La Commissione Europea censura la disciplina italiana in tema di esercizio dei poteri speciali nelle società privatizzate.

29.11.2006

La Commissione Europea ha formulato un parere motivato[1] sulla disciplina italiana in tema di esercizio dei poteri speciali nelle società privatizzate.
Oggetto di attenzione della Commissione è una vicenda che aveva già dato luogo alla sentenza della Corte di Giustizia 23 maggio 2000 (in causa C-58/99) in cui il giudice comunitario aveva dichiarato contrarie alle norme del Trattato in tema di libertà di circolazione dei capitali e di libertà di stabilimento, alcune disposizioni della legge 30 luglio 1994, n. 474 con la quale era stato convertito in legge, con modificazioni, il d.l. 31 maggio 1994, n. 332.
Le disposizioni soprarichiamate prevedevano, infatti, che tra le società, direttamente o indirettamente controllate dallo Stato, operanti nei settori della difesa, dei trasporti, delle telecomunicazioni, delle fonti di energia e degli altri servizi pubblici dovevano essere individuate quelle per le quali, prima di ogni atto da cui potesse determinarsi la perdita del controllo pubblico, dovevano essere introdotte nei relativi statuti delle clausole che attribuivano al Ministero dell’Economia la titolarità di uno o più poteri speciali.
Lo Stato italiano, per conformarsi alle indicazioni della Corte di Giustizia, aveva modificato, con legge 24 dicembre 2003, n. 350, l’articolo 2, comma 1, del d.l. 332 del 1994, sostituendo la precedente disciplina nella quale si prevedeva una «procedura di autorizzazione» (controllo ex-ante) con un «diritto di opposizione» (controllo ex-post) e ridefinendo i cd. «poteri speciali». Inoltre, la legge 350/2003 ha previsto che i criteri per l’esercizio di tali poteri speciali dovevano essere individuati con DPCM il quale doveva limitarne il relativo utilizzo ai soli casi di pregiudizio agli interessi vitali dello Stato.
Tali criteri sono stati individuati con DPCM del 10 giugno 2004 con il quale si stabilisce che, fermo  restando il rispetto dei principi dell’ordinamento interno e comunitario (e tra questi in primo luogo del principio di non discriminazione), i poteri speciali possono essere esercitati “esclusivamente ove ricorrano rilevanti e imprescindibili motivi di interesse generale, in particolare con riferimento all’ordine pubblico, alla sicurezza pubblica, alla sanità pubblica e alla difesa, in forma e misura idonee e proporzionali alla tutela di detti interessi”(articolo 1, comma 1 e 2).
Più in particolare, la disciplina introdotta stabilisce che i poteri speciali sono esercitati in relazione al verificarsi di un grave ed effettivo pericolo:
1)      di una carenza di approvvigionamento nazionale minimo di prodotti petroliferi ed energetici,
2)      di una carenza nell’erogazione dei servizi connessi e conseguenti e, in generale, di materie prime e di beni essenziali alla collettività, nonché di un livello minimo di servizi di
telecomunicazione e di trasporto;
3)      di continuità di svolgimento degli obblighi verso la collettività nell’ambito dell’esercizio di un servizio pubblico, nonché al perseguimento della missione affidata alla società nel campo delle finalità di interesse pubblico;
4)      per la sicurezza degli impianti e delle reti nei servizi pubblici essenziali;
5)      per la difesa nazionale, la sicurezza militare, l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica e per emergenze sanitarie.
La Commissione ritiene però che, nonostante le modifiche introdotte, la normativa italiana preveda ancora dei controlli ingiustificati sull’assetto proprietario delle società privatizzate e sulle relative decisioni di gestione, dal momento che i criteri delineati dal DPCM 10 giugno 2004 risultano vaghi ed indeterminati ed accordano alle autorità pubbliche ampi poteri discrezionali in ordine all’apprezzamento della sussistenza del pregiudizio agli interessi vitali dello Stato che rendono difficile un ricorso giurisdizionale efficace contro le decisioni su di essi fondate.
Maggiori informazioni sulle procedure di infrazione promosse contro gli Stati membri sono disponibili al seguente indirizzo Internet: http://europa.eu.int/comm/secretariat_general/sgb/droit_com/index_en.htm

[1] Il parere motivato costituisce, ai sensi dell’articolo 226 del Trattato CE, la seconda fase della procedura di infrazione che la Commissione può avviare nei confronti di uno Stato membro inadempiente agli obblighi previsti dal diritto comunitario. Qualora le risposte fornite dalla Stato italiano non dovessero risultare soddisfacenti, la Commissione decidere di presentare ricorso alla Corte di Giustizia.
a cura di Luigi Alla