale, prevalente sulla normativa interna, ma è un principio derogatorio di carattere eccezionale che consente, e non obbliga, i legislatori nazionali a prevedere tale forma di affidamento.
In relazione ai lavori pubblici, e in particolare il settore dei beni culturali, alcuna previsione normativa interna consente il ricorso all’affidamento in house. Deve, quindi, ritenersi che l’affidamento diretto non può che concernere il servizio relativo alla valorizzazione, e non anche, in difetto di specifiche norme derogatrici, le attività di progettazione, conservazione e manutenzione. Tali attività, infatti, non sono sicuramente ascrivibili alla valorizzazione, con la conseguenza che esse non possono essere affidate in house in assenza di espressa disposizione di legge, idonea a consentirlo.
L’annullamento della deliberazione con cui si è proceduto all’illegittimo affidamento diretto dei servizi di progettazione, conservazione, manutenzione, documentazione e catalogazione dei beni culturali non può essere considerato pienamente satisfattivo delle pretese dei ricorrenti, in quanto la restituzione della chance in forma specifica a seguito delle gare che l’Ente locale dovrà bandire in esecuzione della decisione giurisdizionale opera solo dal momento della pubblicazione della sentenza di annullamento del giudice.
La deliberazione ha quindi avuto una esecuzione almeno parziale nel periodo intercorrente tra la sua adozione ed il momento della pubblicazione della sentenza e per tale periodo possono residuare profili risarcitori.
La perdita della chance di partecipare alle gare costituisce, quindi, un danno che si pone in rapporto di diretta consequenzialità con l’illegittimo affidamento dei menzionati lavori.
Il privato danneggiato può invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile, mentre spetta all’Amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.
In assenza di discrezionalità o in presenza di margini ridotti di essa, le presunzioni semplici di colpevolezza saranno più facilmente configurabili, mentre in presenza di ampi poteri discrezionali ed in assenza di specifici elementi presuntivi, sarà necessario uno sforzo probatorio ulteriore, gravante sul danneggiato, che potrà ad esempio allegare la mancata valutazione degli apporti resi nella fase partecipativa del procedimento o che avrebbe potuto rendere se la partecipazione non è stata consentita.
Al giudice spetterà, quindi, valutare, in relazione ad ogni singola fattispecie, la presunzione relativa di colpa, che spetta poi all’Amministrazione vincere.
Non può in alcun modo essere ritenuto scusabile il comportamento dell’Amministrazione – e ciò conduce a ritenere sussistente l’elemento della colpa –, che ha proceduto agli affidamenti diretti in violazione della richiamata giurisprudenza comunitaria (già esistente al momento degli affidamenti) e nonostante un invito rivoltole dall’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato ad «…adottare iniziative idonee a rimettere in concorrenza le attività di manutenzione ordinaria e di restauro dei beni culturali, anche mediante una procedura ad evidenza pubblica…».