Cabiddu M.A., Modernizzazione del Paese. Politiche opere servizi pubblici, Milano, 2005

23.03.2006

1. Questa raccolta di scritti si snoda per settori tematici – infrastrutture, beni e servizi di interesse generale -, costituenti il terreno di prova di alchimie politico-legislative, in cui variamente sono dosate e mescolate competitività, concorrenza, liberalizzazione, flessibilità, semplificazione, quali elementi essenziali di ogni ricetta di modernizzazione del Paese.
Appare subito chiaro al lettore che il volume non vuol essere un accorato cahier des doléances della modernizzazione e delle sue sperimentazioni, più o meno riuscite. La modernizzazione è infatti assunta come scopo unitario delle politiche e delle attività in cui di volta in volta quegli ingredienti si articolano e prendono forma sul piano della giuridicità e, dunque, come prospettiva di valutazione e di proposta.
Questa chiave di lettura unitaria consente di svelare, sin dalle premesse, la non univocità delle misure di modernizzazione e delle singole componenti che ad esse danno vita, mettendo in guardia contro la proclamata tecnicità e neutralità di concetti ormai entrati nel linguaggio quotidiano della politica, ma in realtà capaci di coprire e legittimare misure e interventi con approdi assai distanti anche in quanto a capacità di modernizzazione.
La sottolineatura della relatività delle formule della modernizzazione è, a ben vedere, accolta come premessa o approdo di metodo – dunque non come ossequio ad uno sterile relativismo ideologico –, ed è presentata come una necessità per l’adeguamento – per la modernizzazione appunto – della stessa analisi dottrinale, rispetto all’uso di adagi e contrapposizioni ormai inadatti alla descrizione dell’attuale quadro del mercato e delle istituzioni. Primo tra tutti il confine tra economia e politica, in quanto su di esso sono articolate e/o incidono le tecniche di modernizzazione, variamente bilanciando “la pretesa all’assolutezza del dominio sui beni materiali e la socialità o solidarietà implicita in ogni libertà, anche in quelle di tipo economico” (Cabiddu, p. 16).
Allo stesso modo si sottolinea la fine della possibilità di distinzione teorica e positiva tra società e Stato e l’odierna difficoltà di tracciare la linea dell’interesse generale, in quanto elemento di irrigidimento del sistema, dinanzi al carattere aperto e quasi magmatico dei rapporti e delle dinamiche sociali. Anche il confine dello Stato nazionale sembra aver esaurito, se non il ruolo di campo oggettivo sul quale le politiche economiche e sociali sono obbligate a trovare estrinsecazione, quello di limite ideale di dette politiche, obbligando a considerare in esse fattori umani e materiali che prescindono dalla cittadinanza.
Il richiamo al territorio come limite fisico e ancoraggio materiale delle politiche di modernizzazione mette però il lettore dinanzi alla fragilità intrinseca di una modernizzazione improntata sullo sviluppo costante e indiscriminato delle infrastrutture e dei servizi, assencondante il rapporto direttamente proporzionale tra questo e il potenziamento delle libertà e dei diritti individuali.
In un’epoca in cui il territorio è risorsa scarsa – e dunque da salvaguardare e recuperare – e in cui le spese dello stato sociale sono ricondotte ai criteri della razionalità economica, le politiche di modernizzazione incontrano limiti piuttosto rigidi che costringono a soluzioni nuove e necessariamente compromissorie. Rimane però il fatto che, sempre nella prospettiva finalistica della modernizzazione, queste non possono avvalersi di formule vuote e di facciata dietro cui crescono rendite e privilegi economici o reclamizzate per legittimare tentativi di arginamento di vincoli finanziari. Ciò mina infatti la capacità della legge di porsi come strumento di continuità e linea prospettica dello sviluppo politico economico e sociale del Paese, su cui in ultima analisi cresce quella fiducia di cui lo sviluppo si nutre.
Nella costante ricerca di ricondurre la substantia al nomen rerum, le analisi contenute nel volume mettono dunque a giudizio i processi di privatizzazione e liberalizzazione discontinua che coinvolgono il mercato dei servizi pubblici, di privatizzazione del patrimonio pubblico condotti sul crinale dei vincoli imposti ai conti pubblici, l’individuazione di nuove tecniche di finanziamento delle infrastrutture necessarie allo sviluppo del Paese, i tentativi legislativi di coordinamento delle politiche dei servizi con la pianificazione e programmazione territoriale.

2. Il primo dei settori tematici è rappresentato dalle infrastrutture, le quali vengono analizzate come fattori di sviluppo, ma prima ancora come presupposti per la garanzia della qualità di vita e del benessere sociale in quanto fondamento o complemento necessario della crescita economica. Ancor più, nella loro materialità, esse rappresentano un punto di incontro tra quella pretesa di assolutezza delle libertà economiche e della proprietà cui si sono legati l’individualismo e il privatismo contemporaneo e quella vocazione solidaristica che connota la nostra Carta costituzionale. Come bene messo in luce da Benedini, la realizzazione di infrastrutture costringe infatti ad una scelta tra il danno e il costo di pochi nel breve periodo e il beneficio di molti nel lungo periodo.
Il ritardo infrastrutturale del Paese può dunque essere interpretato come il sintomo dell’incapacità della politica di tracciare le linee dell’interesse generale attorno a cui coagulare il pluralismo mobile delle nostre società contemporanee e ne denota la miopia nel sottovalutare i costi per la collettività ad esso correlati e rilevanti sin dall’oggi nonché capaci di ipotecare la bontà delle scelte del domani.
Una politica infrastrutturale, inevitabilmente orientata nel lungo periodo, è così terreno ideale di composizione di interessi che non può prescindere da strumenti di raccordo e partecipazione tra i diversi attori privati e istituzionali coinvolti. Ciò emerge chiaramente se si muove, come fa Maria Cristina Treu, dal radicamento territoriale delle infrastrutture e dunque dall’essere queste oggetto delle politiche locali e al tempo stesso di politiche di più ampio respiro. Se l’incidenza sul territorio della mobilità e della fruizione di altri servizi non sempre è compensata dalle ricadute economiche di queste, l’avocazione verso l’alto delle politiche infrastrutturali è scelta in un certo senso obbligata. Esse sono però costrette a svolgersi nelle forme richieste dalla sussidiarietà e debbono filtrare attraverso una programmazione e pianificazione concordata e coordinata e perciò stesso condivisa e capace di imporre comportamenti responsabili. In una società non più di luoghi ma di flussi, il consenso sulle politiche infrastrutturali non può che essere raggiunto valorizzando le infrastrutture come risorse per il territorio e per l’ambiente.
Questa esigenza di sintesi – osserva Giorgio Berti – non sembra estranea neppure al legislatore, che attorno alle infrastrutture (è il caso della Legge-obiettivo) costruisce apparati normativi in cui autorizzazioni legislative, potestà amministrative e discipline giudiziarie sono connesse “in ragione di funzionalità”. Questi regimi di scopo richiamo così le leggi speciali di antica memoria, ma se ne discostano per la capacità di modificare in profondità i meccanismi dello stato di diritto, sconvolgendo quelle barriere sulle quali esso si reggeva (la separazione pubblico-privato, normazione-esecuzione, generalità-specialità). Se ciò è accettabile in linea teorica, diviene invece assai pericoloso in assenza di efficaci strumenti di controllo della discrezionalità legislativa che può così sfociare in arbitrio.

3. Attorno al bisogno di opere pubbliche crescono anche nuove tecniche di finanziamento, il cui compito si svolge sia sul fronte del contenimento dei costi sia su quello della modalità di riparto di questi tra pubblico e privato nonché tra breve e lungo periodo.
Il project financing – che di tali tecniche rappresenta certamente l’espressione più interessante, seppure non sempre correttamente ed efficacemente utilizzata – si fonda “(sul)la valutazione dell’equilibrio economico-finanziario di uno specifico progetto legato ad un determinato investimento, giuridicamente ed economicamente indipendente ed autonomo dalle altre iniziative delle imprese che sono incaricate di realizzarlo” (Pasquini, p. 59), di modo che il finanziamento viene erogato in ragione della capacità di un singolo progetto di generare flussi di cassa capaci di rimborsare i prestiti contratti e garantire al contempo una adeguata remunerazione dei promotori del progetto.
Si tratta dunque di una ipotesi di partnerariato pubblico-privato (PPP), che tenta di realizzare una diversa allocazione dei costi e dei rischi legati alla realizzazione di infrastrutture rispetto al tradizionale modello del finanziamento pubblico, modificando i parametri di scelta delle politiche infrastrutturali e al tempo stesso valorizzando la prospettiva di medio-lungo periodo per il soggetto privato cofinanziatore. L’interesse per la finanza di progetto è infatti legato ai flussi di cassa e alla durata della gestione, ossia ad elementi contrattuali che costituiscono la garanzia dell’investimento e che presuppongono una lungo e articolato processo di ideazione e progettazione.
La carenza di efficienza ed efficacia del pubblico, che nella realizzazione delle opere pubbliche secondo le tecniche tradizionali si traduce in un ritardato sviluppo infrastrutturale, pesa nella finanza di progetto sull’affidabilità del contraente pubblico e dunque sulla convenienza dell’investimento. Allo stesso modo, l’assenza di competitività nelle gare volte all’individuazione del partner genera monopoli privati capaci di annullare del tutto i vantaggi derivanti dal ricorso alla finanza di progetto, aumentando peraltro i rischi di cattura del regolatore.
Le nuove tecniche di finanziamento non possono dunque costituire un rimedio a carenze istituzionali, quanto semmai uno strumento di ampliamento prospettico delle politiche infrastrutturali pubbliche. L’analisi economica (Ponti) avverte infatti come la finanza di progetto non possa porre al riparo dai rischi per il soggetto pubblico derivanti dalla realizzazione dell’infrastruttura e tradotti in quel premio di rischio dovuto al partner privato, il quale è non solo tanto più alto quanto maggiore è l’incertezza sulla domanda (e dunque sui flussi di cassa), sulle tecnologie impiegate, sulle tariffe, sulla possibilità di gestione diretta dell’infrastruttura e del servizio, ma al tempo stesso monetizzato e dunque rilevante per la collettività in un periodo di scarsità di risorse.

4. Come si è osservato in apertura, il processo di modernizzazione si avvale di formule standardizzate che colpiscono le tradizionali strutture concettuali dello stato di diritto. Tra queste risuona anche la privatizzazione, la quale si avvale della separazione ideale tra pubblico e privato, al fine distorcendola e annacquandola. Nel privatizzare è infatti espressa la trasformazione delle forme pubblicistiche in forme privatistiche, del regime pubblico in regime privato oltre che la sostituzione del pubblico col privato nella proprietà o nella gestione di beni e servizi.
In tempi di razionalizzazione finanziaria e di scarsità di risorse, il vessillo della privatizzazione viene innalzato anche nella gestione del patrimonio pubblico – ed è questo il secondo dei settori tematici-, nell’ottica di riduzione del disavanzo pubblico attraverso la generazione di immediati flussi di cassa per il perseguimento di obiettivi di finanza pubblica (Colombini, 113). L’esigenza di fare cassa diviene quindi fonte di legittimazione di procedure speciali, non solo derogatorie rispetto alla legislazione contabile ma capaci di annullare i limiti giuridici, primo tra tutti quello del regime giuridico dei beni pubblici, alla stessa privatizzazione di parte del patrimonio pubblico.
L’analisi degli interventi normativi di privatizzazione del patrimonio pubblico, succedutisi dalla fine degli anni ’80 ad oggi, evidenzia come questa si svolga nel solco della rottura con la rigidità e la fissità delle forme giuridiche che si pongono come limite alla discrezionalità del legislatore e in generale della politica, avallando al tempo stesso, sotto il paravento della neutralità e convenienza dei processi di privatizzazione, tentativi di aggiramento dei vincoli imposti ai conti pubblici per la creazione di flussi di cassa che costituiscono mere anticipazioni di entrate future in realtà non prive di oneri per lo Stato e di utilizzo del patrimonio pubblico come garanzia di operazioni finanziarie sotto il diretto controllo del Ministero dell’economia.
A ciò porta, in particolare, sia la ricostruzione dell’intricato sistema relazionale che lega lo Stato alle Scip e alla Patrimonio s.p.a., ossia ai soggetti attraverso cui si realizza il processo di privatizzazione (formale) del patrimonio pubblico, sia del sistema di contabilizzazione delle operazioni di dismissione nell’ambito degli obiettivi di equilibrio della finanza pubblica.
Come rileva Giovanna Colombini, tuttavia, è proprio su questi due versanti – attraverso il collocamento delle Scip e di Patrimonio s.p.a. all’interno delle amministrazioni pubbliche e l’applicazione delle regole contabili fissate da EUROSTAT e da SEC95 -, che è possibile recuperare il senso della legalità finanziaria e impedire il raggiungimento dei risultati attesi con detti interventi legislativi.
Una riprova che le forme giuridiche “garantiscono proprio quando non sono affette da sostanze speciali e non vengono modellate su queste sostanze” (Berti, p. 54) e che quando, viceversa, lo sono, la tenuta dell’ordinamento è affidata alla forza espansiva dei principi generali e allo sforzo di inquadramento logico-sistematico, condotto al di là delle mere forme, delle novità legislative.

5. L’ultima raccolta di contributi è dedicata ai pubblici servizi e, più precisamente, ai processi di trasformazione di cui sono stati oggetto negli ultimi anni.
Il contributo di Di Gaspare si colloca tra questi a mo’ di introduzione, fornendo le coordinate dell’evoluzione del concetto di servizio pubblico a partire dalla costituzione economica dello Stato liberale sino ad oggi, indispensabili per la comprensione degli attuali modelli di organizzazione del servizio e per la valutazione delle riforme legislative che ne hanno ridisegnato, senza univocità e continuità, le forme.
Dinanzi alle trasformazioni dello stato sociale e della crisi dei suoi sistemi di finanziamento slegati dai vincoli di bilancio, viene così svelata una sostanziale involuzione del concetto di servizio pubblico – in controtendenza con la progressiva espansione di cui era stato oggetto sin dall’avvento dello Stato democratico di diritto -, che porta a ridisegnarne i confini attorno ai presupposti dell’interesse generale e del fallimento di mercato e dunque a rivalutare il dettato costituzionale, laddove esclude le finalità sociali dai presupposti oggettivi di assunzione del servizio pubblico (art. 43 Cost.).
Nella modernizzazione del concetto di servizio pubblico si nasconde dunque il recupero di vecchi modelli, seppure rivisitati secondo il moderno liberalismo comunitario. Di essa vi è traccia evidente nella distinzione legislativa tra servizi aventi rilevanza economica e servizi privi di tale rilevanza, attorno alla quale è conformato il regime giuridico delle attività che all’una o all’altra categoria sono ricondotte, a partire dalla scelta dei modelli di gestione da parte dell’ente locale.
La fragilità di queste categorie legislative si svela però nel momento in cui si indaga sul confine tra tipicità e atipicità nei servizi pubblici locali, giungendo a definire i confini dei cosiddetti poteri di governance degli enti locali. La rilevanza economica o meno del servizio dipende infatti da una scelta discrezionale dell’amministrazione locale, sulla quale è chiamato a sindacare il giudice nazionale, seppure sulla base dei criteri forniti da una giurisprudenza comunitaria peraltro non sempre concordante, secondo un modello che vede l’ente locale come soggetto responsabile della governance del sistema (Piperata, p. 180).
I servizi pubblici si dimostrano così terreno di scontro di opposte tendenze che da un lato assecondano le forze economiche e gli interessi del mercato, restringendo la portata del concetto di servizio pubblico, e dall’altro l’esigenza di assicurare agli enti territoriali degli strumenti di goverance attraverso cui legittimarsi, i quali si fanno tanto più forti quanto più ci si allontana dall’area di incidenza comunitaria e ci si raffronta con attività non aventi rilievo per il mercato unico europeo.
A tale ambiguità sono improntate le molteplici riforme legislative dei servizi pubblici locali, a partire dalla loro discontinuità, ed, anzi, contraddizione. Se anche l’attuazione di un mercato concorrenziale viene fatta sostanzialmente dipendere da una scelta discrezionale dell’ente locale, viene spontaneo interrogarsi, se l’obiettivo perseguito dal legislatore sia effettivamente – e ancora – quello della liberalizzazione del mercato (Ammannati, p. 185) e, se ciò non è, fino a che punto la liberalizzazione possa essere attuata in via giurisprudenziale, ad esempio attraverso una interpretazione restrittiva dell’in house privinding (Piperata, 179).
Nel segno del compromesso sembrano poi vivere anche i modelli di gestione dei servizi pubblici locali in house e quelli mediante società mista, i quali sono “un tentativo di conciliare le esigenze di avere soggetti da far indebitare sul mercato (le società di capitali) e dirigenti ben remunerati con quella di mantenere il controllo “politico” sulle aziende” (Boitani, p. 200), peraltro incapaci di fare impresa e di crescere nel mercato.
Ancora una volta le categorie di pubblico e privato divengono vacue, permanendo soggetti in forme privatistiche, ma che si muovono nell’orbita dell’ente pubblico e sono sottratti – o possono essere sottratti – alla concorrenza, e soggetti agenti sempre in forme privatistiche, rispetto ai quali le riforme appaiono discriminanti e paradossali se lette nell’ottica della liberalizzazione (cfr. anche Corte costituzionale, sentenza n. 29/2006).
L’ambiguità dei fini che connota le continue riforme dei servizi pubblici locali, oltre a relativizzare categorie giuridiche e a produrre processi attuativi a geometria variabile legittimati dal legislatore nazionale, incide anche sugli interessi dei destinatari finali dei servizi pubblici depotenziando il ruolo regolatorio dell’ente locale e la capacità di questo di definire parametri di qualità per l’erogazione dei pubblici servizi in posizione di terzietà (cfr. ache Paolillo, p. 243-244). Una riprova, questa, che una modernizzazione condotta per formule vuote o incerte rischia di essere null’altro che un cambiamento delle regole del gioco e, se incapace di interpretare i nuovi equilibri tra mercato e istituzioni, di minare gli interessi dei soggetti più deboli e i presupposti di fondo della crescita economica, politica e sociale del Paese.

6. L’ultimo degli interventi contenuti nel volume, dedicato al collegamento tra la pianificazione territoriale e la programmazione nel campo dei servizi, funge in un certo senso da elemento di raccordo con il primo dei temi affrontati, mettendo in rilievo le modalità e gli strumenti (il piano dei servizi) di trasposizione sul territorio delle politiche dei servizi e di incidenza di queste sul governo del territorio e sulla regolazione degli usi della città.
L’evoluzione normativa è su questo fronte più lineare: si passa, infatti, dall’offrire una rilevanza meramente quantitativa e misurabile in termini di metri quadri per abitante ai servizi pubblici (gli “standard urbanistici”) ad una visione che pone l’accento sulla qualità e sul grado di accessibilità e fruibilità dei servizi sul territorio, facendone parametri attivi e di diversificazione delle politiche urbanistiche e, di qui, della stessa programmazione dei servizi (Paolillo, p. 225 ss.).
Il legislatore, inoltre, sembra avvalorare la dimensione spaziale dei servizi pubblici al fine di rendere più attente le amministrazioni locali ai costi derivanti dall’occupazione dei suoli privati e al tempo stesso possibile il coordinamento della programmazione dei servizi con quella delle opere pubbliche e delle infrastrutture. Si ritorna dunque al territorio come termine necessario di raffronto e di ricaduta delle politiche di modernizzazione e ciò non è irrilevante in un’epoca in cui il territorio perde di rilievo nel segnare l’appartenenza dell’individuo ad una certa collettività e nella formazione e applicazione del diritto.


recensione a cura di Barbara Lilla Boschetti