Il 14 dicembre 2005 si è svolto presso l’Aula Magna della Facoltà di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli, un seminario sul rapporto tra “Indirizzo politico e regolazione economica” organizzato dal Dipartimento di Scienze Giuridiche e dal Centro di Ricerca sulle Amministrazioni Pubbliche “Vittorio Bachelet della LUISS – Guido Carli
Il tema oggetto dell’incontro di studio, presieduto e coordinato dal Professor Fabio Merusi, è stato introdotto da una relazione del Professor Marco D’Alberti cui hanno fatto seguito gli interventi del Professor Marcello Clarich, della Professoressa Laura Ammannati e dei Professori Giuseppe Di Gaspare, Nino Longobardi e Giulio Napolitano.
Marco D’Alberti, Università di Roma “La Sapienza”.
Il tema dei rapporti fra indirizzo politico e regolazione è particolarmente complesso, soprattutto se si tiene conto degli effetti della globalizzazione sull’insieme dei rapporti fra autorità statale e fenomeno economico. Può sembrare banale un richiamo all’etichetta della globalizzazione per designare l’attuale periodo, ma è indubitabile che essa rappresenta, come ribadito recentemente da vari storici, la cifra dell’attuale società. Dopotutto ad una globalizzazione del fenomeno economico è corrisposta una integrazione dei livelli istituzionali.
All’interno di questa cornice è possibile individuare alcuni stereotipi che possono condizionare l’analisi del rapporto fra politica e regolazione e di cui è necessario liberarsi.
Il primo stereotipo è quello secondo il quale mano a mano che l’integrazione economica progredisce aumenta di pari passo il potere delle grandi multinazionali, che assumerebbero il ruolo di leader non solo sul piano dei rapporti economici, ma anche nella definizione delle regole. In definitiva l’impresa sarebbe in grado di dettare le regole, cui i singoli Stati dovrebbero poi uniformarsi. Sicuramente la prima parte della riflessione, ovvero l’aumento del potere dei soggetti privati, è incontestabile. Maggiori perplessità suscitano le conclusioni sugli esiti di tale processo, ovvero la subalternità dello Stato. Molti economisti e politologi sottolineano come la regolazione sia sempre più il risultato dell’integrazione di ordinamenti privati (private governments), posti in essere dai protagonisti stessi della globalizzazione, cioè le multinazionali. Con termini diversi, il concetto sotteso ai fenomeni dell’autoregolazione o della rinascita della lex mercatoria, per esempio, sarebbe sempre lo stesso, ovvero quello di un diritto economico à la carte, su ordinazione. In questo processo il diritto dei mercanti sarebbe supportato dall’azione dei mercanti del diritto, ovvero dei grandi studi legali multinazionali. Corollario di questo modello sarebbe la completa separazione dell’economia dall’intervento pubblico e, in definitiva, dall’indirizzo politico; quest’ultimo infatti non sarebbe in grado di interferire sui processi di autoregolazione.
Nei confronti di tale fenomeno si sono scontrate diverse visioni. Da una parte gli “apocalittici” sostengono che un sistema basato sui private governments darebbe luogo ad un grande caos, ad un far west in cui lo Stato perderebbe ogni possibilità di controllo. Altri invece sostengono che il fenomeno economico presenti, in nuce, un ordine spontaneo e che i private governments possano dar luogo, se non al perfetto esplicarsi della mano invisibile, ad un “equilibrio costruttivo”.
L’altro stereotipo riguardante il rapporto politica-regolazione riguarderebbe la perdita di potere dei livelli regolatori statali, rispetto a quelli sopranazionali. Un chiaro esempio è quello della Comunità Europea, ma ci sono anche altri organismi internazionali che si occupano di economia e il cui operato vincola i singoli Stati, come il WTO. In questo caso un intervento pubblico regolatorio continuerebbe a sussistere, ma non sarebbe più affidato allo Stato, almeno con riferimento alle scelte di fondo. Tali scelte sarebbero in realtà affidate ad un “nuovo diritto dell’economia” (secondo la terminologia utilizzata da parte della dottrina francese, assieme a quello di “diritto pubblico della regolazione economica”), che avrebbe sostituito il classico diritto pubblico dell’economia, divenuto ormai “arnese inservibile”, “ferrovecchio” giuridico. Da una parte starebbe un nuovo diritto, puro, slegato da ogni vincolo con la politica, nelle più nobili intenzioni neutrale e indipendente, mentre dall’altra si staglierebbe il vecchio modello della programmazione basata sul command and control, caratterizzato, addirittura “corrotto”, dal primato della politica (regulation vs planning). Tale nuovo diritto, in quanto neutrale, puro, comporterebbe una regolazione non finalistica, condizionale, basata su strumenti di soft law, mentre il concreto raggiungimento degli obbiettivi sarebbe lasciato agli operatori del mercato regolato. In base a questo cliché, una regolazione pubblica sussisterebbe, ma sarebbe indipendente e sottratta da ogni influenza governativa.
Sottesa ad entrambi gli stereotipi è possibile individuare delle ideologie in senso forte, usando le parole di Daniel Bel, una “teologia secolarizzata”. Il primo stereotipo è legato ad una negazione di un interesse pubblico slegato da quello degli operatori, basato su una rinascita forzosa del liberismo più sfrenato; forzosa perché anche a livello teorico il liberalismo è stato oggetto di una riflessione critica. Il secondo cliché si basa sull’assolutizzazione negativa dell’imposizione di fini all’attività economica, ma in realtà tale forte reazione è legata ad una idea di pianificazione che non esiste e forse non è mai esistita, almeno nei paesi occidentali, neanche in passato.
Una visione slegata da questi stereotipi ci presenta un quadro sicuramente diverso. Sicuramente esistono vari regimi privati e le imprese private esercitano una certa influenza nel proporre il quadro regolatorio. Ma allo stesso tempo i poteri pubblici mantengono un ruolo rilevante, esiste anche un public government. L’esempio può proprio essere rappresentato dai lavori dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Prima della Prima Guerra Mondiale il commercio internazionale era soggetto veramente ad un liberismo assoluto, forse coerentemente con gli interessi dell’impero britannico; gli stati intervenivano in maniera marginale, per esempio con gli accordi di amicizia, e le regole del commercio transnazionale erano quasi assenti. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la regolamentazione del commercio ha avuto una graduale evoluzione: dal semplice accordo rappresentato del GATT si è giunti all’Organizzazione Mondiale del Commercio, che “copre” con una istituzione i vari accordi di liberalizzazione del commercio internazionale (sulle merci, sui servizi, sulla proprietà intellettuale). L’intervento di pubblici poteri, anche se internazionali, è andato quindi gradualmente aumentando, piuttosto che cedere il passo davanti al potere delle multinazionali.
Sull’antitesi regulation vs planning, va fatta una precisazione, perché spesso la contrapposizione è più apparente che reale. La pianificazione di tipo sovietico non esiste più, ma accanto ad una forte regolazione continua a sussistere anche una forte componente pianificatoria. Tale programmazione di settore sicuramente risente in certa misura dell’influsso della politica, ma per altri aspetti ne è slegato. Un esempio concreto è rappresentato dall’energia elettrica, in cui la regolazione presuppone la pianificazione (si vedano i Piani Energetici Nazionali); ma anche la regolazione dei trasporti è impossibile senza una pianificazione dello sviluppo delle reti e lo stesso può ripetersi per le comunicazioni e la gestione delle frequenze. Insomma gli esempi sono molti e mostrano come la c.d. regolazione economica ha un perimetro molto inclusivo. Dopotutto la regolazione, secondo l’OCSE, è definibile come l’insieme degli strumenti attraverso i quali i governi pongono requisiti alle imprese e ai cittadini ed include le leggi, gli ordini formali ed informali, le regole subordinate (le norme secondarie) emanate da tutti i livelli di governo e da organismi non di governo o di autogoverno ai quali è stato delegato il potere di regolamentazione. Il perimetro della regolazione è dunque molto ampio e non riguarda solo quei poteri neutrali, “anime belle” completamente indipendenti dalla politica. Nella medesima funzione vetera et nova coesistono.
Se dunque la regolazione ha quest’ampiezza ed include questa variegata serie di strumenti, tra cui anche quelli della programmazione basati sul modello del command and control, forse andrebbero fatte delle distinzioni. E’ indubbia la tendenza verso un disancoraggio della regolazione dalla politica; in certi settori si taglia il cordone ombelicale rispetto all’indirizzo politico, come sottolinea F. Merusi con riferimento al diffuso fenomeno delle Autorità Indipendenti. Nel sistema bancario europeo il SEBC ha una garanzia di indipendenza nello stesso art. 108 del Trattato CE, che rende immune da qualunque “istruzione” posta da organismi comunitari, governi nazionali o da qualunque altro organismo sia la BCE che il SEBC che ogni membro dei collegi di vertice delle rispettive banche centrali nazionali (si veda anche lo Statuto stesso della SEBC). Anche con riferimento alle comunicazioni elettroniche a livello comunitario si persegue il disancoraggio dall’indirizzo politico, come per esempio nelle direttive del 2002, che prescrivono la presenza di autorità di regolazioni nazionali “indipendenti”. Anche le Autorità Antitrust in molti paesi sono slegate dalla politica ed applicano un corpus di norme soprattutto sulla base della loro expertise tecnica.
Accanto a questa tendenza, però ce ne è un’altra, in base alla quale la regolazione può anche essere posta da organi politici, come i Ministri, ma è basata su criteri che in larga misura derivano dagli ordinamenti sopranazionali e che sono rispondenti a principi quali la massima obiettività possibile, la trasparenza, la non discriminazione, la proporzionalità. In definitiva anche l’organo politico deve seguire tali criteri che attenuano la discrezionalità politica o politico-amministrativa. L’insieme di questi principi danno una somma che è qualcosa in più rispetto al tradizionale principio di legalità, una rule of law qualificata, che comporta un controllo di legittimità rafforzato. In tal caso piuttosto che un disancoraggio si ha una attenuazione dell’indirizzo politico.
Infine accanto a tali tendenze, che caratterizzano gli ordinamenti sovra-nazionali, permangono delle persistenze o delle risorgenze dell’indirizzo politico, soprattutto a livello nazionale e sub-nazionale. Gli esempi sono molti ed eterogenei. La c.d. legge Gasparri, poi confluita nel Testo Unico, è un esempio di un indirizzo politico, in cui il legislatore copre una distorsione economica, data dal duopolio RAI-RTI. E’ questo un esempio di resistenza “negativa” dell’indirizzo politico, ma ce ne sono anche altri. Le imprese pubbliche per esempio esistono ancora sia a livello locale che nazionale e talvolta rappresentano un esempio di buona gestione, sia in Italia che all’estero.. Per la Comunità Europea sembrerebbe essere indifferente l’assetto proprietario, in quanto rileva piuttosto che non siano garantiti aiuti distorsivi alle imprese, sia pubbliche che private. Tuttavia la Corte di Giustizia in un paio di sentenze ha fatto presente che l’impresa pubblica è diversa dall’impresa privata in quanto subisce in maniera diversa proprio l’influsso dell’indirizzo politico, in quanto l’azionista principale è un pubblico potere.
In definitiva sussistono settori in cui si attenua l’indirizzo politico ed altri in cui esso permane. Più difficile è valutare se ci sia un prevalenza dell’uno o dell’altro fenomeno. Individuare una via maestra è difficile: Natalino Irti in un recente convegno ha riconosciuto la necessità di dare la precedenza alla regolazione di livello planetario, prima ancora di quello comunitario (il WTO per esempio). Se si segue questa idea, sicuramente risulta prevalente la via verso una attenuazione dell’indirizzo politico. Ma in un’ottica più legata allo stato attuale della regolazione economica bisogna riconoscere che le norme di derivazione planetaria coprono un numero limitato di settori. C’è dunque una asimmetria fra l’influenza dei livelli superiori all’interno dei diversi settori: se a livello dei commercio internazionale il livello planetario è quello dominante, in materia antitrust lo stesso è quasi inesistente e si risolve soprattutto in forme di coordinamento non pienamente istituzionalizzate (per esempio l’International Competition Network). Ancora maggiore è il ruolo statale in materia di televisione, laddove entra in gioco la “fabbrica delle opinioni” e il problema linguistico. Dopotutto l’indirizzo politico non andrebbe demonizzato. Costantino Mortati ricordava che non esiste un solo indirizzo politico: esiste un indirizzo maggiore, che addirittura assurgerebbe a fonte del diritto (normativa o esistenziale, con le parole di Carl Schmidt) fra la Costituzione e le leggi e prenderebbe corpo nello stesso corpo elettorale. Esistono poi degli indirizzi minori, quelli che si ritrovano nelle singole direttive, che hanno un contenuto di dettaglio e dovrebbero essere esecutivi rispetto all’indirizzo politico generale. Tenendo a mente bene questa distinzione, è possibile poi valutare qualche indirizzo politico minore negativamente (la politichetta che entra negli affari economici), ma andrebbe anche rivalutato l’indirizzo politico maggiore.
Infine, anche con riferimento ai livelli sopranazionali, è lecito dubitare che la scissione fra politica e regolazione sia assoluta. Gli ordinamenti metanazionali non sono completamente impermeabili agli indirizzi politici, sebbene non sia possibile trasferire le categorie proprie dello Stato a questi organismi internazionali. Dopotutto anche a livello nazionale l’indirizzo politico è stato l’enfant terrible del diritto amministrativo, fino alla sistematizzazione del Crisafulli e del Lavagna. Potrebbe essere un occasione per verificare la rispondenza di tale nozione a livello internazionale e comunitario, anche per individuare quell’indirizzo maggiore individuato a livello statale. Dopotutto anche il lavoro che ha portato al testo della Costituzione Europea (i lavori della Convenzione) è stato un esempio da cui è possibile trarre alimento, in cui si è inverato quel più nobile indirizzo politico maggiore di cui parlava Mortati a livello nazionale ma che potrebbe coinvolgere anche i soggetti sovra-nazionali.
Laura Ammannati, Università di Siena.
Anche sul piano dei principi nazionali e costituzionali la nozione di regolazione ha assunto molteplici profili e si è per così dire sfilacciata. Volendo individuare una nozione più circoscritta si possono prendere le mosse dalla definizione contenuta in un recente scritto di G. Majone, Regulating Europe, secondo il quale esso comporterebbe un controllo continuativo e focalizzato su attività generalmente considerate di interesse generale, esercitato da agenzie pubbliche sulla base di una delega legislativa. Alcuni hanno criticato l’eccessiva ristrettezza di tale definizione, in quanto sussistono apparati regolatori che non sono applicati da agenzie pubbliche o non si basano su una delega legislativa.
Si può quindi fare riferimento ad una ulteriore elaborazione teorica, (Ogus, 1994), in cui si fa riferimento ad una nozione di regolazione caratterizzata da un intervento esterno di natura economica o sociale su mercati normalmente self-regulating. Questa definizione, prevalente a livello della teoria economica, si basa sulla contrapposizione fra regolazione e mercato, in quanto gli interventi regolatori sarebbero finalizzati a controllare o a creare alterazioni del normale meccanismo di mercato. Vicine a tale impostazione si collocano le teorie di Public choice e della regulatory capture.
All’interno di questo quadro teorico generale, è però possibile proporre un altro modello teso a definire meglio i confini del concetto di regolazione. Una prima differenziazione è quella che caratterizza la regolazione economica da quella sociale. Con il primo termine si fa riferimento ad un intervento diretto finalizzato a correggere i fallimenti interni del mercato, con l’obiettivo di surrogare quello che sarebbe il funzionamento normale del meccanismo di mercato oppure di “mimare” gli esiti di un mercato concorrenziale, utilizzando le parole di Tony Prosser. Il criterio cui si ispira tale intervento regolatorio è quello dell’efficienza economica del mercato, in particolar modo attraverso il controllo del potere monopolistico, la definizione di standard, regolazione dell’ingresso di nuovi concorrenti e così via.
Con il termine di regolazione sociale invece si intende generalmente un tipo di intervento finalizzato alla correzione di altri fallimenti del mercato, per così dire esterni al meccanismo stesso. Infatti con la regolazione sociale si disciplinano delle attività che influenzano la salute, l’ambiente, la tutela dei consumatori, la sicurezza dei lavoratori e così via, con l’obiettivo di correggere difetti di informazione nelle relazioni contrattuali oppure esternalità negative derivanti dallo svolgimento delle attività economiche.
Alcuni osservatori dei sistemi di regolazione sottolineano come la differenziazione non sia sempre così forte, come è possibile riscontrare nella realtà europea. Infatti il disegno istituzionale comunitario della regolazione è assai diverso dalla realtà anglosassone, dove invece la regolazione sociale è prevalentemente affidata ad agenzie specifiche (c.d. single mission agencies).
Se si considera che i mercati non sono mai mercati autoregolantesi e che non è possibile concepire mercati indipendentemente dalla loro costituzione giuridica, è possibile intravedere una diversa qualità degli obiettivi della regolazione e quindi una diversità nella nozione stessa. Tale prospettiva è stata oggetto di attenzione da una cerchia di studiosi del Centre for regulatory studies dell’ Università di Glagow (tra cui Tony Prosser e Laura McGregor); le analisi di tipo empirico e settoriale svolte sono proprio basate sull’idea che il mercato non si crea da solo ma è costituito attraverso la regolazione e tale idea, dopotutto, è comune anche ad altri studiosi di altre discipline (si pensi ai Giochi dello scambio di Broduel o agli studi di Douglas North). Se si adotta tale presupposto mercato e regolazione si pongono come complementari piuttosto che in antitesi e, in conseguenza, entrambi potrebbero essere finalizzati a realizzare l’interesse pubblico. Si passerebbe dunque da un’idea della regolazione finalizzata al controllo degli effetti perversi del mercato a quella di strumento di creazione e organizzazione di mercati attraverso la fissazione, da parte di agenzie pubbliche, di condizioni che possono facilitare l’esplicarsi del gioco competitivo (p.es. le condizioni di interconnessione o la valutazione preventiva delle concentrazioni). Si giungerebbe dunque ad una regolazione pro-concorrenziale, piuttosto che ad una regolazione dei monopoli, come può dimostrare la regolazione delle utilities. Ulteriore corollario è il passaggio da una modalità di regolazione statica, tipica della regolamentazione dei monopoli, ad una forma dinamica che si sviluppa attraverso un processo in cui economia, politica e diritto sono strettamente interconnessi.
Se tale impostazione ha fondamento, è dunque necessario che si realizzi una chiara allocazione delle competenze e delle responsabilità fra il governo, le amministrazioni pubbliche e i regolatori. Una definizione precisa delle competenze anzi diventa tanto più importante nei settori in cui sono più forti gli obiettivi di carattere sociale e la tutela di interessi collettivi. Utilizzando tale concetto di regolazione, indubbiamente ampio, si estende il novero dei soggetti con compiti di regolazione, sia a livello nazionale, sub-nazionale che internazionale. La mappa regolatoria diviene quindi molto ampia e complessa e l’organizzazione del c.d. spazio regolatorio assume un’importanza ancora maggiore. Diventa quindi necessario definire gli ambiti di intervento, le relazioni fra tali soggetti e gli ambiti di influenza in maniera chiara. In questo spazio regolatorio sono naturalmente inclusi attori privati (come per esempio per le regole di corporate governance).
Applicare tale modello ad alcune situazioni italiane può essere utile. Riprendendo la definizione di concorrenza di Merusi, ovvero come bene giuridico posto a garanzia della pluralità dei soggetti sul mercato, la regolazione mira al perseguimento di questo bene è al mantenimento di tale assetto laddove già sia presente, in quanto l’esplicazione della concorrenza permette il contemporaneo soddisfacimento dell’interesse pubblico da parte del mercato e della regolazione. Il perseguimento di tale interesse non è disponibile per il potere politico in quanto rappresenta un valore costituzionale, recepito sia a seguito dei Trattati che della recente riforma del 2001. Se poi si analizza l’evoluzione dei sistemi di tutela della concorrenza in Europa, si può notare la prevalenza del soggetto pubblico, ma sempre caratterizzato da una ampia indipendenza dal potere politico. La tutela della concorrenza permette il contemporaneo soddisfacimento dell’interesse collettivo ma presuppone il principio dell’estraneità dal perseguimento di obiettivi di politica industriale, tipici invece delle scelte pertinenti all’esercizio del potere politico. La relazione dell’attuale presidente dell’Antitrust ed altri recenti interventi normativi e non mostrano invece una sorta di pretesa da parte della stessa Autorità Antitrust a svolgere un ruolo nella politica industriale, in corresponsabilità o in sostituzione degli organi di governo. Questa tendenza è caratterizzata anche dal favor dell’AGCM verso una regolazione negoziata con le imprese e verso forme di autoregolazione privata, scenario quest’ultimo sottolineato dall’ stesso D’Alberti. C’è però da chiedersi se tale tendenza è compatibile con la tutela di quell’interesse indisponibile di ordine costituzionale; il bilanciamento di quest’ultimo con altri interessi e fini pubblici non dovrebbe essere nella disponibilità dell’Autorità ma neppure forse del legislatore o del potere politico.
Con riferimento invece alla regolazione pro-concorrenziale, il bilanciamento della tutela del gioco competitivo con altri interessi di natura non economica dovrebbe avvenire secondo criteri molto ben definiti di proporzionalità, trasparenza, non discriminazione. In presenza di molteplici obiettivi di interessi pubblici, la scelta degli stessi e le modalità di tutela dovrebbero essere scelte riservate al potere politico, non solo nazionale o locale, ma anche comunitario. Ma anche in tal caso gli interessi pubblici collaterali rispetto alla tutela concorrenziale devono essere continuamente bilanciati con quest’ultimo in maniera proporzionale. Inoltre proprio la necessità di tale bilanciamento richiede una rivisitazione delle relazioni fra i soggetti operanti nello spazio regolatorio.
Marcello Clarich, Luiss Guido Carli
Il professor Clarich ha ricordato come il problema del coordinamento tra indirizzo politico e regolazione economica è stato affrontato nel corso degli anni.
Fino agli anni ’90, un’ampia letteratura, tra cui Bachelet e Giannini, si è occupata del tema del diritto e della pianificazione, secondo l’idea che lo Stato, attraverso atti di pianificazione e di indirizzo, gestiva l’economia nazionale.
Negli anni ’90 vi è stata invece “la sbornia delle autorità indipendenti”; in questo periodo è stata enfatizzata l’idea di una regolazione neutrale che nasce dalle cose e che è disancorata dalle priorità e dalle decisioni della collettività, espressioni e manifestazioni dell’indirizzo politico.
Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una nuova fase che recupera il pensiero di Mortati della necessità di un indirizzo politico in senso nobile.
Gli avvenimenti recenti hanno dimostrato che la politica non può essere estromessa del tutto dalle decisioni fondamentali per la collettività.
Ad esempio nel caso del black out del settembre 2003, il Governo è intervenuto nella questione, nonostante l’esistenza di organismi specifici (Autorità per l’energia elettrica e il gas o GRTN) perché ha una responsabilità politica nei confronti dei propri elettori. Da qui le modifiche legislative che hanno introdotto elementi di indirizzo politico piuttosto forti.
Un altro episodio di coinvolgimento della politica nella regolazione è la procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea nei confronti dello Stato italiano relativamente alle istruzioni di vigilanza adottate dalla Banca d’Italia. La Commissione contesta che tali istruzioni, atti sub-legislativi, emanati autonomamente dalla Banca d’Italia, nell’interpretare la normativa nazionale di recepimento di direttive comunitarie non chiariscono in modo preciso alcuni fondamentali aspetti di regolazione. La Banca d’Italia quindi viene messa in discussione nella sua attività di regolazione che però viene riferita allo Stato il quale non interferisce sull’elaborazione delle istruzioni contestate.
Ciò dimostra come la responsabilità ultima delle politiche di regolazione non può non essere riferita ai modelli di responsabilità politica, in questo senso si parla di indirizzo politico nobile.
Quindi diventa rilevante non tanto che un certo potere sia esercitato da un’autorità indipendente dalla politica, quanto che l’attività di regolazione sia assoggettata a regole di verificabilità, legittimità e trasparenza imposte dal diritto comunitario. Si deve infatti ricordare che nelle direttive comunitarie si parla generalmente di autorità di regolazione, quasi mai si utilizza l’espressione autorità indipendente o governativa.
Nel diritto comunitario c’è quindi una certa indifferenza per il soggetto, ma si presta attenzione alle modalità, alle garanzie procedimentali e alle regole sostanziali della regolazione pubblica.
Nel saggio “Il custode e la costituzione” di Carl Schimtt, l’autore analizza il problema della neutralizzazione della politica.
Nel saggio vengono indicate due ragioni che fanno nascere l’esigenza di un potere neutro:
1) l’incapacità della politica di esprimere indirizzi perché partitica e frammentata,
2) la parzialità (endogena) della politica che esprime sempre interessi di parte.
Ne deriva però che la politica riemerge sempre: nei momenti importanti della vita collettiva non ci si può affidare al governo dei tecnici, alle autorità tecniche di regolazione, perché la responsabilità ultima è sempre della politica.
Secondo il prof. Clarich, tecnica e politica vanno sempre insieme; lo Stato degli specialisti non è pensabile perché la politica a un certo punto riprende peso, come per esempio nel momento di nomina dei componenti delle autorità.
Bisogna però distinguere tra politiche regolative che hanno effetti redistributivi cioè decisioni che spostano ricchezza a favore di una o di un altro gruppo di soggetti e politiche che non hanno valenza redistributtiva delle risorse. Soltanto quest’ultime possono essere affidate a organi di tipo neutrale.
Giuseppe Di Gaspare, Luiss Guido Carli
Il professor Di Gaspare rileva come la scelta di intitolare un incontro di studio all’approfondimento del rapporto tra «indirizzo politico» e «regolazione economica» possa essere considerata quasi una provocazione intellettuale, data la oggettiva difficoltà che si incontra nel tentare di conciliare questi due concetti.
Riprendendo le considerazioni svolte nell’intervento del Professor Marco D’Alberti, il relatore osserva come la globalizzazione abbia fatto emergere delle contraddizioni e reso palesi, alcuni “momenti di rottura” del vecchio sistema di «indirizzo politico». Se l’indirizzo politico ha avuto un crollo, infatti, ciò è sicuramente da ricollegarsi alla crisi di asimmetria informativa: il potere (politico) rimaneva confinato ai livelli centrali di governo, anche in un contesto nel quale dal centro “non si sapeva più che cosa decidere”. Le informazioni essenziali per le decisioni o non erano disponibili affatto o, quando venivano portate a conoscenza degli organi politici, ciò avveniva con tempistiche che non consentivano la possibilità di traduzione in linee politiche efficaci ed effettivamente praticabili.
In altre parole, la crisi endemica del concetto di indirizzo politico, deve essere ricollegata a questo fenomeno di slittamento del potere effettivo dalle tradizionali sedi politiche, fenomeno che diverrà progressivamente sempre più evidente, nel momento in cui hanno iniziato a saltare quei “paletti statualistici” che nel passato avevano consentito di mantenere i flussi economici entro contesti chiusi e controllabili dallo Stato.
Altro fattore di crisi del concetto di indirizzo politico, viene poi individuato nella sussistenza nella concezione dell’indirizzo politico di una ideologia di stampo “giacobino” dell’indirizzo politico, ovvero nell’affievolimento della sua spinta “rivoluzionaria” dal momento che il concetto di «indirizzo politico» ha una sua forza non già per gestire lo status quo, ma per la sua aspirazione a trasformare e conformare la realtà economica e sociale.
Un altro tema che emerge in modo molto forte nella discussione sulle problematiche della regolazione è quello della “neutralità”. Al riguardo, viene rilevato come l’idea di fondo che tende ad emergere è che il potere di regolazione sia “il vero potere neutrale”, potere che si esercita in certi contesti, che definisce regole di condotta e quindi non finalistiche e che non implicano a monte scelte opzionali di carattere politico.
Il tema della neutralità è dunque molto forte ed ha oggi alcuni punti a suoi vantaggio, per cui la regolazione viene considerata come attività a-finalistica essenzialmente dedicata alla determinazione di alcune regole e paletti per lo svolgimento della competizione o di un «contraddittorio». In particolare, relativamente al «contraddittorio» il relatore osserva come quest’ultimo aspetto assuma un notevole rilievo nel momento in cui lo si ricolleghi al problema delle asimmetrie informative. Ed infatti, quando le informazioni necessarie all’adozione di una determinata scelta non sono disponibili, è preferibile cercare di acquisirle attraverso un “conflitto di interessi palese”.
Venendo poi a qualche osservazione più specificamente relativa al sistema italiano, il professor Di Gaspare afferma come vi siano degli aspetti “singolari”, che meritano approfondimento. Nel nostro sistema, infatti, sussiste e si rafforza la virulenza di un “indirizzo politico-legislativo” fortemente valutativo, che condiziona in modo incisivo l’azione del Regolatore, talvolta in modo talmente rilevante da far sì che tali scelte non appaiano in maniera trasparente nell’attività di regolazione stessa.
Un’altra contaminazione tra indirizzo politico e attività di regolazione consegue a quel fenomeno dell’“abbandono della responsabilità politica” da parte dell’autorità politica in ordine alla effettuazione di scelte che, invece, sono connotate da valutazioni a forte contenuto politico. In tale prospettiva, il relatore si domanda criticamente se sia possibile demandare ad Autorità di regolazione il compito di definire le fasce sociali e di stabilire criteri di perequazione tra le diverse tipologie di consumi. Questa tendenza innesca dei processi e meccanismi che, anche involontariamente, finiscono per fare svolgere al regolatore un compito politico e quindi “sporcare” le mani del Regolatore tecnico in quanto demandano ad esso demandati compiti che non gli dovrebbero competere.
Nel concludere il suo intervento, il relatore osserva come in un sistema quale quello nazionale, caratterizzato da “un alto tasso di legislazione contenente indirizzo politico”, cui si associa in molti casi una percezione critica dei diritti economici scarsamente tutelati , si determinano delle “situazioni di commistione e di mancato funzionamento del sistema di regolazione” e l’emersione di un “basso livello di indirizzo politico” che si insinua all’interno dell’attività di regolazione, dando origine a fenomeni spuri di interventismo – dirigistico, come nelle ultime vicende nel sottore bancario, sui quali è doveroso esprimere forti perplessità.
Nino Longobardi, Università de L’Aquila
Il professor Longobardi afferma di iscriversi a quello che il professor D’Alberti ha individuato come “secondo cliché” e tentare di difendere il mercato e la «regolazione economico» dall’«indirizzo politico». Entranti i concetti presentano un notevole grado di indeterminatezza. In tale prospettiva, relativamente al concetto di «indirizzo politico», viene rilevato come la sua matrice sia non solo autoritaria e statalista ma anche tendenzialmente totalitaria. In questa visione unificante e totalizzatrice dell’indirizzo politico gli organi dello Stato erano unicamente chiamati a dar forma giuridica alle scelte effettuate dalla politica, sulla base dell’assunto che tali scelte fossero preordinate alla realizzazione di “un fine superiore”.
Il professor Longobardi esprime delle perplessità – e manifesta anche una certa “apprensione” – nei confronti di quelle teorizzazioni che tendono a distinguere “l’indirizzo politico buono e nobile” da un’accezione di “indirizzo politico di più basso profilo”.
Nell’intervento si ricorda inoltre come il concetto di «indirizzo politico», se inteso nella sua accezione “originaria e forte” risulti “inservibile” negli Stati costituzionali contemporanei, in quanto assolutamente incompatibile con lo Stato costituzionale dal momento che in relazione ad esso non è possibile individuare l’esistenza di un “fine fondamentale” da perseguire. Di contro, ciò che acquisisce rilievo fondamentale nello Stato costituzionale è la definizione delle “regole del gioco”, l’equilibrio e la divisione dei poteri.
Il relatore rileva inoltre come anche in vigenza della Costituzione del 1948, parte della dottrina abbia tentato in vario modo di “adattare” il concetto di «indirizzo politico» al nuovo carattere costituzionale e democratico dell’ordinamento repubblicano. Una conseguenza di quelle ricostruzioni teoriche che hanno perseguito il “mito dell’unità del potere” è stata quella di attribuire carattere programmatico alla Costituzione e ciò anche a detrimento della parte essenziale della nostra Carta fondamentale che si preoccupa, non solo di dividere il potere politico tra gli organi costituzionali, ma anche di separare – ed in un qualche misura di “proteggere” – l’Amministrazione dal potere politico – ed in particolare dal Governo.
Oggi sarebbe possibile parlare di “indirizzo politico” esclusivamente con riguardo all’indirizzo politico del Governo e dei Ministri che si esprime attraverso atti giuridici espressamente e puntualmente previsti dal nostro ordinamento. Non può, invece, essere ritenuto accettabile parlare di «indirizzo politico» e di «politica» come concetti indistinti e utilizzabili in maniera quasi interscambiabile. In primo luogo, perché vi sono diverse concezioni in ordine a ciò che deve essere inteso con l’espressione «politica», in seconda battuta perché per far coincidere «indirizzo politico» e «politica», occorre rimanere ancorati ad un concetto di «politica» come “monopolio esclusivo dello Stato e dei partiti”. Questa concezione è ormai da ritenersi contraddetta, non solo dalle più recenti ricostruzioni dottrinarie, ma anche alla comune esperienza dello Stato pluralistico, dove appare evidente non solo che la “politica non è monopolio dello Stato e dei partiti”, ma anche che quella che viene convenzionalmente definita come “arena politica” si presenta estremamente affollata data la presenza di partiti, sindacati, gruppi di pressioni, associazioni, movimenti, giudici, amministrazioni ed anche di singoli cittadini. In definitiva, quindi, «indirizzo politico» e «politica» non possono essere ritenuti coincidenti in quanto il concetto di indirizzo politico è indissolubilmente legato all’idea dell’assegnazione preventiva di fini da raggiungere, mentre la politica, nella sua dimensione “più alta”, ha essenzialmente il compito di provvedere al buon funzionamento delle regole.
Il professore Longobardi, riprendendo alcune osservazioni effettuate negli interventi che lo hanno preceduto, rileva che quando si è parlato del problema della “neutralità” e della impossibilità di garantirla, si è confuso il concetto di “neutralità” con quello di “apoliticità”. In tale linea di ragionamento, egli afferma che “se è impossibile essere completamente apolitici” è “ben possibile essere neutrali rispetto a certi interessi”. Tale esigenza di indipendenza però non può ritenersi effettivamente assicurata quando la relativa garanzia è demandata al mero rispetto di “criteri di indipendenza”. Di sovente avviene, infatti, soprattutto per influenza dell’ordinamento comunitario, che l’indipendenza venga considerata come “vero e proprio criterio organizzativo”. Tale è il caso, ad esempio, di alcune Autorità indipendenti, la cui esistenza è prescritta dal diritto comunitario secondo cui determinate funzioni, non possono che essere svolte da un organo indipendente dal punto di vista organizzativo dalla politica, non essendo al riguardo sufficiente che vengano seguiti criteri di proporzionalità, trasparenza, oggettività e l’agire in contraddittorio.
Il concetto di «indirizzo politico» è quindi un concetto che viene continuamente – ed anche in maniera interessata – alimentato e che comporta una visione del primato della politica dei partiti, la quale, oltre ad essere superata, ha determinato anche effetti “gravemente disfunzionali”. È, infatti, l’impossibilità, ormai accertata dalla scienza economica, dalla scienza dell’organizzazione e dalle scienze politiche, di “guidare dall’alto” processi complessi che determina la crisi del concetto di «indirizzo politico».
Per ciò che concerne in maniera più specifica il tema del rapporto tra «indirizzo politico» e «regolazione economica», viene osservato che, nella sostanza, il rapporto tra questi due concetti riguarda il ruolo da riconoscersi “all’indirizzo politico di maggioranza nella regolazione economica”. Ed in effetti, una volta “demitizzato l’indirizzo politico”, questo deve essere ricondotto alle funzioni puntualmente previste dall’ordinamento in capo al Governo. Occorre, quindi, abbandonare non solo la concezione “originaria e normativa” dell’indirizzo politico, ma anche le concezioni “organicistiche dello Stato e della società”. In tal modo si scopre che l’indirizzo espresso dalla maggioranza di Governo è “un indirizzo di parte”, che impone di delimitare l’ambito delle scelte che devono essere lasciate alla determinazione dell’ “indirizzo di parte”, da ciò che ad esso deve essere tolto.
Venendo poi al concetto di «regolazione economica», il professor Longobardi osserva come la locuzione stessa già registri la rinuncia dello Stato alla pretesa di guidare l’economia, l’abbandono del modello della direzione amministrativa dell’economia e quindi implichi una scelta in favore del mercato. Tale scelta, comunque, non determina di per sé stessa il venir meno del primato della politica. La politica, intesa nella sua accezione di politica dei partiti, è chiamata a fissare regole chiare e trasparenti dei mercati anche con riguardo alle modalità di intervento dei poteri pubblici in tema di concorrenza e, più in generale, affinché i diritti e le autonomie degli operatori e dei contraenti sui mercati siano garantiti.
La realtà della complessità porta quindi a concludere che ci sono circuiti decisionali ulteriori oltre quello dei partiti, oltre il canale della rappresentanza politica e che questi circuiti decisionali trovano uno strumento organizzativo idoneo proprio nelle Autorità amministrative indipendenti. In questa prospettiva, quindi, il problema diventa allora quello dell’organizzazione della loro attività, ed ecco allora la ragione per la quale è fondamentale che della teoria delle autorità amministrative indipendenti “si prenda tutto”. Più in particolare, il riferimento è all’agire in contraddittorio, alla parità delle armi, al modello regolativo-giustiziale che deve essere recepito nella sua interezza perché solo in tal modo il circuito decisionale risulta adeguatamente attrezzato tanto da costituire, non un surrogato della politica dei partiti, ma uno strumento per realizzare “un circuito di democrazia specifica” in cui tutti gli interessi hanno la possibilità di farsi sentire, farsi valere, di replicare.
Nel concludere il suo intervento, l’ultimo rilievo viene effettuato in relazione alla questione che venne posta da Santi Romano nel 1910 nel saggio sulla crisi dello Stato. Il relatore ricorda come l’illustre studioso, preoccupato proprio del pluralismo degli interessi, del conflitto interno allo Stato che doveva essere unitario e sovrano, ma che poi era, di fatto, dominato da forze antitetiche, si era posto il problema di come rispecchiare all’interno della struttura della Stato i diversi e molteplici interessi della società. L’ideologia allora prevalente dello Stato come “soggetto neutrale”, considerato come “superconcetto idolatrato” e la mancanza di alcuni strumenti e conoscenze oggi a nostra disposizione, impedirono a Santi Romano di fornire la risposta adeguata, costringendolo a ricercarla ancora una volta “all’interno del concetto di Stato”. Nel contesto attuale, la risposta a Santi Romano è possibile proprio attraverso la regolazione indipendente a condizione che questa sia organizzata in modo non solo efficiente ma anche democratico.
Giulio Napolitano, Università della Tuscia
Il professor Napolitano, richiamando il titolo del seminario, afferma di condividere una lettura della congiunzione «e» nel rapporto tra «indirizzo politico» e «regolazione economia», intesa nel senso di una possibile convivenza dei due concetti, la necessità dell’uno e dell’altra, l’importanza della “non abdicazione” della scelta politica ed allo stesso tempo la salvaguardia di un presidio regolatorio pubblico. Di contro, serie perplessità derivano da una diversa possibile associazione dei due termini, qualora voglia esprimere la possibilità di un «indirizzo politico» “alla” «regolazione economica», fino ad arrivare ad implicare l’inevitabilità e la centralità di una regolazione economica di tipo “finalistico”. In definitiva, dietro queste “torsioni” nell’associazione dei due termini, vi è il pericolo che la “giusta reazione ai cliché” cui invitavano le riflessioni introduttive del professor D’Alberti, finisca per legittimare “un gioco delle parti” e, quindi, per confermare gli assunti della Scuola di Public Choice secondo cui ciascun attore istituzionale non fa altro che cercare di massimizzare il benessere individuale della propria organizzazione.
In tale prospettiva, vi è il rischio che per il potere politico la rivendicazione dell’importanza e della centralità del momento dell’«indirizzo politico», in realtà non sia funzionale al raggiungimento degli “obiettivi finali” indicati nel presunto “atto di indirizzo” (obiettivi che spesso non sono nemmeno disponibili e quasi irraggiungibili) quanto piuttosto costituisca solo l’occasione di effettuare una “mediazione politica” degli interessi economici che la gestione di quel determinato atto di indirizzo politico fornisce.
Paradossalmente, può accadere che per le stesse Autorità di regolazione risulti di qualche utilità “reclamare un indirizzo politico”, in quanto ciò consentirebbe di imputare a tali organizzazioni il raggiungimento di “un determinato risultato finale” (ad es. riduzione di prezzi e tariffe per i consumatori). Allo stesso tempo, una tale eventualità apre al rischio che ciò finisca per costituire il principale “strumento di legittimazione” delle autorità, più del principio di legalità o di quello del giusto procedimento.
Appare significativo ricordare che spesso sono le stesse Autorità di regolazione che muovono “una richiesta di intervento politico di indirizzo” o sollecitano un “intervento politico” da parte del Governo. Sul punto, emblematica è la posizione assunta dall’Autorità per l’Energia in una recente segnalazione nella quale si auspica un intervento ad audivandum del Governo nel giudizio d’appello dinanzi al Consiglio di Stato per l’annullamento di una pronuncia del TAR Lombardia che ha annullato una delibera dell’Autorità ritenendo insussistente il potere di intervento nei mercati del gas cd. “liberalizzati”.
In questo gioco delle parti, non sono soltanto gli attori istituzionali a spingere nella direzione di una rivisitazione del ruolo dell’indirizzo politico, anche le grandi imprese, infatti, potrebbero avere un interesse a giocare di fronte al potere politico quel peso economico che molto più difficile potrebbero far valere di fronte ad Autorità indipendenti che non hanno necessità del consenso elettorale. Ed ancora, molto spesso accade che siano le stesse associazioni dei consumatori a chiedere l’apertura di “tavoli di confronto” presso il Ministero dell’Attività produttive, piuttosto che l’intervento dell’Autorità di regolazione.
Nel prosieguo del suo intervento, il relatore, richiamando il saggio di Kaplow e Shavell nel quale viene affermato che il sistema legale è meno efficiente di quello fiscale nel produrre effetti redistributivi, ha osservato che se si accetta l’assunto contenuto nel saggio, appare allora chiaro che non ci dovrebbe essere nessun rapporto di finalità tra strumento ed obiettivo, nessun rapporto tra «regolazione economica» ed «indirizzo politico». Ed in effetti, dietro questa affermazione c’è un’intuizione condivisibile nella sua impostazione di fondo: se la regolazione tariffaria non è orientata ai costi di una gestione efficiente, ma è finalizzata al raggiungimento del benessere immediato dei consumatori o ad obiettivi mutevoli fissati dal decisore politico o, addirittura a finalità di tipo macroeconomico che nulla hanno a che fare con la gestione efficiente di un settore economico, (controllo dell’inflazione, prelievo rapido di risorse fiscali, ecc.) diventa inevitabile che si mandino segnali distorsivi al mercato.
In tale linea di ragionamento, viene rilevato come il diritto comunitario tenga in grande considerazione tali aspetti nel momento in cui stringe le Autorità nazionali di regolazione in una rete tecnica sopranazionale, stabilisce e controlla le modalità di esercizio del potere regolatorio, prescrivendo non a caso l’orientamento ai costi della misura tariffaria.
L’invito con il quale il professor Napolitano conclude il suo intervento è che l’indirizzo politico – se possibile – stia “prima e dopo la regolazione economica”, che faccia ricorso a strumenti non distorsivi della regolazione economica stessa e che se si sente “l’assillo dell’accountabilty”, che se ne verifichi la sostenibilità attraverso un uso dell’impatto della regolazione considerato non solo come uno strumento verso le imprese regolate, ma anche verso tutti gli stakeholders interessati al settore. In definitiva, l’auspicio è che ogni volta che sia possibile rendere “la regolazione immunizzata e non funzionale all’indirizzo politico”, meglio perseguire questa strada, anche quando ciò comporti il necessario ricorsa a strumenti e tecniche non completamente padroneggiate dagli esperti del diritto amministrativo.
Fabio Merusi, Università di Pisa
Il seminario è terminato con l’intervento conclusivo del prof. Merusi.
Abbandonata la tesi della programmazione economica che cioè lo Stato decide l’allocazione delle risorse, in quanto ritenuta tecnicamente impossibile (Guido Carli fu uno dei primi autori a sostenerne la fine), ci si domanda se è opportuno ritornare al sistema napoleonico e cioè allo Stato che detta le regole di comportamento tra i privati (il codice civile), che si occupa delle funzioni relative alla sua esistenza (guerra, imposizione fiscale e lavori pubblici) e che lascia il resto al mercato.
Tuttavia il sistema napoleonico non è una soluzione semplice perchè i mercati concorrenziali, tranne in pochi settori, non esistono. Dunque bisogna trovare anche qualcuno che inventi il mercato laddove non esiste.
Affidare all’autorità pubblica tale compito produce l’effetto di creare mercati non funzionali perché le autorità politiche sono condizionate da motivazioni di breve periodo o partitiche. Si creano quindi dei soggetti che non sono coinvolti nell’indirizzo politico, le autorità indipendenti.
Le autorità indipendenti non sono tutte uguali. Occorre distinguere quelle che regolano i mercati in cui vi sono già delle regole e quelle preposte invece alla tutela di mercati in cui non vi sono ancora le regole.
L’Antitrust appartiene al primo gruppo; essa impedisce in primo luogo che l’utilizzo delle regole di diritto privato porti a risultati negativi e opposti; inoltre evita che il legislatore intervenga creando delle distorsioni o delle disparità di trattamento nella par condicio concorrenziale. Svolge quindi un’attività di polizia di un mercato concorrenziale.
Vi sono poi settori in cui il mercato concorrenziale deve essere ancora creato: in questi casi si parla di mercati artificiali. Un esempio è il mercato elettrico, dove esisteva un monopolista e si è invece deciso di aprire alla concorrenza, perché è il sistema più efficace ed efficiente sotto il profilo delle leggi economiche.
In questi casi il rischio che si corre è che l’autorità che inventa il mercato diventi un despota del settore, perfettamente analogo alle vecchie strutture di programmazione.
Tale rischio si corregge tenendo presente che tutti gli interventi giuridici in un mercato concorrenziale devono essere commisurati alle finalità da raggiungere. Se la finalità dunque è di creare la concorrenza, ogni provvedimento adottato va valutato in relazione al fatto che sia confacente, sufficiente, idoneo e proporzionale a tale scopo.
Al fine di preservare il mercato concorrenziale dalla pressione di gruppi politici è stata creata una procedimentalizzazione europea dell’attività delle autorità indipendenti. Sono stati previsti procedimenti in cui si saltano le regole predisposte in ambito nazionale e si tengono rapporti diretti fra autorità europee e commissione europea. Per esempio nel settore delle comunicazioni, i criteri per accertare la concorrenzialità del mercato sono stati previsti a livello comunitario e imposti ai singoli Stati.
L’allargamento dei mercati ha comportato la necessità di predisporre regole comuni e condivise che nascono da esigenze concrete avvertite nello svolgimento delle attività economiche. Un esempio è il sistema dei pagamenti e la circolazione monetaria. La necessità di garantire una rapida circolazione della moneta ha portato alla creazione della banca dei regolamenti internazionali che ha stabilito delle regole condivise e spontaneamente recepite per velocizzare la circolazione monetaria.
Dal dibattito svolto è emersa dunque un’inversione del rapporto tra indirizzo politico e regolazione.
Prima era il diritto che cercava di imporre all’economia determinati risultati; adesso la recezione dell’esigenze dell’economia impone l’adozione di regole condivise. Ovviamente si trovano sempre delle resistenze all’applicazione di tali regole, da qui la problematica della verifica della utilità e della recezione effettiva delle regole dell’economia.