Sin dall’entrata in vigore della legge n. 241 del 1990 è stata dibattuta, in dottrina come in giurisprudenza, la natura giuridica del diritto d’accesso ai documenti amministrativi. Con la decisione n. 6 del 18 aprile 2006, però, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato non ritiene utile pronunciarsi, ai fini della quaestio sottoposta al suo esame, in ordine alla natura giuridica della posizione fatta valere.
L’Adunanza Plenaria rievoca la decisione del 24 giugno 1999, n. 16, con la quale ha condiviso la tesi della configurabilità della posizione legittimante all’accesso in termini di interesse legittimo, sottolineando il collegamento della posizione del privato con l’interesse pubblico e facendo leva sulla struttura impugnatoria del giudizio. La questione è rimasta aperta anche dopo il citato intervento, rinvenendosi nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, insieme a pronunce in linea con la decisione suddetta (Sezione quinta, 1969/04 e 5034/03), decisioni che propendono ancora per la configurabilità dell’accesso in termini di interesse legittimo (Sezione sesta, 1679/05 e 2938/03).
A seguito della novella legislativa introdotta dalle leggi 11 e 80 del 2005, il diritto d’accesso sembra però assumere consistenza di diritto soggettivo, laddove, ai sensi dell’art. 22, comma 2, della modificata legge 241/1990, si qualifica il diritto d’accesso come inerente “ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. La “tesi del diritto soggettivo” risulterebbe poi corroborata dalla riconduzione del giudizio in tema di accesso alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, così come stabilito dal nuovo art. 25, comma 5, della legge 241/1990, modificato dalla legge 80/2005.
Sostenere poi che la natura giuridica di interesse legittimo discenda dalla previsione di un termine decadenziale, non appare in sintonia con la legislazione sul procedimento introdotta nel 2005. Attraverso la decadenza, infatti, non emerge una scelta legislativa in ordine alla natura giuridica del diritto d’accesso, ma un criterio discrezionalmente scelto al fine di risolvere un conflitto tra posizioni giuridiche configgenti.
Che sia interesse legittimo o diritto soggettivo, l’esercizio di tale diritto soggiace pertanto al termine decadenziale previsto dalla legge sul procedimento (art. 25 della legge 241/1990), e la decadenza prevista ha ad oggetto non il singolo provvedimento ma la decisione sostanziale assunta.
Pertanto, ad avviso della Plenaria, la soluzione da dare alla fattispecie concretamente presa in esame (in cui il ricorrente ha reiterato la propria istanza d’accesso agli atti amministrativi in seguito ad una prima pronuncia della P.A. competente, non rispettando i termini previsti dall’art. 25 della l. 241/1990), non richiede una pregiudiziale analisi condotta sulla natura giuridica del diritto fatto valere: il termine di decadenza, infatti, prescinde dalla qualificazione dell’azione giuridica soggettiva a monte.
L’accesso risulta dunque essere collegato ad una riforma di fondo dell’amministrazione, informata ai principi di pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa, che si inserisce a livello comunitario nel più generale diritto dei cittadini all’informazione dei cittadini rispetto all’organizzazione e all’attività amministrativa. In tale contestano, si creano ambiti soggettivi normativamente riconosciuti di interessi giuridicamente rilevanti, anche in contrapposizione tra loro: interesse all’accesso, interesse alla riservatezza dei terzi, tutela del segreto, ossia situazioni soggettive di carattere essenzialmente strumentale.
Il giudizio a struttura impugnatoria consente alla tutela giurisdizionale dell’accesso di assicurare la protezione dell’interesse giuridicamente rilevante e, al contempo, quell’esigenza di stabilità delle situazioni giuridiche e di certezza delle posizioni dei controinteressati pertinenti ai rapporti amministrativi scaturenti dai principi di pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa.
Nel caso in esame, il disposto legislativo (art. 25, commi 4 e 5 della legge 241/1990) che fissa il termine di trenta giorni per la proposizione dei ricorsi e qualifica intermini di diniego il silenzio riserbato sull’accesso, pone un termine all’esercizio dell’azione giudiziaria da ritenere necessariamente posto a pena di decadenza. Il carattere decadenziale del termine, poi, comporta che la mancata impugnazione del diniego nel termine non consenta la reiterabilità dell’istanza e la conseguente impugnazione del successivo diniego laddove a questo possa riconoscersi carattere mediamente confermativo del primo.
Il cittadino potrà dunque reiterare l’istanza solo in presenza di fatti nuovi, sopravvenuti o meno, non rappresentati nell’originaria istanza. Qualora quindi non ricorrano elementi di novità e il cittadino si limiti a reiterare l’originaria istanza precedentemente respinta o, al più, a illustrare ulteriormente le sue ragioni, l’amministrazione ben potrà limitarsi a ribadire la propria precedente determinazione negativa, non potendosi immaginare, anche per ragioni di buon funzionamento dell’azione amministrativa in una cornice di reciproca correttezza dei rapporti tra privato e amministrazione, che l’amministrazione sia tenuta indefinitamente a prendere in esame la medesima istanza che il privato intenda ripetutamente sottoporle senza addurre alcun elemento di novità.
Nel caso di specie, il ricorso dell’appellato risulta pertanto inammissibile, in quanto proposto avverso il solo diniego dell’amministrazione, da reputare meramente confermativo di quello precedente e, quindi, sottoposto al termine decadenziale che non è però stato rispettato.