La Corte si è recentemente pronunciata sulla natura e sulla portata dell’art. 64 dell’Accordo euromediterraneo con la Tunisia. La questione riguardava un cittadino tunisino che, ammesso al ricongiungimento familiare per un periodo di tre anni a partire dal 24 settembre 2002 perché coniuge di una cittadina tedesca, si era visto limitare a posteriori al 23 giugno 2004 il proprio permesso di soggiorno poiché nel frattempo era venuto meno il legame coniugale. Il sig. Gattoussi lamentava il fatto che la restrizione del permesso di soggiorno gli impediva di svolgere la propria attività lavorativa fino al termine previsto dal contratto (31 marzo 2005) nonostante egli fosse in possesso di un permesso di lavoro a tempo indeterminato, creando in tal modo – a suo dire – una discriminazione vietata dall’art. 64 dell’Accordo.
Nel risolvere i quesiti, la Corte si è basata prevalentemente su una sua precedente pronuncia, la sentenza del 2 marzo 1999, Nour Eddline El-Yassini c. Secretary of State for the Home Department, causa c-146/96, con la quale, mentre riconosceva l’effetto diretto in capo all’art. 40, primo comma, dell’Accordo CEE-Marocco, affermava che l’interpretazione di detta norma non osta a che uno Stato membro neghi ad un cittadino marocchino la proroga del permesso di soggiorno, essendo venute meno le condizioni iniziali alla base di tale diritto, nonostante ciò impedisca a costui di proseguire la propria attività lavorativa che era stato autorizzato ad esercitare dallo Stato stesso. In quella circostanza, la Corte aggiungeva però che a soluzione diversa dovrebbe pervenire il giudice nazionale ove «tale diniego avesse l’effetto di rimettere in discussione, non sussistendo motivi connessi alla tutela di un interesse legittimo dello Stato, quali l’ordine pubblico, la sicurezza e la sanità pubblica, il diritto all’esercizio effettivo di un’attività lavorativa conferito all’interessato da tale Stato mediante un permesso di lavoro regolarmente rilasciato dalle autorità nazionali per una durata superiore a quella del permesso di soggiorno» (punto 67). In altre parole, la Corte negava che lo svolgimento di un’attività lavorativa conferisca di per sé ad un cittadino marocchino un diritto di soggiorno, a meno che tale attività non sia oggetto di un permesso di lavoro e per tutta la durata dello stesso. Si noti che, nel caso di specie, il sig. El-Yassini non era provvisto di un vero e proprio permesso di lavoro: più semplicemente, le autorità britanniche avevano rimosso il divieto di svolgere un’attività lavorativa che accompagnava l’autorizzazione a fare ingresso nel Regno Unito.
Nella sentenza in oggetto, la Corte ha innanzitutto riconosciuto che l’art. 64 dell’Accordo con la Tunisia è formulato in termini «quasi identici» (punto 26) rispetto a quelli dell’art. 40 dell’Accordo con il Marocco; essa ha altresì aggiunto che il complesso stesso dei due Accordi è affine per natura e per oggetto. Ebbene, per le stesse ragioni per le quali aveva ritenuto che l’art. 40 dell’Accordo con il Marocco fosse dotato di effetto diretto, la Corte riconosce un medesimo effetto in capo all’art. 64 dell’Accordo con la Tunisia.
In secondo luogo, la Corte si pronuncia sulla portata di detta ultima norma e, accostando i fatti in causa a quelli oggetto della precedente sentenza El-Yassini, richiama le considerazioni fatte in quest’ultima. In particolare, la Corte afferma che l’art. 64 dell’Accordo con la Tunisia, al pari dell’art. 40 dell’Accordo con il Marocco, non impedisce ad uno Stato membro di limitare il diritto di soggiorno di un cittadino tunisino, pur autorizzato a fare ingresso nel territorio dello Stato e a svolgervi un’attività lavorativa. Ma – essa aggiunge, respingendo gli argomenti contrari del governo tedesco – ciò non significa che lo Stato possa impedire ad un cittadino tunisino di invocare il divieto di discriminazioni previsto dallo stesso art. 64. In altre parole, la Corte conferma che il mero esercizio di un’attività lavorativa non dia ad un cittadino tunisino il diritto di soggiornare in uno Stato membro, ma pure che a soluzione opposta dovrebbe giungersi ove l’attività lavorativa sia oggetto di un permesso di lavoro e fino alla scadenza dello stesso. Rispetto all’analoga sentenza El-Yassini, peraltro, la Corte aggiunge che un principio siffatto dovrebbe valere a fortiori qualora, come nel caso in oggetto, lo Stato membro abbia ridotto i termini del permesso di soggiorno ex post, non limitandosi, come era nel caso del cittadino marocchino, a rifiutarne la proroga.