Differenziazione ed asimmetria negli ordinamenti regionali – Resoconto convegno

02.11.2006

Napoli, 20 ottobre 2006

Università degli Studi di Napoli – Federico II

Si è svolto il 20 ottobre, presso l’Università degli Studi di Napoli – Federico II, aula Pessina, il seminario di studi: “Differenziazione ed asimmetria negli ordinamenti regionali”, promosso dall’Istituto Italiano di Scienze Umane nell’ambito del dottorato di ricerca in “Diritto ed Economia”.
Dopo l’introduzione del Prof. Sandro Staiano, tesa a sottolineare, sulla scorta della necessità del raffronto dei modelli giuridici e delle forme di disciplina di differenti ordinamenti giuridici nazionali, la continuità di tale seminario con un altro analogo tenuto pochi mesi prima a Ravello, e dopo una veloce presentazione degli ospiti da parte del Preside della Facoltà di Giurisprudenza, il Prof. Michele Scudiero, la prima delle due relazioni è stata tenuta dal Prof. Luis Maria Diez-Picazo Gimenez della Università de “Castilla-La Mancha”.
Il Prof. Gimenez prende spunto dal processo di riforma che ha riguardato alcuni degli Statuti delle Comunità Autonome spagnole apertosi a seguito della nuova legislatura iniziata nel 2004. In particolare, si sofferma sullo Statuto della Catalogna, “uno Statuto – a suo dire – nuovo di zecca rispetto a quello approvato nel 1979”. Il nuovo Statuto, entrato in vigore questa estate, introduce una rilevantissima autonomia, in base a cui, vengono attribuiti alla Comunità Catalana, poteri e competenze molto più ampi rispetto a quelli di cui godono le altre Comunità. Tra le altre cose, destano particolari perplessità le disposizioni in base a cui è sancita una sorta di “blindaggio” delle competenze della Comunità da qualsiasi forma di interferenza degli organi nazionali, nonché, ancor più scalpore, ha suscitato la definizione di Catalogna quale Nazione, definizione che costituisce l’incipit del Preambolo dello Statuto.
Naturalmente, per queste ed altre ragioni, l’approvazione dello Statuto ha dato adito ad accese polemiche nell’opinione pubblica. Con un articolo apparso su “El Pais” del 18 novembre del 2005, il Prof Gimenez si è espresso sull’allora ancor progetto di Statuto, nonché sulle relative critiche. A detta del Prof. Gimenez il dibattito, purché fuoriuscito dall’ambito dottrinale e allargatosi alla sede politico-culturale, ha risentito sin troppo d’un certo formalismo giuridico: le critiche, pur giuste e rilevanti, sono state impostate esclusivamente in termini di legittimità costituzionale. Lungo questa linea direttrice, invece, il dibattito non ha colto la problematicità che lo Statuto andava ad introdurre in termini di “teoria della Democrazia”. L’intero dibattito, quindi, non riusciva ad esaurire tutte le coordinate della questione.
Secondo il Prof. Gimenez, il problema dell’autonomia e, di conseguenza, dell’asimmetria fra diverse Comunità, è essenzialmente questione di eguaglianza politica e giuridica: l’asimmetria, quando raggiunge determinati livelli, implica ineluttabilmente il “costo sociale” di una disuguaglianza politica fra i cittadini. E’ questa la conclusione a cui Gimenez perviene, una conclusione che egli stesso non esita a definire un problema praticamente insolubile, una sorta di vero e proprio paradosso.
D’altra parte la questione dell’asimmetria è sempre esistita in Spagna. Essa è connaturata intrinsecamente alla stessa storia spagnola a cui la Costituzione del 1978 non ha fatto altro che conformarsi. Il sistema delineato dal Costituente prevede una doppia lista di materie, essendo elencate sia quelle riservate alla competenza statale sia quelle riservate alla competenza regionale. Inoltre, se si pone l’attenzione sul comma 1 dell’art. 148 si trova la dizione “La Comunità potrà essere competente nelle seguenti materie” e non quella che sic et sempilciter attribuisce la competenza ad un ente regionale. Il Costituente spagnolo delinea la sua posizione in termini originali: elenca le materie che possono diventare materia della Comunità, lasciando queste libere di decidere, in sede di formazione dello Statuto, di quale farsi carico e di quali no. Le Comunità, in base ai limiti costituzionali, possono assumere nei rispettivi Statuti il grado di competenze cui attribuirsi e, per questa via, differenziarsi le une dalle altre.
In definitiva, quindi, Gimenez tende a sottolineare come la Costituzione del 1978 dispone una sorta di cornice entro la quale, nei limiti che essa stessa detta, le Comunità pervengono al grado di autonomia che reputano più consono alle proprie possibilità. Lo sviluppo che ha avuto lo stato delle autonomie in Spagna dimostra, come la stessa vicenda dello Statuto della Catalogna, che esso non si è arrestato con l’immediata applicazione delle disposizioni costituzionali, ma ha continuato e continua a svilupparsi assumendo connotazioni ben differenti. Le stesse Comunità storiche ( Catalogna, Paesi Baschi e Galizia), ricercano una continua differenziazione rispetto alle altre ed anche tra esse stesse, alla luce anche dei cosiddetti “Hechos diferenciales”, i fattori di specialità che la stessa Costituzione pure riconosce e garantisce. Solo per fare un esempio, Gimenez ricorda la conservazione da parte di alcune comunità dei diritti civili, forali o speciali, con cui il Costituente ha voluto garantire l’integrazione delle identità collettive storiche preesistenti alla Costituzione, nonché il riconoscimento della coufficialità delle lingue proprie nei rispettivi territori.
A questo punto, Gimenez dilata l’orizzonte spazio-temporale della questione sino a dimostrare come il tema dell’asimmetria, non è estraneo neppure ai Paesi anglosassoni. A supporto delle sue affermazioni il Professore spagnolo risale a quelli che definisce “i tormenti di Gladstone” nella seconda metà dell’800, quando il primo ministro di Sua Maestà si interrogava sulla necessità di concedere o meno la “Home Rule” all’Irlanda.
Circa un secolo dopo, agli inizi degli anni 70’, la questione si ripropone quando ci si inizia ad interrogare su quale regime di autonomia possa essere concesso alla Scozia. Il liberale K. Davids, deputato del distretto di West Lofian, a supporto della sua contrarietà ad un’eccessiva autonomia per la Scozia, pose il seguente dilemma riportato pedissequamente dal Prof. Gimenez proprio per sottolineare la complessità della questione: “Se la Scozia riceve tutta una serie di competenze è chiaro che Westminister non potrà più legiferare in tali campi; d’altro canto, i deputati scozzesi, presenti a Westminister, potranno invece prendere decisioni negli stessi ambiti per tutti i sudditi di Sua Maestà”.
La questione posta da Davids, definita appunto “West Lofian Question” ha dato inizio ad un ventennale dibattito conclusosi solo alla fine degli anni 90’, dopo l’approvazione dello Scotland Act nel 1998.
Nel corso di questi anni, secondo Gimenez, sono state essenzialmente tre le risposte per “risolvere” la West Lofian Question:
· La cancellazione della rappresentanza regionale nel Parlamento centrale nella misura in cui lo Stato Centrale ha competenza in quelle stesse materie per il resto del territorio dello Stato in cui la Regione ha competenza esclusiva. Si tratta d’una ipotesi abbastanza estrema che ci condurrebbe ad uno scenario di assoluta incomunicabilità fra Stato e Regioni.
· Una sostanziale riduzione dei rappresentanti delle Regioni nell’ambito del parlamento Nazionale in modo tale da ridurre il peso degli rappresentanti delle regioni su materie che riguardano la competenza centrale. Si tratta, quindi, d’una ipotesi che può esser considerata quale una variante più temprata della prima e che, a detta del Prof Gimenez, è stata, se non formalmente dichiarata, quella che in sostanza è stata adottata dal Governo del Regno Unito. Infatti, a seguito del varo dello Scotland Ac,t si è proceduto ad una revisione dei distretti elettorali del Regno Unito diminuendo il numero di rappresentanti scozzesi a Westminister.
· La limitazione dell’intervento dei rappresentanti delle regioni nelle sole materie in cui il Parlamento centrale ha competenza in un ambito che riguarda anche la competenza della regione. Quest’ultima ipotesi prospetterebbe soluzioni da “assemblee elettive itineranti”: ci troveremo innanzi a parlamenti a composizione variabile con inevitabili ricadute sulla loro funzionalità e, conseguentemente, non in grado di assicurare la governabilità.

Le conclusione a cui perviene il Professore madrileno, così come per il caso spagnolo, non risulta dissimile per la West Lofian Question: la teoria del paradosso ritorna ed è confermata in tutta la sua problematicità in termini di teoria della democrazia ed uguaglianza dei cittadini.

La seconda relazione, concernente il regionalismo italiano, è stata tenuta dal Giudice Costituzionale Ugo De Siervo. Il Prof. De Siervo ha adottato un taglio storico soffermandosi precipuamente sulle alterne fortune del regionalismo nel corso del dibattito in seno alla assemblea costituente, e sulla cosiddetta “ svolta” del biennio 1999-2001 conclusasi con la legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3.
La scelta fatta dall’Assemblea Costituente, di introdurre le regioni nel nostro ordinamento, rappresentò una novità assoluta: sino ad allora il sistema del governo periferico in Italia si articolava su due livelli, quello comunale e quello provinciale. Il Costituente italiano, dopo una lunga e travagliata discussione optò per due modelli di massima: regioni a statuto ordinario ( la gran maggioranza) e Regioni a statuto speciale (soltanto cinque).
Si trattò di una scelta che non lesinò critiche. Il Prof De Siervo riporta il commento di Don Luigi Sturzo, fervido sostenitore di una riforma più coraggiosa in senso regionale: “Il fatto che si sia scelto che il grosso delle regioni sia ad autonomia ordinaria rappresenta l’ultimo residuo del centralismo”.
Pur se le tradizioni accentratrici, almeno stando alle enunciazioni di principio, erano fermamente avversate, le opzioni di fondo compiute dai partiti politici in seno all’Assemblea Costituente furono più indotte da circostanze oggettive che frutto d’una scelta consapevole.
Connotandosi la Repubblica quale Repubblica dei Partiti, ed andando questi ultimi a caratterizzarsi per un’organizzazione fortemente accentrata, la stessa forma di Stato, inevitabilmente, finì per ricalcare questo modello: il progetto fortemente favorevole alle autonomie regionali, licenziato dalla Commissione preparatoria per la Costituzione, la Commissione Ruini, dispiegò una piccolissima parte del suo effettivo potenziale. Alla fine, in seno all’Assemblea Costituente, si pervenne ad un accordo che prevedeva l’attribuzione alle Regioni di un complesso di poteri notevolmente meno cospicuo di quello redatto in sede di lavori preparatori. Inoltre, essendo prevista, per dare attuazione al dettato costituzionale, l’approvazione di tutta una serie di leggi dello Stato – organizzazione elezioni dei consigli regionali, individuazioni delle funzioni definizione dei rapporti finanziari Stato-Regioni – , il disaccordo fra le forze politiche determinò quel lunghissimo immobilismo protrattosi sino alla fine degli anni 60 e sbloccatosi solo con l’approvazione delle leggi 17 febbraio 1968 n. 108 e 16 maggio 1970 n. 281.
Così come per quelle che diventeranno regioni ad autonomia ordinaria, anche per quelle a cui si attribuì autonomia speciale le condizioni obiettive giocarono un ruolo decisivo:le tendenze separatistiche presenti in Sicilia e Val D’Aosta non potevano lasciar indifferenti così come i patti internazionali stipulati non potevano esser disattesi. Il Prof. De Siervo menziona le vicende che portarono all’adozione di ordinamenti autonomistici in Trentino Alto Adige sulla base dell’accordo De Gasperi-Gruber del settembre 1946. A queste regioni si assegnarono attribuzioni più estese anche se, sostanzialmente, l’impianto degli statuti speciali reiterò lo schema generale adottato per le Regioni ordinarie. Fu la stessa Costituente ad approvare quattro dei cinque statuti speciali: L’Assemblea convertì in legge costituzionale il decreto reale di approvazione dello statuto della Regione siciliana ( legge cost. 26 febbraio 1949 n. 2), e, nella stessa prospettiva, approvò gli Statuti speciali per la Sardegna, Valle D’Aosta e Trentino Alto Adige (leggi cost. 26 febbraio 1948 nn. 3, 4 e 5). Solo per il Friuli Venezia Giulia, data l’incerta situazione mondiale e per i burrascosi rapporti con la Jugoslavia di Tito, si finì per adottare la stessa normativa vigente per le Regioni ordinare. Sbloccatasi la questione internazionale, lo statuto di autonomia speciale per questa Regione venne approvato solo agli inizi degli agli anni 60’ con la legge costituzionale 31 gennaio 1963 n.1.
Quindi, in definitiva, la stragrande parte delle Regioni, le Regioni ordinarie, finirono per esser istituite ad oltre due decenni dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica.
Il Prof. De Siervo, dopo aver fatto rapido accenno ai primi anni di vita delle Regioni, ha proseguito focalizzando l’attenzione sulle significative trasformazioni che, dagli anni Novanta, hanno sensibilmente innovato il sistema delle autonomie regionali: oltre alle cosiddette Leggi Bassanini ( l 15 marzo 1997 n. 59 e l15 maggio 1997 n. 127), richiama, a modello esemplificativo, la legge di riforma regionale ( l. 13 maggio 1999 n. 133 e d.lgs. 18 febbraio 2000 n. 256), in base alla quale sono stati soppressi gran parte dei trasferimenti dal bilancio dello Stato alle Regioni, trasferimenti sostituiti con entrate fiscali proprie o di compartecipazione.
Ulteriore passi in avanti sono stati fatti con la legge costituzionale sulla forma di governo delle regioni ordinarie, la legge cost. 22 novembre 2001 n.1, in base alla quale si è introdotta l’elezione diretta del Presidente della Regione e si è rafforzata notevolmente l’autonomia statutaria, iniziando a modificare alcuni articoli della Costituzione (artt. 121-123, 126). I contenuti di quest’ultima legge costituzionale, poi, sono stati estesi alle regioni a Statuto speciale con la legge cost. 31 gennaio 2001 n.1. Il risultato di queste due leggi, secondo De Siervo, è stato quello di avvicinare sensibilmente il modello delle Regioni speciali a quello delle Regioni ordinarie.
Nell’ultima parte della sua relazione, il Prof. si è dedicato all’ultima grande riforma: la legge Cost. 18 ottobre 2001 n.3 che, sommandosi alle altre leggi costituzionali, ha profondamente innovato il Titolo V della parte II della Costituzione, e che, è stata ed è, oggetto di ampio dibattito in sede dottrinale, giurisprudenziale e politica.
Al di la di tutte le polemiche innescate dal nuovo art. 117 della Costituzione e dal relativo contenzioso apertosi tra lo Stato e Regioni sulle rispettive sfere di competenza, – un contenzioso, a cui, tra l’altro, la Corte Costituzionale, con una serie di significative sentenze, non ha mancato di dare puntuale risposta, – il Prof De Servo evidenzia la mancata attuazione di parti della riforma e la difficile interpretazione di altre. A sostegno delle sue argomentazione richiama, rispettivamente, la mancata attuazione dell’art 11, per ciò che attiene all’integrazione della commissione parlamentare per le questioni regionali con i rappresentanti della regioni, e la complessa comprensione dell’art. 10, secondo cui: “Sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”.
Oltre alle succitate problematiche di attuazione e di interpretazione, De Siervo osserva che, dalle stesse Regioni, non si dispiega un’azione che sia all’altezza dello spirito innovatore che la riforma, nonostante tutto, apporta: da un’analisi della vita normativa delle Regioni si evince che esse, abdicando da quella funzione istituzionale comunque assegnategli, legiferano poco e male. Ecco perché, il Prof. De Siervo conclude, che le speranze d’un approdo ad un regionalismo forte e ben strutturato, espresse pochi anni or sono, sono, per il momento, fortemente disattese.

Dario Cetta