Le regole del diritto parlamentare nella dialettica tra maggioranza e opposizione – Resoconto convegno

27.03.2006

Il 17 marzo 2006, a Roma, nella sala Igea dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, si è svolto un seminario di studio, organizzato dal Centro studi sul Parlamento della Luiss Guido Carli e dal Dottorato di ricerca in Diritto costituzionale e Diritto costituzionale europeo dell’Università di Teramo, sul tema “Le regole del diritto parlamentare nella dialettica tra maggioranza e opposizione”.

Il seminario si è aperto con una breve presentazione del senatore Luigi ZANDA, il quale ha ricordato il ruolo fondamentale svolto dai regolamenti parlamentari all’interno dell’ordinamento; a questo proposito ha descritto la ratio della proposta di riforma regolamentare presentata nel giugno 2005, di cui è primo firmatario, il cui iter si è arenato dopo l’approvazione della legge elettorale (A.S., XIV legislatura, doc. II, n. 16). La presentazione di tale proposta di riforma del regolamento era basata sull’esigenza di adeguare i regolamenti al sistema elettorale (in senso maggioritario), in quanto un cattivo uso del regolamento parlamento non giova né alla maggioranza né all’opposizione. Il senatore Zanda, in questa ottica, ha sostenuto la necessità di rivedere alcuni quorum di elezione, e segnatamente quelli per l’elezione dei Presidenti di Assemblea e di Commissione, al fine di garantire che gli stessi svolgano effettivamente un ruolo arbitrale. In ultima analisi ha posto l’accento sulla necessità di evitare che particolari decisioni vengano adottate con una maggioranza sostanzialmente “politica”, quali ad esempio i giudizi sulla questioni pregiduziali di costituzionalità dei progetti di legge e quelli in tema di copertura finanziaria. In questo senso, una modifica dei regolamenti parlamentari potrebbe servire a limitare gli abusi della politica.

E’ seguita poi una introduzione del professore Leopoldo ELIA, il quale ha sottolineato che il titolo del convegno è assai più ampio rispetto al tema delle riforme regolamentari, dato che il diritto parlamentare consta anche di prassi e regole non scritte. La complessità del tema è dimostrata anche dal peculiare ruolo esercitato dalle leggi elettorali, le quali incidono sulla struttura e sul funzionamento delle Camere. A questo proposito si è domandato se l’eccezionale potere numerico che la maggioranza ha avuto nel corso della XIV Legislatura possa essere considerata un’esperienza in via d’esaurimento, e se debbano essere esaminati anche altri istituti lontani dal principio maggioritario in senso stretto, ma idonei a sollevare problemi rilevanti: come, ad esempio, il tema della verifica dei poteri e il contrasto tra giurisprudenza parlamentare e costituzionale sulle pronunce di insindacabilità. Ad ogni modo, il rischio nel diritto parlamentare è che ciò che nasce come eccezione possa diventare la regola.

All’introduzione del professore Elia hanno fatto seguito una serie di relazioni, volte a dare conto dei principali istituti del diritto parlamentare all’indomani delle legislature della transizione e del maggioritario.

Nicola LUPO, professore della Luiss Guido Carli di Roma, affrontando il tema Emendamenti, maxi-emendamenti e questione di fiducia, ha osservato come il caso della posizione della questione di fiducia sui maxiemendamenti rappresenti un esempio del rischio del consolidarsi di “cattive pratiche” nei procedimenti parlamentari. Infatti, in mancanza di una codificazione dei precedenti parlamentari, si moltiplicano precedenti atipici che si allontanano progressivamente dai principi costituzionali. In merito ai maxiemendamenti, il professore Lupo ha precisato che, se è vero che la loro esistenza era già nota prima delle legislature del maggioritario, nella legislatura appena conclusa si sono registrati casi di leggi finanziarie contenenti prima decine di articoli, poi quattro fino ad uno solo, cui è stata abbinata la posizione della questione di fiducia. Il pericolo è, quindi, quello del consolidamento del precedente peggiore, incentivato dalle grosse divergenze tra le prassi delle due Camere: si pensi alla diversa tempistica in merito alla discussione della questione di fiducia o ancora al vaglio di ammissibilità degli emendamenti, che il presidente del Senato non svolge .
Il relatore ha proseguito soffermandosi su due questioni metodologiche: in primo luogo, ha dichiarato di voler tralasciare le pur importanti conseguenze sul piano della tecnica legislativa e di qualità della legislazione; in secondo luogo, rileva che il potere di emendamento non può considerarsi di per sé buono, per cui ben possono essere posti dei limiti a siffatto potere a garanzia della tenuta delle regole del diritto parlamentare. Nella Costituzione italiana il potere di emendamento non è espressamente disciplinato, ma si desume dagli articoli 70, 72 e 81; diversa appare l’impostazione della Costituzione francese, nella quale il potere di emendamento è stato previsto, originariamente a fini di limitazione, ma producendo poi anche importanti effetti in termini di tutela (come mostra la giurisprudenza del Conseil Constitutionnel). Ripercorrendo l’evoluzione dei maxiemendamenti, il professore Lupo ha precisato che essi nascono già nella I legislatura, ma in un contesto normativo assai diverso dall’attuale, in cui le possibilità ostruzionistiche erano pressoché infinite. Dalla posizione della questione di fiducia, inizialmente assai contrastata, sono stati allora fatti discendere, mediante una autolimitazione delle Camere, una serie di effetti procedurali tali da derogare ai principi cardine del procedimento legislativo (dall’ordine di votazione degli emendamenti al principio istruttorio in Commissione): se la questione di fiducia viene abbinata ai maxiemendamenti le deroghe si rivelano essere ancora più gravi e pericolose. Durante la XIV legislatura si è verificato un uso improprio della questione di fiducia, posta su testi non adeguatamente “meditati”, come dimostrano i ripetuti giudizi di inammissibilità del Presidente della Camera, i pareri contrari della Commissione Bilancio del Senato e le modifiche subite dai testi durante le varie letture (il che evidentemente contrasta con la logica stessa della questiondabilitàne di fiducia e della conseguente regola dell’inemendabilità).

Raffaele PERNA, consigliere della Camera dei deputati, parlando del tema Il ruolo delle Commissioni parlamentari nel procedimento legislativo, ha tratteggiato la recente evoluzione dei poteri delle Commissioni parlamentari, partendo dall’art. 72 Cost., che stabilisce, caso quasi unico nel panorama comparatistico, il principio della indefettibilità dell’esame in sede referente, nonché la possibilità di attivare la sede legislativa. Tali disposizioni sono il risultato del particolare clima dell’Assemblea Costituente, nel quale il ruolo del Parlamento è stato rafforzato a scapito di quello del Governo; non è un caso, inoltre, che le Commissioni permanenti si siano affermate nell’ordinamento statutario proprio in seguito alla introduzione della riforma elettorale proporzionale. La prassi parlamentare ha valorizzato il ruolo delle Commissioni competenti, in quanto detentrici di fatto di iniziativa legislativa: le Commissioni, infatti, elaborano un proprio testo, guidano il processo legislativo in assemblea, presentano emendamenti fino al momento del voto, danno pareri sugli emendamenti.
Nel corso degli anni ’90 si è registrata invece una spinta evolutiva differente, dovuta innanzitutto ad una dialettica maggioranza/opposizione più aspra e al nuovo assetto dei poteri del Governo. Un fattore contingente di discontinuità è rappresentato dalle ricadute del processo di unificazione monetaria, che ha determinato un maggiore rigore nella copertura finanziaria delle leggi e minori risorse disponibili per l’iniziativa parlamentare. Inoltre, nel processo di integrazione europea si esalta il ruolo dell’esecutivo quale attore della negoziazione tra gli Stati. Un ulteriore elemento contingente è la riforma del Titolo V della Costituzione, specialmente per quanto riguarda il piano dei confini della legislazione statale, la cui individuazione ha coinvolto in misura maggiore il Governo, anche a seguito sulla mancata attuazione dell’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001. Le conseguenze dei processi delineati hanno determinato una marginalizzazione delle Commissioni, una minore quantità di leggi approvate in sede legislativa e un aumento del ricorso alle deleghe legislative per sviluppare progetti di riforma più ampi. L’arretramento delle Commissioni è stato più evidente nei settori in cui la maggioranza si presentava compatta, e, quindi, più saldo era il legame fiduciario; al tempo stesso, si è potenziato il linea generale il potere consultivo delle Commissioni, specie sugli schemi di decreti legislativi. Su questi ultimi le Commissioni esercitano una funzione di controllo che talvolta diventa di co-legislazione; inoltre, si è sviluppata l’istruttoria legislativa in Commissione, finalizzata anche a verificare la qualità redazionale dei testi del Governo, nonché la correttezza dei dati forniti dall’Esecutivo. Stanti questi recenti approdi, il relatore si è domandato se abbia ancora senso mantenere la riservatezza o comunque la pubblicità solo sommaria dei lavori delle Commissioni e dei comitati ristretti, pensata quando le Commissioni erano organi decisionali, dato che le stesse potrebbero essere valorizzate proprio potenziando quella funzione di controllo assunta nelle ultime legislature.

Stelio MANGIAMELI, professore nell’Università di Teramo, trattando del tema Le Regioni in Parlamento: sulle conseguenze della mancata integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali, ha descritto il rapporto tra le Regioni e le Camere alla luce della mancata attuazione dell’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001. Mentre l’art. 126 dellaa Costituzione prevede che la disciplina della Commissione bicamerale per le questioni regionali sia determinata con legge, il citato art. 11 rimanda l’integrazione della suddetta Commissione ai regolamenti parlamentari. Nella XIV legislatura le due Giunte per il regolamento di Camera e Senato hanno istituito un comitato (cd. “Comitato Mancino”), nel quale si è raggiunto un accordo sia sulla composizione della Commissione integrata sia sul modo di procedere. In realtà, in seno agli organi regionali si è manifestata una certa tensione, dovuta specialmente alla volontà dei Presidenti delle Giunte di nominare gli eventuali membri della Commissione integrata, in contrasto con la logica di una rappresentanza “dei legislatori”.
Attualmente, nel sistema italiano, pertanto, il circuito della rappresentanza delle Regioni si è sviluppato solo sul piano degli esecutivi tremite il meccanismo delle Conferenze, senza però alcun collegamento con l’attività di produzione normativa parlamentare. Attraverso le Conferenze, il Governo è andato acquistando una forza contrattuale maggiore di fronte al Parlamento, ma le Regioni restano comunque prive di poteri di emendamento, lasciando irrisolto il tema dell’eventuale seconda Camera.
La questione è poi complicata dal disegno di legge n. 2544-B di riforma costituzionale, nel quale non vi è un’espressa abrogazione dell’art. 11 della legge cost. n. 3 del 2001. Pur volendo ammettere una sorta di abrogazione indiretta in virtù dell’eliminazione nel progetto di riforma della stessa Commissione bicamerale per le questioni regionali, pare non idoneo sul piano delle fonti un meccanismo di abrogazione tacita di norme costituzionali. Inoltre, le disposizioni del citato disegno di legge costituzionale n. 2544-B relative al Senato delle Regioni entreranno in vigore nel 2016, aprendo una lunga fase di incertezza tale da indurre l’interprete a prefigurare un’abrogazione differita dell’art. 11 della legge cost. n. 3/01. Il professore Mangiameli ha concluso perciò con un invito a riprendere le fila del discorso sulle riforme dei regolamenti parlamentari per l’attuazione del citato art. 11, al fine di evitare il verificarsi di una pericolosa precarietà costituzionale.

La relazione successiva, sul tema Le competenze delle commissioni permanenti, alla luce della riforma dei Ministeri e della revisione del Titolo V Cost., è stata svolta da Mario MIDIRI, consigliere del Senato della Repubblica, il quale ha anzitutto concordato con il dott. Perna sulla riduzione del peso delle Commissioni permanenti dopo il 1993 e ha lamentato la mancata integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali con rappresentanti di Regioni e enti locali. Ha segnalato, tuttavia, che le prassi parlamentari hanno valorizzato i pareri delle Commissioni Affari costituzionali sulla questione del riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni.
Nonostante ciò, si registra una perdurante produzione legislativa statale in materie di competenza regionale, sia per la difficoltà di individuazione dei confini delle cosiddette “materie trasversali”, sia per l’attesa che la Corte costituzionale svolgesse una funzione di arbitro, come ha dimostrato nella sent. n. 303 del 2003. Il dato che rileva nelle procedure parlamentari è una minore tendenza dell’Assemblea – a differenza delle Commissioni – ad auto-limitarsi a favore di spazi di normazione regionale. Le Commissioni, dal canto loro, hanno ascoltato assai di frequente le Regioni attraverso le audizioni informali o in sede di indagini conoscitive: tali strumenti, se da un alto garantiscono una considerevole snellezza procedurale, dall’altro non permettono un’adeguata visibilità e non impegnano gli attori politici regionali nel processo legislativo. Di conseguenza, fino ad ora, la cooperazione tra Stato e Regioni si è realizzata o attraverso il sistema delle Conferenze, o tramite i giudizi della Corte costituzionale. Tale incertezza nella definizione dei ruoli è perciò la spia di un processo ancora aperto di assestamento e risente di una mancata riforma del sistema delle Commissioni.

Nella seconda parte del seminario, Luigi GIANNITI, consigliere del Senato della Repubblica, intervenendo sul tema Gruppi e componenti politiche, tra un sistema elettorale e l’altro, ha ricordato come la dottrina (in particolare, D’Alimonte e Ceccanti) abbia efficacemente dimostrato la prevedibile incapacità del nuovo sistema elettorale di porre un argine alla frammentazione politica. Ciò è dovuto al fatto che la clausola di sbarramento, la cui entità è stata fissata al 2%, si configura come un argine agevolmente aggirabile: da un lato, per il tramite dell’aggregazione tra più sigle, e, dall’altro, attraverso l’inserimento nelle liste dei maggiori partiti o coalizioni, in posizione “sicura”, di esponenti di liste minori coalizzate. Venendo ad un’analisi dei prevedibili effetti della legge elettorale sulla formazione dei gruppi parlamentari, il dott. Gianniti ha sottolineato come, in ragione dell’entrata in vigore del nuovo sistema elettorale, potrebbero tornare pienamente applicabili quelle disposizioni regolamentari di Camera e Senato (artt. 14) che autorizzano la costituzione di gruppi parlamentari con un numero inferiore di senatori e deputati e che, a causa del fatto che la competizione elettore fosse tutta giocata nei collegi uninominali e non tra le liste, sono state, nella prassi delle legislature del maggioritario, quasi completamente disapplicate.
In considerazione di tale profilo, il numero dei gruppi presenti dovrebbe incrementarsi, tenuto ulteriormente conto della possibilità di utilizzare la disposizione che autorizza la costituzione di componenti politiche del gruppo misto. E’ pertanto plausibile, in definitiva, prefigurare uno scenario nel quale le norme e le prassi costruitesi nel sistema proporzionale e quelle consolidatesi nel maggioritario si sommino, proprio nel momento in cui nella legge elettorale si prevede la nozione di coalizione. Peraltro, questa competizione tra coalizioni potrebbe anche tradursi in un’articolazione più semplice del panorama parlamentare, attraverso la costituzione di due soli gruppi corrispondenti alle due maggiori coalizioni. Per il regolamento della Camera, una soluzione ipotizzabile appare quella di una rivisitazione dell’art. 14 del regolamento, volta a superare la contraddizione esistente tra la possibilità di costituire gruppi minori e quella di formare componenti del gruppo misto.
Al Senato, la situazione si presenta meno complessa, in considerazione della presenza di una “clausola di sbarramento” alla formazione di gruppi immediatamente e pienamente applicabile. Tuttavia, non mancano fattori che potrebbero determinare una proliferazione del numero dei gruppi parlamentari – su tutti, la questione dei senatori eletti nella circoscrizione Estero – causando l’alterazione della rappresentanza proporzionale all’interno delle Commissioni parlamentari permanenti. In definitiva, anche al Senato potrebbe essere ipotizzabile una revisione della normativa regolamentare sui gruppi volta ad incentivare la formazione di gruppi di coalizione.

Eduardo GIANFRANCESCO, professore nelle Università di Teramo e LUMSA di Roma, intervenendo su Il ruolo dei Presidenti delle Camere, tra soggetti politici e arbitri imparziali, ha ricordato come la dottrina da tempo abbiano parlato, con riferimento alla figura del Presidente d’Assemblea, di un Giano bifronte (Federico Morhoff e, più recentemente, Alessandro Torre). Ciò deriva dal fatto che questi è, dal lato interno, la suprema magistratura parlamentare e il garante della legalità parlamentare; dall’altro, il Presidente d’Assemblea si può porre quale soggetto esponenziale dell’indirizzo politico (sul versante esterno). Quanto al primo versante, non si registrano nelle ultime legislature novità essenziali; tuttavia, l’impressione che si ha è di segno diverso. Per quale ragione? Ad avviso del professore Gianfrancesco, si assiste in questa fase ad una mutazione del secondo versante, in ragione di una rilevante proiezione esterna di carattere politico: tale cambiamento retroagisce inevitabilmente sul primo versante, indebolendolo.
Duplice può essere la soluzione per cercare di riequilibrare i due ruoli: 1) un maggior coinvolgimento della Giunta per il regolamento nelle questioni interpretative: i dati della XIV legislatura testimoniano un notevole regresso del numero delle sedute di tale organo rispetto alla XIII, sia alla Camera (da 75 a 25) che al Senato (da 35 a 12); 2) la via maestra per un riequilibrio della situazione attuale resta però, secondo il professore Gianfrancesco quella dell’assegnazione della Presidenza di una delle due Assemblee all’opposizione, prassi abbandonata da oltre un decennio, nonché l’approvazione modifiche regolamentari che introducano maggioranze qualificate per l’elezione presidenziale, imponendo sul nominativo prescelto un consenso ultramaggioritario.

Giovanni RIZZONI, consigliere della Camera dei deputati, intervenendo sul tema Programmazione dei lavori e contingentamento dei tempi: gli spazi per il Governo, per la maggioranza, per le opposizioni, per i singoli parlamentari, ha sottolineato in primo luogo come le disposizioni che disciplinano la programmazione dei lavori, novellate nel 1997, abbiano conosciuto un uso intensissimo presso la Camera dei deputati (alla quale fa prevalente riferimento). Per tale ragione è sicuramente utile verificare se le prassi applicative di tali disposizioni le abbiano consolidate o se piuttosto ne abbiano fatto registrare un indebolimento.
Partendo dal dato relativo al tasso di attuazione dei calendari (che si attesta su una percentuale dell’ottanta per cento), la prassi evidenzia una estesa applicazione della regola del contingentamento dei tempi (che conosce solo l’eccezione delle materie ex art. 49 del regolamento e quella relativa all’esame dei disegni di legge di conversione decreti-legge). Da ciò deriva, in definitiva, che l’applicazione delle nuove regole in materia di programmazione dei lavori premia la saldatura tra il Governo e la coalizione che lo sostiene (secondo lo schema classico del Governo “in” Parlamento). Quanto all’opposizione, cui il regolamento riserva la quota di un quinto dei tempi o degli argomenti, occorre evidenziare la scarsa vitalità di tali strumenti (che produce una marginalizzazione delle iniziative dei gruppi di opposizione). Quanto all’esame dei disegni di legge di conversione dei decreti-legge, si registra una prassi di forte negoziazione sia sui tempi sia sui contenuti, anche in considerazione del fatto che un provvedimento su tre all’esame della Camera è un decreto-legge. Su tali atti è stato esercitato con forza ed incisività il vaglio d’ammissibilità presidenziale. In conclusione, secondo il dottor Rizzoni, si impongono nella programmazione dei lavori parlamentari logiche distinte, inquadrabili sia in termini di concorrenza che di competizione. Pertanto, l’“ecologia parlamentare” conferma di essere un ambiente fortemente interdipendente.

Guido RIVOSECCHI, professore nell’Università di Lecce, introducendo la relazione I poteri ispettivi e il controllo parlamentare: dal question time alle Commissioni di inchiesta, dopo aver sottolineato, a livello metodologico, la necessità di considerare come autonoma la funzione di controllo, ha osservato come le tendenze emerse in materia nel corso della XIV legislatura siano contraddittorie. Ha poi ricordato come lo spirito delle riforme in materia di sindacato ispettivo fosse quello di compensare le opposizioni, attraverso il ricorso alle interrogazioni e alle interpellanze con tempi brevi e certi di risposta, dei minori spazi previsti per queste ultime nell’ambito del procedimento legislativo. I dati della XIV legislatura mostrano invece che il numero delle interrogazioni presentate da esponenti della maggioranza ha superato quello degli strumenti di sindacato ispettivo presentati dagli esponenti dell’opposizione. Al contempo, risulta inesistente la prassi attuativa, nella XIV legislatura, del cosiddetto premier question time: ad avviso del professore Rivosecchi, tale profilo configurerebbe una violazione dell’art. 64, comma 4, della Costituzione, sanabile, in ultima analisi, attraverso lo strumento del conflitto di attribuzioni. In definitiva, contrariamente a quanto accade per il procedimento legislativo, nell’esercizio della funzione ispettiva non si registra il continuum Governo-maggioranza.
Quanto agli altri strumenti del controllo parlamentare, ha trovato conferma la prassi della cosiddetta inchiesta di maggioranza, i cui corollari sono essenzialmente individuabili in un apporto pressoché inesistente degli esiti dell’inchiesta sul prodotto legislativo (e quindi in un rapporto minimale con l’Assemblea). Per ovviare a tali problemi, si può prospettare un duplice rimedio: 1) prevedere commissioni d’inchiesta a composizione paritaria (sul modello del Comitato per la legislazione), la cui presidenza sia affidata a rotazione; 2) rafforzare i poteri di vigilanza del Presidente d’Assemblea.

Nella prima delle due relazioni di sintesi, svolta dal professore Carlo MEZZANOTTE sul tema Le garanzie dell’autonomia delle Camere nello Stato costituzionale di diritto, è stato sottolineato in primo luogo come i dati in materia di conflitti di attribuzioni in tema di art. 68, comma 1, Cost. registrino una situazione quasi “ossessiva” (non vi è oramai Gazzetta ufficiale nella quale non compaiano tali conflitti). Ha poi ricordato le parole del presidente Elia, in un convegno di alcuni anni fa, secondo cui l’opinione pubblica non tollera disparità di trattamento legate a differenti status.
Sul punto l’intera giurisprudenza costituzionale in materia di insindacabilità, ad avviso del professore Mezzanotte, andrebbe rimeditata, dal momento che essa – come è stato osservato da Dogliani – registra un grave calo di prescrittività. In particolare, andrebbe superata l’impasse causata dal fatto che la Camera valuta da sé se l’atto rientri o meno nell’esercizio di funzioni parlamentari e dal fatto che, ove non condivida tale valutazione, il giudice ha, come unica alternativa, la proposizione del ricorso per conflitto di attribuzioni, secondo uno schema già delineato, prima della riforma dell’art. 68 della Costituzione, dalla nella sentenza n. 1150 del 1988. Ove si affidasse invece al giudice la valutazione in prima battuta, si supererebbe anche la giurisprudenza del 2000 (sentenze nn. 10 e 11), con la quale la Corte si è progressivamente estraniata dalla materia, sviluppando al contempo una forte carica antiparlamentarista. Ha infine evidenziato come il tempo delle immunità da status stia definitivamente tramontando: occorre pertanto ripensare il modello processuale, in modo da non giungere ad una prevaricazione dell’autonomia politica delle Camere sul diritto del singolo ad agire in giudizio a tutela dei propri diritti.

Il professore Andrea MANZELLA, tenendo la seconda relazione di sintesi sul tema Il ruolo dei Parlamenti nazionali in un sistema costituzionale a più livelli, ha ripreso le osservazioni contenute nei precedenti interventi per sottolineare come esista una cacofonia tra il diritto parlamentare e quello costituzionale. Da questo scaturisce la doverosità di una proposta, per riportare il diritto parlamentare ad essere quella risorsa di flessibilità della Costituzione che per definizione dovrebbe essere, e che è stato a lungo nel corso della storia d’Italia, nonché per superare questa situazione di diritto costituzionale “in sospensione”.
A questo fine, occorre incoraggiare la formazione di una giurisprudenza parlamentare “paracostituzionale”, che deve tuttavia affiancarsi ad una giurisprudenza costituzionale di accompagnamento (sul modello francese del Conseil d’Etat). La centralità dei Parlamenti è, del resto, riaffermata dalla giurisprudenza in materia di Unione europea del Tribunale costituzionale tedesco e della Corte costituzionale italiana, che hanno posto le premesse per un “parlamentarismo diffuso”. A questo si deve aggiungere la giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado dell’Unione europea sui gruppi parlamentari e una recente pronuncia del Consiglio costituzionale francese che collega ai più alti principi della democrazia rappresentativa una questione spesso sottovalutata quale quella del termine per la presentazione degli emendamenti.

Il professore Leopoldo ELIA, nel tirare le fila delle considerazioni svolte, sottolinea come l’affermarsi della regola dell’impunità non trovi soluzioni, per una difficoltà di carattere quasi concettuale, nel rimedio del ricorso dinanzi ad una Corte internazionale. Per tale ragione, occorre tradurre a livello di singolo ordinamento l’aspirazione ad un giudice comune. Tuttavia, occorre, ad avviso del professore Elia, prima dare una risposta ad un quesito essenziale: sino a che punto può estendersi l’applicazione del principio di maggioranza?

Rosella Di Cesare e Piero Gambale