Meccanismi e tecniche di normazione fra livello comunitario e livello nazionale e subnazionale – Resoconto convegno

15.05.2006

Teramo, 28-29 aprile 2006

Il presente seminario ha inteso fornire un’efficace panoramica sulle problematiche che interessano le fonti comunitarie, nonché i rapporti che intercorrono tra tali fonti e la normazione nazionale substa-tale (con alcuni squarci, oltre che alla legislazione, anche sul livello regolamentare).
Ha aperto il convegno il prof. Romano Orrù, Direttore del Dipartimento di Studi Giuridici presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università teramana, che ha portato i saluti, anche a nome del Ret-tore dell’Università prof. Mattioli e del Preside di Facoltà prof. Pepe, agli intervenuti ed ha breve-mente illustrato il programma delle due giornate.
Sono poi seguiti i saluti del prof. Giuseppe F. Ferrari e la presentazione del Seminario da parte del prof. Giuseppe G. Floridia.

La prima sessione di questo incontro (tenutasi nel pomeriggio del 28 aprile) è stata presieduta (con una modifica sul programma precedentemente comunicato) dal prof. Ferrari, ed è stata titolata “A-spetti della produzione normativa comunitaria”.

Primo interventore è il prof. Francesco Caruso, Professore di diritto dell’Unione europea presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “Tor Vergata”, il quale ha aperto il convegno no-tando il progressivo scadimento delle tecniche legislative dei vari trattati comunitari che si sono suc-ceduti nel tempo. Più specificamente, nodo centrale è, tuttavia, il paragone che alcuni azzarda fra l’Unione europea ed i più classici stati federali: la critica stigmatizza l’eccessiva invasività del diritto comunitario negli ordinamenti nazionali rispetto a quanto accade nei rapporti classici fra ordinamenti federali e stati membri: il diritto comunitario sembra letteralmente esondato: ciò anche a causa dell’atteggiamento della giurisprudenza, che ha fatto dell’endiadi primato/effetto diretto delle norme comunitarie un dato imprescindibile. Un problema non secondario si pone per quanto concerne quei trattati internazionali conclusi da Stati europei precedentemente al loro ingresso nell’Unione. Tali trattati continuano ad essere validi per i contraenti, con l’obbligo per quegli stati che siano anche mebri dell’Unione di renderli compatibili con i trattati europei. Ex art. 230 Trattato CE, infatti, que-sti trattati rivestono il rango di diritto intermedio fra il diritto comunitario originario e quello deriva-to.
Altri aspetti rilevanti per il diritto comunitario sono i principi:

– che l’ordinamento comunitario desume dagli ordinamenti nazionali (originariamente da Fran-cia e Germania).
– elaborati a livello di ordinamento UE. Un esempio è la competenza di attribuzione: le istitu-zioni intervengono normativamente se la Comunità ha un titolo valido, e con determinate procedure, organi, atti. Il principio della competenza di attribuzione non è sempre rispettato, sebbene esso sia spesso richiamato in combinazione con i principi di sussidiarietà e propor-zionalità.
– di leale cooperazione, attraverso il quale, tuttavia, la Commissione assume un ruolo di arbitro non sempre apprezzato (e ancora meno lo è quando da arbitro si trasforma in legislatore).

All’intervento del prof. Caruso è seguito quello della prof.ssa Arianna Vedaschi, docente di Diritto pubblico comparato presso l’Università “L. Bocconi” di Milano. Il contributo, titolato “Le istituzioni europee e la qualità del drafting comunitario: strumenti e soluzioni peculiari”, ha sottolineato la par-ticolare sensibilità dimostrata dalle istituzioni comunitarie nei confronti delle tecniche legislative (dimostrata comunque già da qualche Stato membro). All’inizio l’Unione si è dedicata prevalente-mente agli aspetti formali delle tecniche redazionali, cercando di codificarne delle regole minime di uniformità in appositi formulari. Sono stati i Consigli europei di Birmingham ed Edimburgo (rispet-tivamente di ottobre e dicembre 1992) ad inaugurare questa stagione di attenzione al miglioramento delle tecniche redazionali delle norme comunitarie, in stretta dipendenza dal Trattato di Maastricht che mirava a rendere la legislazione europea più uniforme (senza dimenticare la conformità delle varie versioni linguistiche, sulla cui efficacia e validità la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha avuto varie volte modo di pronunciarsi).
Il periodo clou per la qualità del drafting comunitario è il decennio compreso fra il 1992 ed il 2002. Nel 1997 viene promulgata una guida della Commissione per una migliore legislazione; e diverse sono le guide congiunte fra Commissione e Consiglio, nonché gli accordi interistituzionali del 1993, 1994 e 2001, formalmente settoriali, ma che in realtà vanno a toccare principi fondamentali quali la sussidiarietà, la proporzionalità e la diffusione delle norme. In questi anni si passa da un approccio isolato ad uno coordinato delle tre istituzioni. Tutte queste iniziative, però – è stato rilevato – sarebbe-ro prive di fondamenti giuridici. E’ del 1997 la Convenzione di Amsterdam che si è occupata di ri-cercare orientamenti comuni per migliorare la legislazione comunitaria; altra fonte è l’Accordo inte-ristituzionale del 1998, che ha partorito una guida pratica comune per favorire un approccio congiun-to da parte degli organi comunitari al problema delle tecniche di legislazione, con regole sottoscritte dagli uffici giuridici di Parlamento, Commissione e Consiglio. Tale modus operandi è ormai diventa-to un metodo costante, ripreso da tutti i successivi Consigli UE (Lisbona 2000, Barcellona e Siviglia 2002, ecc…). L’approccio interistituzionale è una metodica la cui validità è stata confermata da una comunicazione (n. 278) del 2002 della Commissione.
Nel 2003 si è anche perfezionato un accordo interistituzionale sulla qualità del diritto comunitario, con cui l’attenzione si è spostata dal piano europeo al piano interno degli stati membri. Insieme alla comunicazione n. 278, è questo l’atto con cui, ai fini del miglioramento delle norme comunitarie, si passa da un piano tecnico ad uno più schiettamente politico: le prospettive sono di trasformare una sensibilità ed un modo di pensare in un’attitudine culturale. Le ottiche di intervento sono:

– il processo decisionale in senso stretto
– il processo decisionale in senso largo (analisi di fattibilità, metodiche di impatto della norma-tiva)

Negli anni 1997-2006 la Commissione ha iniziato a ritirare sempre più proposte normative da lei stessa presentate, mentre in un secondo tempo le ha automaticamente abrogate (è del 2004 la relativa guida all’abrogazione). Una terza fase (quella attuale) vede invece la Commissione preferire stru-menti meno invasivi rispetto all’abrogazione (quali l’apposizione alla proposta di una clausola di obsolescenza); contemporaneamente, gli organi comunitari hanno tentato di codificare l’acquis communautaire. Attualmente, la Commissione sta sviluppando importanti strumenti tesi a migliorare l’impatto della legislazione migliorando le analisi di fattibilità e la valutazione di impatto delle poli-tiche europee che si traducono in atti normativi (quest’ultima sempre più preferita dalla Commissio-ne, in base ad alcune sue comunicazioni del 2001 e del 2005). Concludendo, la prof.ssa Vedaschi ha affermato la residualità di direttive e regolamenti, risultati poco idonei a disciplinare determinate ma-terie in base al criterio della scelta dell’atto in base allo scopo da perseguire.

Il dott. Tito Gallas, dirigente del Consiglio dell’Unione europea, si è diffuso su “Aspetti politici e tecnici della produzione normativa comunitaria”. Il diritto comunitario è droit diplomatique, ed è un diritto “opaco” – quanto meno per il Consiglio di Stato francese, secondo il quale è valido “anche per quanto non dice”. Il dott. Gallas fa una notazione preliminare sugli accordi interistituzionali, che ov-viamente non possono modificare i trattati (mentre l’accordo interistituzionale del 2002 limiterebbe addirittura le prerogative normative del Consiglio). Un problema in più è costituito dalla originaria strutturazione delle Comunità Europee, in cui il ruolo del Parlamento, quando questo nacque nel 1979, era assolutamente nullo, e che è poi progressivamente cresciuto. Tale riallineamento dei rap-porti fra Parlamento e Consiglio è testimoniato anche dalla sedimentazione progressiva dei trattati internazionali: il vecchio art. 189b prefigurava un certo squilibrio a sfavore del Parlamento, il Tratta-to di Maastricht ne equiparava il ruolo a quello del Parlamento, il Trattato di Costituzione europea ne rafforza e favorisce il ruolo (forte valore simbolico è il fatto che gli atti di codecisione – secondo il Trattato costituzionale – siano firmati a Strasburgo). Ad ogni modo, sono continue le tensioni fra Parlamento e Consiglio; recentemente, infatti, il Parlamento europeo si è rifiutato di nominare i pro-pri membri in un gruppo di lavoro di alto livello, proprio per disaccordi con il Consiglio sull’interpretazione di determinate norme di procedura.
In questo contesto anche le oscurità tecniche della legislazione europea derivano in realtà da accordi politici (perché è il compromesso in sé ad essere determinato da ragioni metagiuridiche), e le even-tuali soluzioni potrebbero toccare ambiti disciplinati dagli stessi trattati (l’analisi d’impatto, per e-sempio, limita o no le prerogative parlamentari?).

E’ poi seguito il contributo della dott.ssa Luisa Domenichelli, funzionaria del Comitato delle Regio-ni, con la relazione “La partecipazione del Comitato delle Regioni alla produzione legislativa comu-nitaria”, in cui è stato rilevato come il valore aggiunto del Comitato delle Regioni derivi dall’estrazione regionale e locale dei suoi membri, e come esso sia stato il risultato delle battaglie delle regioni europee più forti (e come alla Commissione europea non ne fosse, all’inizio, chiaro il ruolo).
Negli ultimi quattro anni sono state introdotte nuove forme di governance: il concetto di multilevel governance è sicuramente migliore di quello di governance interistituzionale, per descrivere meglio le attuali dinamiche in seno agli organi comunitari. Un maggior coinvolgimento degli enti locali ser-ve, per la Commissione, a migliorare l’azione comunitaria, anche dal punto di vista della semplifica-zione normativa.
Rispetto ai pareri che fanno tradizionalmente parte della classica attività del Comitato, l’attuazione del Libro Bianco sulla governance ha introdotto pareri nuovi mediante la consultazione di uffici di rappresentanza degli enti decentrati presso gli organi europei, di studiosi, associazioni di enti locali, etc… E’ stata, inoltre, istituzionalizzata la consultazione di nuovi livelli di Enti locali, sebbene essi non vedano sufficientemente valorizzato il proprio ruolo.
Il nuovo Trattato costituzionale, positivizzando la prassi degli strumenti di governance, rafforzereb-be così il ruolo del Comitato delle Regioni, poiché renderebbe obbligatoria la motivazione della non consultazione (obbligo avversato dalla Commissione). Inoltre, il Comitato delle Regioni potrebbe ricorrere alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee nel caso in cui gli organi comunitari non lo consultassero, qualora si accerti che le condizioni per la consultazione sussistevano (ciò significa un coinvolgimento dei vari livelli di governo nella definizione del principio di sussidiarietà): quest’ultimo strumento viene visto con grande favore dal Comitato, poiché l’azione ne uscirebbe grandemente rafforzata, e con possibilità di tutela.

Quinta relatrice della giornata è stata la prof.ssa Alessandra Giannelli, docente all’Uninversità di Te-ramo la quale, nel suo intervento “La coppia (problematica) regolamenti/direttive tra diritto interna-zionale e diritto comunitario” ha analizzato la natura giuridica degli atti normativi comunitari di di-ritto derivato. La relatrice ha analizzato il problema da diverse prospettive: innanzitutto, dalle loro procedure di adozione si evince che direttive e regolamenti sarebbero qualificabili come classici atti internazionali, sebbene le loro fonti siano anche intergovernative. L’adozione a maggioranza, infatti, non è peculiare, mentre il criterio della ponderazione era stato adottato già dalla Confederazione del Reno del 1815; in conclusione, quindi, gli atti dell’Unione potrebbero avvicinarsi a quelli di classi-che organizzazioni internazionali. Chi confuta tale tesi interpreta, invece, l’ordinamento comunitario come originario. Per la prof.ssa Giannelli il diritto comunitario derivato non annovera atti qualifica-bili di diritto internazionale, ma le analogie non mancano (i trattati istitutivi, per esempio, sono clas-sici strumenti di diritto internazionale). Tuttavia, esiste la possibilità che i trattati possano essere mo-dificati dalla consuetudine o da un atto contrario. Un esempio di modifiche originate da prassi con-suetudinarie è l’applicazione dell’art. 308 (vecchio 235) del Trattato CE, che permette agli organi della Comunità di avocare competenze non nominate fintantoché tutti gli Stati membri siano concor-di: sebbene la Corte di Giustizia abbia sostenuto il ricorso residuale all’art. 308, la prassi continua ad essere quella di un’applicazione estensiva della norma (ad esempio, sono state ritenute legittime – ex art. 308 – le misure nei confronti dei individui nell’ambito della disciplina comunitaria sul terrorismo recentemente promulgata). Tali dinamiche si verificano in quanto (al contrario delle classiche regole di diritto internazionale) il rapporto gerarchico fra norme di diritto originario e di diritto derivato, nell’ambito comunitario, non è così chiaro.

L’ultima relazione programmata di questa prima sessione è stata “La coppia (ipotetica) legge/legge quadro europea e la ricerca di altri strumenti normativi nel progetto di Trattato costituzionale”, a cu-ra della dott.ssa Lucia Scannella dell’Università di Teramo, in cui si la relatrice ha notato come la Convenzione che ha redatto il progetto di Costituzione europea abbia proceduto ad una ricomposi-zione sistematica delle fonti: lungi dall’essere un mero intervento tecnico, si è deciso di riagganciarsi alle fonti fondamentali. Subentrano infatti forme legislative tipiche generali (legge e legge/quadro), e viene disciplinata compiutamente la riserva di legge.

La seconda sessione del Convegno si è aperta la mattina di sabato 29 aprile, è stata presieduta dal prof. Paolo Mengozzi, Giudice del Tribunale di primo grado della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, ed è stata incentrata su “La ricezione del diritto comunitario in Italia a livello centrale e pe-riferico”.

Il primo intervento è stato tenuto dal prof. Vincenzo Cerulli Irelli, docente di diritto amministrativo presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università “La Sapienza” di Roma. Nella sua relazione (“Dalla legge La Pergola alla legge n.11/2005, passando per la riforma del Titolo V Cost.”), il prof. Cerulli Irelli ha affrontato una nutrita serie di interessantissime tematiche, proponendone innovative e stimolanti interpretazioni.
Innazittutto, rimane attualissima la riflessione di Santi Romano sulla pluralità degli ordinamenti giu-ridici. Con la riforma del Titolo V, vi sono ora in Italia due ordinamenti:

– statale
– regionale

entrambi soggetti alla sola Costituzione, che frantumano la sovranità statale storicamente formatasi.
Per quanto concerne il principio del primato del diritto UE sul diritto interno (modellato innanzitutto dalla giurisprudenza), esso è stato forse applicato troppo estesamente vigente il principio di attribu-zione. Nell’impianto della Costituzione europea il primato convive con il principio di attribuzione: in tale ottica l’art. 308 non autorizza affatto il travalico delle materie. Al contrario, esso è stato interpre-tato come una norma che tutto consente, anche con l’avallo dei governi nazionali, che riescono in sede europea ad ottenere quello che i rispettivi Parlamenti non concedono loro.
La modalità tecnica del primato è la disapplicazione: la norma interna contrastante si ritiene non ap-plicabile; l’operatore, l’interprete amministrativo/amministratore sono chiamati ad applicare il diritto UE. E stabiliscono loro qual è l’ordinamento la cui norma deve essere applicata. In questo modo, tuttavia, si perde lo schema della rigidità della legge, poiché è l’interprete stesso ad accertare il con-trasto; invece di sottoporre la questione alla Corte costituzionale, un giudice “passerà la palla” al giudice comunitario, mentre la Pubblica Amministrazione dovrà adire un giudice nazionale, che tra-smetterà gli atti al giudice comunitario, etc… In questo contesto, la sent. 232 del 1989 della Corte costituzionale mostra come le Corti costituzionali tendano a riappropriarsi del sindacato sulla scelta dell’ordinamento e sui principi: si tratta di giurisprudenza che manifesta l’insofferenza delle corti.
Analoga insofferenza emerge anche dai Parlamenti nazionali, che percepiscono una rottura del prin-cipio di rappresentanza (la normativa comunitaria che bypassa i Parlamenti): la Costituzione per l’Europa cercava di ridare ai parlamenti un ruolo più importante nel procedimento legislativo comu-nitario.
Così sono insofferenti le regioni nei confronti di istituzioni comunitarie che legiferano su materie di loro competenza legislativa, ma che sono però composte da soli rappresentanti dei governi nazionali.
Per quanto concerne l’ambito nazionale, la legge costituzionale 3/2001 ha introdotto profondi muta-menti. Innanzitutto, ora ad essere vincolate ai precetti comunitari (ex art. 117 comma 1 n.f.) sono sia le leggi statali che le leggi regionali, in maniera immediatamente precettiva idonea a dar luogo ad eccezioni di costituzionalità. La riforma, tuttavia, non si occupa dei rapporti fra Governo e Parla-mento nella formazione delle norme comunitarie: lacuna che è toccato alle leggi ordinarie colmare.
Infine, i rapporti fra Europa e Regioni sono disciplinati in tre diverse fonti costituzionali: il comma 1 (che è un vincolo per tutti i legislatori), il comma 3 (su rappresentanze, contatti, rapporti informali: non è ancora stato attuato) ed il comma 5 (che conferisce alle Regioni il potere di attuare, nelle mate-rie di loro competenza, il diritto derivato UE), attuato dalla legge 11/2005.

Il secondo intervento della giornata è stato dedicato a “L’attuazione del diritto comunitario nelle ma-terie di competenza regionale dopo la legge 11/2005”, ed è stato tenuto congiuntamente da Gianpao-lo Parodi, docente di Diritto pubblico comparato e Diritto regionale presso l’Università degli Studi di Pavia (facoltà di Giurisprudenza), e dalla dott.ssa Maria Enrica Puoti, consigliere giuridico del Mini-stro per le politiche comunitarie. La prima parte della relazione, condotta dal prof. Parodi, ha indivi-duato come assioma che l’efficienza della partecipazione regionale alla fase discendente è propor-zionale alla partecipazione alla fase ascendente in sede sia nazionale che comunitaria: si potrebbe dunque configurare un regionalismo a più velocità. La legge 11 consolida la partecipazione regionale alla fase ascendente, garantita mediante i decreti attuativi; un problema è capire se saranno coinvolti da ciò anche i diritti partecipativi alla fase discendente.
La legge 11 configura un’attuazione regionale e un’attuazione statale delle direttive comunitarie (nelle materie di competenza regionale): la seconda sostitutiva della prima. L’attuazione regionale è, tuttavia, vincolata al rispetto di principi fondamentali espressamente formulati (riprendendo una pre-visione della legge La Pergola). La legge comunitaria 2006, infatti, contiene un’espressa predetermi-nazione di principi fondamentali (mentre precedentemente il legislatore statale preferiva desumerli dal diritto comunitario e dai principi nazionali della materia): si tratta di un importante dato soprat-tutto sul piano della prassi legislativa. Le norme sulla fase discendente, invece, sono significative ma non pervasive; si può annoverare l’obbligo di richiamare gli estremi della direttiva attuata dalla Re-gione, mentre la Conferenza delle regioni è incaricata di trasmettere periodicamente un elenco dei provvedimenti di recepimento delle direttive (con un implicito riconoscimento delle leggi comunita-rie annuali regionali). Ovviamente, lo stato di recepimento varia a seconda del grado di sviluppo del-le rispettive amministrazioni regionali.
Per quanto concerne l’attuazione statale sostitutiva, il prof. Parodi ha sottolineato come la legge 11 riproponga lo schema del regolamento governativo e ministeriale a carattere cedevole, con funzione garantista (anche in base ad orientamenti del Consiglio di Stato). La strada maestra da seguire – già tracciata dalla Corte costituzionale con la decisione n. 425/1999 – è la sostituzione anticipata senza il passaggio in Conferenza Stato-Regioni (mentre la legge comunitaria 2006 opterebbe per tale prati-ca). Tuttavia, la tensione potrebbe manifestarsi non solo in caso di inerzia, ma anche in caso di vio-lazione: con la conseguenza di un varo di misure sostitutive a competenze regionali esercitate, che però non sembra essere uno dei casi contemplati per l’esercizio della normazione sostitutiva. Tanto più importante sembra, quindi, l’impugnazione governativa delle leggi regionali di attuazione fatta entro i termini processuali.
La dott.ssa Puoti rileva come gli artt. 2 e 5 della legge 11 abbiano introdotto diverse forme di parte-cipazione delle Regioni, nonché un organo ad hoc quale il CIACE: l’art. 2 della legge 11 prevede che al Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei partecipino, oltre ai titolari di de-terminati dicasteri già individuati, quei ministri che abbiano “competenza nelle materie oggetto dei provvedimenti e delle tematiche inseriti all’ordine del giorno” (comma 1), mentre l’intervento dei rappresentanti delle regioni è valido ogni qualvolta all’ordine del giorno vi siano questioni di interes-se regionale (e quindi può trattarsi anche di temi generali) (comma 2). Questo secondo comma pone alcuni problemi: innanzitutto, su chi valuta l’interesse delle Regioni, ed in base a quali criteri. Per quanto riguarda il rispetto della normativa comunitaria da parte dell’ente regione, il vero problema (come già sottolineato dal prof. Parodi) non riguarda l’inerzia bensì la violazione, riguardo a cui, an-che in presenza di sentenze di condanna della Corte di Giustizia, continua a sussistere il problema della loro esecuzione nei confronti degli Stati. Inoltre: potrebbe configurarsi un diritto di rivalsa ver-so gli enti che non hanno adempiuto azionato dallo Stato?
Un’ipotesi di esecuzione di eventuali sentenze di condanna contro l’Italia potrebbe servirsi degli strumenti di intesa previsti per la fase ascendente, quali i tavoli di coordinamento ex art. 5 comma 7.

La comunicazione della dott.ssa Manuela Pistoia, ricercatrice dell’Università di Teramo, ha sinteti-camente affrontato i problemi delle tecniche di normazione delle direttive-quadro nelle decisioni del III pilastro (cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale).

La prof.ssa Marina Calamo Specchia, titolare dell’insegnamento di Diritto costituzionale nella Fa-coltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari, si è invece soffermata su “Le tecniche di attuazione del diritto comunitario in Francia”, paese in cui l’attuazione del diritto comunitario è affidata al cir-cuito Parlamento-Governo; gli artt. 54-55 della Costituzione pongono una gerarchia tra:

– Costituzione
– Trattati internazionali

In base al meccanismo di recepimento del diritto comunitario, gli atti di diritto derivato non sono sindacabili dal Consiglio costituzionale: per loro vale una “presunzione di costituzionalità”. Un con-trollo può esercitarsi sul testo normativo che trasponga la direttiva: in quel caso, all’obbligo di una trasposizione fedele si oppone in ogni caso il vincolo di non avere un contenuto contrario ai principi repubblicani (quali la non discriminazione, la laicità, etc…). Per quanto concerne i rapporti fra dirit-to comunitario ed enti territoriali francesi, essi sono molto labili in quanto anche le regioni, in Fran-cia, rivestono il puro ruolo di enti di gestione. Una possibilità per accrescerne l’influenza potrebbe risiedere nella riforma del Senato, che attualmente annovera invero rappresentanti di comunità locali, ma si tratta di delegazioni di tipo municipale.
In questo panorama normativo, è stata la giurisprudenza del Consiglio costituzionale ad essere la ve-ra artefice delle metabolizzazioni costituzionali.

“Forme e problemi dell’attuazione del diritto comunitario in Gran Bretagna” è stato il tema dell’intervento del prof. Alessandro Torre, docente di Diritto costituzionale presso la facoltà di Giu-risprudenza dell’Università di Bari, in cui il punto nodale è stato il problematico rapporto fra Sove-reignty of Parliament ed Unione europea (definito “il problema”). L’entrata del Regno Unito nelle Comunità Europee del 1972, infatti, ha reso applicabili migliaia di atti comunitari: uno shock per un sistema di grande autoreferenzialità. Più specificamente, l’applicazione diretta è stata dettata dall’art. 2 dello European Communities Act: si tratta di una norma fondamentale che ha vincolato l’attività anche dei parlamenti successivi a quello che ha emanato l’atto. Effetti sono stati:

– razionalizzazione del sistema costituzionale
– una risistemazione della struttura della Camera dei Lord
– l’introduzione di una Corte suprema (2005)
– la progressiva applicazione della devolution (che, in Scozia, ha riguardato materie che tocca-no materie di competenza anche comunitaria, e per le quali si è scelta una strada di intese e concordati per appianare le rispettive divergenze)

L’ultimo intervento della giornata è stato affidato al prof. Antonio D’Atena (titolare della cattedra di Diritto costituzionale alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “Tor Vergata”), che si è concentrato su “Rapporti tra Unione europea ed entità substatali in prospettiva comparata”. La rela-zione del prof. D’Atena ha operato una sintesi e tratto delle conclusioni dai lavori delle due giornate di incontro. E’ stato evidenziato come, nel processo di integrazione europea, il nodo delle regioni sia difficile da sciogliere: nella dimensione substatale, infatti, permangono logiche opposte e conflittuali (tendenza al centralismo in ambito europeo, al decentramento in ambito regionale). Vi è, quindi, una reciproca tensione, che assunse caratteri drammatici all’inizio dell’impatto fra Länder tedeschi e di-ritto UE (la cui tendenza era per una provincializzazione dei primi, ad esempio sull’agricoltura, com-binata alla perdita dei poteri di influire sulle politiche dello stato centrale ed alla perdita di tutele giu-ridiche).
Per quanto concerne l’Italia, le regioni hanno perso determinate competenze a favore del centro, e sono state “comunitarizzate” altre, determinate competenze substatali. Per Ypsen non considerare le regioni è una patologia dell’ordinamento comunitario; ma l’entrata nell’Unione di altri ordinamenti federali o quantomeno decentralizzati (Spagna, Portogallo, Austria) riduce questo processo di pro-vincializzazione. E’ il consiglio europeo di Maastricht che introduce alcune novità volute dagli enti substatali:

– al Consiglio dei Ministri gli stati possono farsi rappresentare anche da enti substatali (ed at-tualmente tutti gli stati membri – tranne il Portogallo – lo prevedono)
– viene istituito il Comitato delle Regioni
– viene introdotto il principio di sussidiarietà

Il Trattato di Roma sulla Costituzione europea rafforzerebbe ulteriormente il Comitato delle Regioni ed il principio di sussidiarietà: indipendentemente dalla sua entrata in vigore, esso rappresenterà co-munque un importante punto di partenza.
Dal punto di vista della fase ascendente, essa è regolata dagli ordinamenti nazionali. E ciò determina una disparità di trattamento: la regolamentazione della partecipazione italiana al Comitato delle Re-gioni è indubbiamente deteriore rispetto ad altri paesi membri, ad esempio rispetto a quella tedesca, in cui ogni Land ha un rappresentante e poi vi sono cinque rappresentanti a rotazione, destinati a tur-no ai Länder più popolosi, o in cui ogni Land dispone di rappresentanze che possono essere utilizza-te a titolo individuale.
In merito alla fase discendente, negli stati federali e regionali la competenza ad attuare la normativa comunitaria segue le normali regole sulla competenza. Problematica è l’eventuale tutela giurisdizio-nale degli enti substatali avanti ad organi giurisdizionali comunitari, viste le discordanze interpreta-tive circa la legittimazione o meno degli enti substatali ad adire la Corte di Giustizia delle Comunità Europee (risolta da ultimo con decisione 417/04).

A chiusura del Convegno tramano, sono intervenuti Giorgio Lembeck, dottorando di ricerca dell’Università di Teramo (con una comunicazione sull’attuazione in via regolamentare delle diretti-ve da parte degli statuti regionali), Anna Ciammariconi, dottoranda di ricerca dell’Università di Ge-nova (con una comunicazione sulle tensioni evolutive che hanno caratterizzato le leggi comunitarie italiane), ed infine Sabrina Ragone, dottoranda di ricerca all’Università di Pisa (con una comunica-zione sulla partecipazione agli organi comunitari da parte delle regioni italiane e delle comunità au-tonome spagnole, così come risultante dalla rispettiva disciplina statutaria).

Giorgio Giuliano