Dalla legislazione come attività prescrittiva alla legislazione come attività direttiva – Resoconto convegno

13.11.2006

Modena, 10 novembre 2006

Il 10 novembre 2006 si è tenuta presso la Fondazione “Collegio San Carlo” di Modena una giornata di studi sul tema “Dalla legislazione come attività prescrittiva alla legislazione come attività direttiva”, all’interno del ciclo di seminari dal titolo “Istituzioni e dinamiche del diritto”, organizzato dal dipartimento di scienze giuridiche dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia e dalla prefettura di Modena.

In apertura dei lavori, il prof. VIGNUDELLI ha ricordato i cicli di seminari degli anni precedenti, presentando anche il volume che raccoglie gli Atti dei seminari 2004. Ha successivamente dato lettura della lettera inviata dal Ministro per i rapporti con il Parlamento e le riforme istituzionali, on. Chiti, che, non potendo essere presente di persona a causa del Consiglio dei Ministri in corso, ha comunque voluto portare il suo saluto all’organizzazione ed ai partecipanti ai lavori della giornata.

Il rettore dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, prof. PELLACANI, ha richiamato la costante apertura dell’Ateneo ai cambiamenti dell’economia e della società che ha determinato evoluzioni sia nella didattica che nella ricerca. Ha anche ricordato il proficuo rapporto che l’università ha costruito con la Prefettura, esperienza che è ha portato a interscambi positivi per entrambe le istituzioni. Un esempio della proficua collaborazione è rappresentata anche dalla possibilità per gli studenti di effettuare tirocini presso l’Ufficio territoriale del Governo.

Sul punto, il prefetto di Modena, dott. FERORELLI, ha evidenziato come la efficace collaborazione si è estesa anche ad altri soggetti del territorio, come le istituzioni bancarie e le associazioni del mondo produttivo, che hanno sponsorizzato l’evento.

La parola è poi passata al sen. prof. BALDASSARRI, già Viceministro dell’economia, che, venendo al tema oggetto della giornata di studio, ha sottolineato la necessità di un approccio interdisciplinare, senza il quale sarebbero insufficienti gli apporti della scienza giuridica e di quella economica, ove mancasse uno sforzo di sintesi comune.
Il rapporto tra Stato e mercato, e la definizione del confine tra essi, risulta essere un problema centrale nell’affrontare la generale questione del rapporto tra libertà e regole. La recente evoluzione globale ha tuttavia reso incerti i confini degli Stati e inesistenti quelli dei singoli mercati (si pensi all’azione di organizzazioni quali il Fondo monetario internazionale o l’Organizzazione mondiale del Commercio). Parallelamente è tornato in rilievo il ruolo delle comunità locali e dei contesti più prossimi ai cittadini, corrodendo da un punto di vista speculare l’elemento della sovranità.
Un dato ulteriore che ha contribuito a rendere necessaria una rilettura dei confini è stato sicuramente l’avanzata dirompente della tecnologia. Se a partire dalla nascita di Cristo l’umanità viveva cicli che duravano cinquecento anni (nascita di cristo, caduta dell’impero romano, anno Mille, scoperta dell’America), l’accelerazione delle “ere umane” determinata dalla tecnologia ha fatto sì che ormai si arrivasse al modello cd. delle “generazioni sovrapposte”, sia per gli squilibri che esistono tra le varie aree del mondo, sia per l’enorme possibilità di trovarsi in ritardo rispetto alle complesse sfide che la modernità pone innanzi.
La “seconda era” del Novecento, iniziata con la Seconda guerra mondiale, più che con la caduta del muro di Berlino è terminata con la caduta del “muro di Pechino”, ovvero con l’apertura della Cina al mondo occidentale. L’entrata a far parte della Cina all’OMC rappresenta infatti una questione epocale, che rompe millenni di isolamento e di separazione tra le due metà del globo. Bisognerà cercare di rispondere alle criticità che si presenteranno via via nell’evoluzione di questo nuovo contesto globale, anche cercando di porre rimedio ad alcuni errori che fin qui sono stati sottovalutati, ma che possono portare conseguenze enormi dal punto di vista economico, come la mancata sottoposizione della valuta cinese a qualsiasi tipo di vincolo, tanto che questa può fluttuare a beneficio dell’economia cinese a seguito di una scelta puramente politica.
Per tornare ad un livello più concreto, anche richiamando la sua recente esperienza politica, il relatore ha accennato alla legge finanziaria in discussione in questi giorni in Parlamento, la cui analisi pone nuovamente la questione di una opzione politica tra scelte individuali e scelte collettive. La scelta, ad esempio, di una maggiore tassazione a fini redistributivi, tende a limitare le scelte dei singoli per dare la possibilità di un maggiore agilità di manovra al decisore politico.

Dopo che il prof. VIGNUDELLI ha presentato il nuovo ciclo di seminari sul tema della divisione dei poteri, la prima sessione dei lavori del convegno è iniziata con l’intervento del prof. SORRENTINO, che è intervenuto sulle tecniche di produzione normativa.
Il relatore ha innanzitutto tracciato un quadro costituzionale del sistema delle fonti, sottolineando come la centralità della legge in questo ambito si sia venuta gradualmente erodendo rispetto all’impostazione del 1948.
Il testo della Costituzione infatti delinea in più punti una supremazia della legge rispetto alle altre fonti. Non solo l’art. 70, ma è poi la fitta rete di riserve di legge ad esaltare questo punto. Il procedimento di approvazione (“articolo per articolo e poi nella votazione finale”) sottolinea invece la “solennità” dell’atto legislativo. Successivamente gli artt. 76 e 77 Cost. evidenziano la eccezionalità dell’intervento normativo primario del Governo. Anche la mancata disciplina costituzionale sul potere regolamentare è una ulteriore affermazione della centralità della legge.
Tuttavia, nell’evoluzione storica dell’ordinamento si è assistito ad una serie di sviluppi che hanno portato ad un consistente allontanamento dal quadro delineato. In primo luogo con l’attenuazione del principio della riserva di legge, sia in considerazione della sua satisfabilità mediante atto con forza di legge, sia attraverso la relativizzazione delle riserve di legge. Quest’ultimo fenomeno è particolarmente interessante ed articolato e può essere meglio compreso con l’analisi della giurisprudenza costituzionale (specialmente per quanto concerne l’art. 25 Cost.). Per un altro profilo, si è assistiti alla risoluzione delle riserve relative di legge nell’esigenza di una limitazione della discrezionalità amministrativa (com’è il caso degli artt. 23 e 41 Cost. e, con alcuni accenti difformi, per l’art. 33 Cost., come mostra la giurisprudenza costituzionale sul tema del numero chiuso per l’accesso all’istruzione universitaria).
Un altro elemento fondamentale che ha portato alla perdita di centralità della legge è stato l’emergere del ruolo-guida del Governo nella normazione, sia attraverso un uso distorto ed oltremodo ricorrente della decretazione d’urgenza, sia attraverso un uso della delegificazione che si è allontanato significativamente dal modello delineato nella legge n. 400 del 1988. Infine, anche la pratica che si è andata affermando di continui decreti correttivi a decreti delegati precedentemente emanati contribuisce ad espropriare il Parlamento (e la legge) del ruolo primario nella normazione.
A questo si affianca sia l’ “avanzata” delle fonti comunitarie (anche nella forma delle sentenze della Corte di giustizia, assurte a vere e proprie fonti del diritto in seguito alla sentenza n. 113 del 1983), sia la riforma dell’art. 117 Cost. con il nuovo Titolo V, a seguito della quale la legislazione parlamentare ha perso il carattere della generalità.
Passando alle considerazioni sull’attualità, il relatore ha richiamato l’attenzione alla forte frammentazione parlamentare, che non costituisce un elemento di spinta per le politiche di qualità della legislazione, favorendo invece interventi microsettoriali incapaci di una sintesi politica.
Del resto, con l’attuale sistema delle fonti, qualunque tentativo di migliorare la qualità della legislazione per via legislativa è destinato al fallimento per la possibilità di essere superato con l’approvazione di un atto successivo difforme di pari grado.
Un ultimo accenno è stato dedicato alle procedure parlamentari di approvazione delle leggi, che hanno portato ad un sistematico e forse eccessivo contingentamento dei tempi ed alla pratica palesemente incostituzionale dei maxi-emendamenti.

Il successivo intervento del prof. RUGGERI è stati dedicato al tema “Discrezionalità legislativa tra teoria e prassi parlamentare”.
Il relatore ha preso le mosse dalla “impalpabile” nozione di discrezionalità del legislatore, che assume una diversa valenza a seconda che si abbracci una concezione della Costituzione come “disegno completo”, ovvero di un “quadro parziale” che necessita di continue integrazioni.
Un terzo approccio potrebbe essere costituito dal vedere la Costituzione come un sistema, anche attraverso una prospettiva strutturale. È noto infatti come la forza sostanziale della Costituzione sia estremamente variabile tra i diversi enunciati. All’interno di una simile prospettiva il relatore propone la categoria della “duttilità” costituzionale come possibile superamento della dicotomia classica tra rigidità e flessibilità.
Per quanto riguarda, invece, la dimensione del vincolo posto al legislatore, in una certa misura sovvertendo il pensiero più comune (e lo stesso approccio kelseniano), il vincolo negativo appare più gravoso per il legislatore costituzionale che per il legislatore ordinario, poiché il primo mira a modificare la volontà stessa del potere costituente. In questa ottica, infatti, i principi fondamentali della Costituzione non costituiscono unicamente il confine della revisione costituzionale, ma anche il suo stesso fine. Tuttavia è difficile sostenere in concreto che una revisione della Carta neghi lo scopo suo proprio.
In ogni caso, la teoria di fondo dell’esempio richiamato consiste nel negare qualsiasi automatismo tra forza degli atti e ampiezza della discrezionalità di cui può disporre il soggetto normatore, anche perché si può avere una maggiore discrezionalità nell’attuazione che nella delineazione dei principi (è questo il caso del recepimento di parte della normazione comunitaria).
Altro principio generale in questo ambito è che un precedente esercizio della discrezionalità può condizionare e vincolare la discrezionalità successiva, come dimostrato dalla recentissima sentenza della Corte costituzionale n. 246 del 2006, in tema di normazione ed enti locali.
Per quanto riguarda invece l’intervento discrezionale della Corte costituzionale, si possono ravvisare tre aspetti, soprattutto per ciò che concerne le sentenze manipolative:
1) dietro la manipolazione del contenuto discrezionale (cioè dell’oggetto), si nasconde spesso una manipolazione del parametro costituzionale;
2) mediante l’interpretazione conforme, l’oggetto della manipolazione della Corte è spesso la sostanza normativa più che il dato testuale;
3) ogni sentenza della Corte rispecchia un bilanciamento tra interessi ed una scelta tra valori.
Passando al seguito delle sentenze come possibile limite alla discrezionalità del legislatore, il relatore registra un sostanziale rispetto del giudicato, anche se manca una collaborazione che sarebbe estremamente importante sulle sentenze additive di principio. Sul punto il Governo si è dimostrato più ricettivo del Parlamento nel rispetto delle indicazioni della Corte.
In conclusione, quella che a taluni è apparsa come la manifestazione più ampia della discrezionalità della Corte costituzionale negli ultimi anni, ovvero la giurisprudenza sulle cd. materie “trasversali”, è ad avviso del relatore la conseguenza della “decostituzionalizzazione” della Costituzione cui si è assistiti, che aumenta sia la discrezionalità del legislatore che quella del giudice delle leggi. Del resto, le competenze trasversali del legislatore statale non possono essere considerate una eccezione al riparto di competenze tra Stato e Regioni, ma fanno parte della regola stessa.

Proprio sul tema del riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni si è incentrato l’intervento del successivo relatore, prof. MEZZANOTTE, che ha anche ricordato la sua esperienza di giudice costituzionale proprio nel momento in cui si sono definiti gli equilibri conseguenti alla riforma del Titolo V.
Il relatore ha ricordato come i primi trasferimenti di funzioni dallo Stato alle Regioni contemplavano una concezione delle materie in senso oggettivo (per cui si è parlato di “ritagli”). Successivamente, il trasferimento operato mediante il d.lgs. n. 616/77 presupponeva un trasferimento in senso “organico”.
Con la riforma del Titolo V non viene solo a mancare la competenza generale della legge parlamentare, ma anche il parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative, facendone derivare l’esigenza di ridefinizione delle stesse materie oggetto di riparto.
La prima giurisprudenza della Corte è stata diretta ad affermare la continuità normativa, cui poi ha fatto seguito la continuità istituzionale dei diritti fondamentali.
Si è poi ravvisata l’esigenza di far funzionare le “nuove” materie attraverso l’applicazione del principio di legalità al principio di sussidiarietà, giungendo alla nota sentenza n. 303 del 2003. Sebbene la dottrina ha accolto tale sentenza come contornata da “bagliori di potere costituente” (Morrone), ad avviso del relatore lo stesso testo costituzionale già contemplava la soluzione adottata dalla Corte, dato che era impossibile pensare ad un “abbandono a se stesse” delle funzioni amministrative assegnate in sussidiarietà “ascendente”, senza una parallela ricollocazione delle corrispondenti competenze legislative. In ogni caso, poi, l’assunzione in sussidiarietà della competenza legislativa è vincolata alla impossibilità di un intervento effettivo dell’ente titolare.

Il prof. CELOTTO si è occupato del rapporto tra legislazione comunitaria e processo di integrazione europea, portando anche testimonianza del suo attuale incarico di capo dell’Ufficio legislativo del Ministero per le politiche europee.
La considerazione di partenza ha riguardato la vincolatività delle fonti comunitarie per la legislazione interna, anche per la loro caratteristica di soddisfare la riserva di legge. Del resto, l’evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia ha evidenziato non solo la perdita di centralità della legge, ma anche la perdita di centralità della stessa Costituzione, a seguito della nota giurisprudenza Simmenthal.
Anche il principio kelseniano del privilegio parlamentare nell’avere un unico giudice delle leggi, è stato eroso dal sindacato diffuso che ogni giudice può esercitare sulle norme interne in relazione agli atti comunitari.
In generale, si è avuto un effetto dirompente del diritto comunitario, tendente all’unificazione giuridica dei Paesi membri, sia attraverso una attività eminentemente prescrittiva (con i regolamenti), che con un opera direttiva (attraverso l’emanazione di direttive). Tuttavia la riottosità di alcuni Stati nel recepimento di quest’ultima tipologia di atti ha reso necessario ricavare elementi prescrittivi anche nell’attività direttiva. In particolare mediante:
– la responsabilità degli Stati, ex artt. 226 e 228 del Trattato, non solo dal punto di vista politico, ma anche pecuniario;
– l’idoneità delle direttive scadute ad avere effetto diretto;
– la responsabilità economica degli Stati verso i cittadini e le imprese per il mancato recepimento (giurisprudenza Francovich);
– l’obbligo di interpretazione conforme anche in base ad atti non direttamente applicabili;
– l’obbligo di “pre-conformazione” alle direttive in attesa di recepimento anche prima della scadenza, con conseguente divieto di eventuale “allontanamento” della legislazione interna dal contenuto della direttiva pendente.
Con lo strumento della legge comunitaria annuale l’Italia è passata dall’88% al 97% nel recepimento delle direttive, ma, ciò nonostante, si trova tuttora al 21° posto su 25 nelle speciali graduatorie stilate dalla Commissione europea.
Sottolinea in particolare la mancanza di un fattivo coinvolgimento delle Regioni nell’attività di recepimento. Sebbene ci siano stati alcuni tentativi di strumenti periodici di recepimento a livello regionale, questi sembrano dimostrarsi insufficienti (la Regioni Friuli-Venezia Giulia ha recepito unicamente due direttive nella legge comunitaria regionale).
Una ulteriore area di problematicità emerge dal seguito della legge comunitaria approvata dal Parlamento, ovvero nella fase di emanazione dei decreti delegati e degli altri atti di recepimento (regolamenti delegati, atti amministrativi etc.). Per l’esercizio delle deleghe, in particolare, i termini previsti non sono quasi mai coincidenti con il termine di recepimento delle direttive, facendone discendere evidenti criticità.
Un esempio offerto dal panorama comparato potrebbe essere utile per il recepimento delle direttive aventi contenuto eminentemente tecnico e dettagliato: in Danimarca si è deciso di recepire tali direttive attraverso un mero ordine di esecuzione, in analogia a quanto avviene per i trattati internazionali.

La sessione pomeridiana del convegno è stata aperta dal presidente, prof. ARCIDIACONO, che ha evidenziato come forse andrebbe rivisto il quadro tradizionale della dottrina, che voleva una centralità della legge nell’originale testo costituzionale. Questa infatti veniva già compromessa da tutta una serie di istituti che si allontanavano dall’assoluta sovranità della legge parlamentare dei secoli precedenti (rigidità costituzionale, presenza della Corte costituzionale, referendum abrogativo, competenza legislativa regionale e, in seguito, processo di integrazione europea favorito dalla clausola dell’art. 11 Cost.).

La prima relazione della sessione, della prof.ssa CARLASSARE, si è incentrata sull’evoluzione dei regolamenti governativi dall’attuazione della legge alla delegificazione.
La relatrice ha sottolineato come l’attuazione della legge fosse l’unica funzione concepibile per il regolamento dell’esecutivo nel quadro statutario, che ne prefigurava un contenuto servente rispetto a quello dell’atto legislativo.
Con la l. n. 100 del 1926 si assistette ad una espansione e ad un mutamento del ruolo del regolamento, discendente per altro dalla radicale evoluzione della forma di governo, nel senso di una funzionalizzazione del sistema delle fonti alla nuova forma di Stato autoritario.
L’anomalia della posizione e del ruolo dei regolamenti dell’esecutivo va invece ricercata con l’avvento della nuova Costituzione repubblicana, nella quale permane il sistema delle fonti proveniente dal contesto statutario (ed autoritario), sebbene con ampie modificazioni e nella perplessità della dottrina maggioritaria. Fino alla risistemazione operata dalla legge n. 400 del 1988, infatti, continuano ad essere adottati, senza una adeguata copertura legislativa, regolamenti indipendenti, regolamenti delegati e regolamenti di organizzazione.
Per quanto riguarda i regolamenti delegati, la relatrice rinnova il suo giudizio positivo sullo schema dell’art. 17, comma 2, della legge 400, ma evidenzia come, successivamente, lo stesso strumento sia stato applicato anche a settori non legificati, ritornando alla disciplina del 1926. La costante mancanza di una individuazione precisa delle norme generali regolatrici della materia ha spostato l’asse della questione, ribaltando il quadro prefigurato dal legislatore.
Con le modifiche apportate dalla l. n. 59 del 1997, che ha inserito il nuovo comma 4-bis all’art 17 della l. 400, ad avviso della relatrice si è introdotta una pratica palesemente incostituzionale, delegificando pressoché in toto l’organizzazione dei pubblici uffici, materia che l’art. 97 Cost. aveva comunque riservato alla legge.

Il prof. DE MARCO, intervenendo sui regolamenti degli enti locali, ha ricostruito il percorso storico che ha portato fino all’approvazione del nuovo Titolo V nel 2001.
Dapprima il Testo unico comunale e provinciale del 1934 negava l’autonomia statutaria agli enti locali, mentre riconosceva una certa forma di potere regolamentare, sebbene nel quadro costituzionale del regime fascista.
Dopo l’entrata in vigore della Costituzione del 1948, che pure con l’art. 5 sembrava volersi distaccare sin da subito dall’esperienza precedente, si è dovuta attendere la l. n. 142 del 1990 per un pieno riconoscimento della potestà statutaria degli enti locali, sebbene entro limiti alquanto ristretti.
Le riforme legislative approvate nella seconda metà degli anni Novanta hanno cercato di perseguire un federalismo amministrativo più regionale che locale anche se, a seguito della l. n. 265 del 1999 si è avuto un parziale ampliamento della autonomia regolamentare locale, in forza della sottoposizione di questa unicamente ai principi di legge e degli statuti
Successivamente, l’entrata in vigore del nuovo Titolo V ha creato non pochi problemi di coordinamento con la disciplina legislativa, da poco emanata, contenuta nel Testo unico sugli enti locali. In particolare la distinzione costituzionale tra funzioni fondamentali, funzioni proprie e funzioni attribuite crea un problema interpretativo – soprattutto per la seconda categoria – per la identificazione della fonte individuatrice e sulla sua stessa esistenza. Non è chiaro, infatti, se queste debbano essere riconosciute ex lege, ovvero se debbano (possano) essere auto-assunte dagli enti.
La recente sentenza della Corte costituzionale n. 246 del 2006 sembra confermare un andamento evolutivo tendenziale che sembra dirigersi verso un progressivo ampliamento del potere regolamentare degli enti locali, anche a vantaggio di una tipologia di federalismo municipalista più che regionalista.
Il relatore segnala infine che prospettive di notevole interesse potranno essere aperte da un disegno di legge governativo in corso di elaborazione, finalizzato al conferimento al Governo di una delega per il trasferimento di rilevanti funzioni agli enti locali.

Il prof. MORRONE si è soffermato sui profili problematici delle ordinanze di necessità ed urgenza, sottolineando come tale tematica si ponga a metà strada tra leggi e regolamenti da una parte ed atti amministrativi dall’altra.
Nel periodo statutario una diffusa interpretazione dottrinaria conduceva alla equiparazione tra leggi ed ordinanze (“contingibili”) nel senso della caratteristica comune di esprimere la volontà dello Stato. Tra l’altro, anche V. E. Orlando segnalava come l’art. 6 dello Statuto albertino non permetteva di porre confini certi tra legge ed ordinanza. Da un’altra prospettiva, Cammeo invece riteneva illegittimo il potere di ordinanza, proprio in base all’art. 6 dello Statuto.
La tradizione giuridica europea risulta divisa nell’esperienza dei diversi Paesi sul tema delle ordinanze. Se infatti la Germania è stata storicamente portatrice di una concezione organicistica, la tradizione anglosassone – e la classica distinzione tra iurisdictio e gubernaculum – pretendeva il rispetto della sola legge, e dell’ordinanza nel solo caso di corrispondenza alla legge, salva la possibilità di un bill of indemnity.
Il fondamento del potere di ordinanza va dunque ricercato nel salus populi, suprema lex, avendo però ben presente che tale principio non può essere affermato in assoluto, al fine di non cadere nell’arbitrio.
Con l’ordinamento repubblicano il potere di ordinanza è stato confinato nella sfera degli atti amministrativi (Corte costituzionale, sentenza n. 8 del 1956), evidenziandone l’efficacia necessariamente limitata nello spazio e nel tempo. Se con questa interpretazione la Corte costituzionale aveva fatto salvo, in un primo momento, l’art. 2 del t.u.l.p.s., la prassi difforme e l’inerzia del legislatore che ne è seguita hanno portato il giudice delle leggi, in un momento successivo, alla declaratoria d’incostituzionalità della stessa norma.
La successiva giurisprudenza della Corte costituzionale ha evidenziato il limite dei principi costituzionali e l’inidoneità delle ordinanze ad abrogare norme di legge, potendovi soltanto derogare per tempi limitati.
Con la l. n. 225 del 1992 si è arrivati ad una sorta di procedimentalizzazione delle ordinanze, che però la prassi successiva ha teso sempre più ad eludere, utilizzando lo strumento delle ordinanze anche per far fronte ad esigenze non urgenti ed ampiamente prevedibili (“grandi eventi”, manifestazioni sportive, etc.).

L’ultima relazione della giornata di studi è stata tenuta dal prof. DI PIETRO sullo strumento delle circolari interpretative e sulle funzioni e i limiti di tali strumenti.
Se nel periodo pre-fascista le circolari venivano interpretate come “atti di autorità di organi superiori” (Cammeo), la trasformazione recente dell’agire amministrativo e delle strutture stesse dell’amministrazione hanno portato ad un rovesciamento di tale concezione. Infatti, sebbene nel frattempo sia estremamente mutato anche il ruolo della legge, come evidenziato ampiamente nella sessione mattutina dei lavori, lo strumento della circolare si è trasformato in una sorta di diritto vivente ed anzi nella parte del diritto che risulta essere più agevolmente conoscibile da parte dei cittadini, che vengono a conoscenza della legge nell’applicazione fatta propria dalle circolari.
La ricordata trasformazione dell’amministrazione, sempre più concentrata su obiettivi di risultato, ha portato ad una valorizzazione degli atti di organizzazione interna e di interpretazione che, al contempo, hanno assunto una valenza esterna sempre maggiore. Al fianco di tale rinnovamento dell’amministrazione, le circolari, dal modello gerarchizzato degli inizi del secolo, hanno dapprima assunto il carattere di un ordine interpretativo, per poi caratterizzarsi come vera e propria epifania della norma. Infine, nel procedimento amministrativo partecipato la circolare assume un ruolo garantistico che tutela il principio di imparzialità, affermandosi come strumento per l’uniforme applicazione della legge.

Giovanni Piccirilli