La nuova riforma costituzionale – Resoconto convegno

09.02.2006

La sessione mattutina è stata aperta dal saluto del giudice VACCARELLA, che ha sottolineato la necessità di iniziative che contribuiscano al dibattito scientifico sui temi della riforma varata negli scorsi mesi. È stata poi ceduta la parola, per la relazione introduttiva, al prof. BARBERA, che si è soffermato sui tratti generali della riforma, richiamando innanzitutto la scansione temporale del prossimo referendum costituzionale. La data possibile cadrebbe tra il 20 giugno ed il 15 luglio prossimi, arco di tempo che appare infelice non solo per la sua collocazione a ridosso per il periodo estivo, ma anche per il rischio di una scarsa affluenza alle urne, dato che si tratterebbe di una ulteriore consultazione popolare, successiva alle elezioni politiche ed amministrative di primavera.
Il relatore ha innanzitutto chiarito di volersi distanziare dalle opposte enfasi polemiche che sembrano aver dominato negli schieramenti politici, cercando di offrire una sintesi scientifica del testo approvato dalle Camere.
Una prima considerazione di carattere generale è il carattere sostanzialmente riaccentratrice della riforma proposta, soprattutto dal punto di vista del riparto delle competenze legislative, attraverso la restituzione alla competenza esclusiva dello Stato di materie che la riforma del Titolo V del 2001 aveva assegnato alla concorso di competenza con le Regioni, seguendo anche le linee direttrici che la giurisprudenza costituzionale ha portato avanti, soprattutto con la nota sentenza 303/03. Ulteriori elementi che contribuiscono ad un rafforzamento del centro nei confronti della periferia sono l’ampliamento dei poteri sostitutivi, la soppressione della possibilità di evoluzioni differenziate nelle singole esperienze regionali (con la soppressione dell’attuale terzo comma dell’art. 116) e la limitazione alla natura amministrativa degli organi comuni che le Regioni possono creare tra loro.
L’analisi proposta, com’è evidente, stride con entrambe le impostazioni che le forze politiche hanno dato ad una delle norme caratterizzanti della riforma, il comma quarto dell’art. 117 Cost., la cd. devolution, e poggia sull’idea secondo cui il bilanciamento operato dalle nuove competenze esclusive regionali e dalla rimodulazione delle competenze statali esclusive e concorrenti finisca per lasciare il quadro generale delle macro aree (in particolare scuola e sanità) sostanzialmente invariato.
Si tratterebbe quindi di una sorta di “regressione centralistica” che, nell’analisi proposta, appare opportuna di fronte al testo del 2001 che appare come troppo generoso per le autonomie regionali. Il vero rischio sarebbe costituito dal potenziale mutamento di ruolo della Corte costituzionale, ma non tanto per le modificazioni alla composizione del collegio, quanto per l’apertura ai ricorsi degli enti locali, prospettiva interpretata come esplosiva e pericolosa, tanto da costituire un vero e proprio “attentato” al ruolo dell’organo.
Anche sulla forma di governo il parere del relatore appare discorde dagli opposti orientamenti polemici finora registrati. Ci si oppone sia alla prospettata dittatura del premier, sia ad una interpretazione favorevole al rafforzamento della posizione del capo dell’esecutivo. Anzi, il risultato sarebbe un generale indebolimento della figura del presidente del Consiglio, anche nei confronti dell’attuale quadro costituzionale.
In particolare le cause di un simile arretramento sarebbero l’impossibilità di controllare strettamente il procedimento legislativo, soprattutto nel Senato federale, e la necessità di rimanere ancorato esclusivamente alla maggioranza espressa dalle urne, sottoponendosi al ricatto anche di una piccola minoranza della propria coalizione di governo. La titolarità del potere di scioglimento, infine, non sembra discostarsi significativamente dalle esperienze tedesca ed inglese, per cui sembrerebbero fugati i timori di una deriva cesaristica del governo del primo ministro.

Il prof. ZANON, si è successivamente soffermato sugli aspetti della forma di governo, partendo dalle ragioni di fondo che hanno portato ad una così ampia rivisitazione dell’equilibrio tra i poteri dello Stato. Innanzitutto il referendum del 1993 e l’affermazione del sistema maggioritario, con la verticalizzazione dei rapporti tra eletti ed elettori, hanno portato ad una generalizzata modifica delle convenzioni costituzionali e degli equilibri preesistenti, trovando riscontro in termini di consenso non solo nella attuale maggioranza di governo ma anche nell’opposizione, come dimostra l’impianto della proposta della Commissione bicamerale che condivideva, in principio, l’idea di un rafforzamento dell’esecutivo e dei poteri del suo capo.
Tutto ciò starebbe a dimostrare come il contenuto della riforma approvata non sia nato dal nulla, ma avrebbe fondamento su un retroterra di impostazione, innanzitutto politica, con una storia almeno decennale. Anche per questo, si esclude che il testo costituzionale, se approvato dal referendum, possa costituire il passaggio ad una democrazia di investitura, perché, in questo modo, si opererebbe una “drammatizzazione” delle disposizioni in esso contenute, superando in maniera inaccettabile il dato letterale.
In dissenso con il prof. Barbera, si è sottolineata la possibilità per l’esecutivo di operare uno stretto controllo sull’attività legislativa della Camere, ma ciò all’interno di una evoluzione della forma di governo che non appare in sé negativa.

Le prospettive per ciò che riguarda l’assetto del Parlamento, ed in particolare, l’articolazione del Senato federale, sono state il tema della relazione del prof. DE VERGOTTINI. Elementi che sono stati riconosciuti come positivi sono innanzitutto la riduzione del numero dei parlamentari e la differenziazione funzionale tra le Camere.
Alla luce delle specifiche scelte operate dal legislatore costituzionale, tuttavia, non appare sia stata fornita una sufficiente giustificazione alla diversità funzionale dei due rami del Parlamento, sia sotto il profilo della differenziazione della selezione della rappresentanza sia nella individuazione delle competenze stesse.
Infatti non si realizza una “vera” rappresentanza delle Regioni, né tantomeno degli organi regionali. Si delinea, invece, una seconda Camera squisitamente politica, dove il Governo presenta ugualmente il suo programma (sebbene non vi sia rapporto fiduciario), dove i membri dell’esecutivo hanno, come alla Camera, lo stesso diritto di assistere alle sedute ed il dovere di rispondere, quando richiesto, e dove non è stata operata alcuna distinzione nella qualificazione della rappresentanza, lasciando sostanzialmente intatta la portata dell’art. 67 Cost.
Si rilevano poi una serie di “stranezze” evidenti nel testo costituzionale approvato dalle Camere. Ad esempio la previsione di possibile composizione del Senato integrata con i rappresentanti regionali è limitata a casi estremamente marginali, mentre ogni ipotesi di agganciare l’elettorato passivo al territorio è svuotata dalla possibilità di candidarsi per coloro che siano residenti nella Regione “alla data di indizione delle elezioni”.
Il collegamento con le Regioni sarebbe invece operato attraverso il meccanismo della contestualità dell’elezione tra senatori e consiglieri regionali e con meccanismi informativi per cui i senatori possono essere sentiti dai consigli regionali di riferimento.
L’aspetto più problematico della disciplina è stato individuato dal relatore nella posizione che il Senato ha nei rapporti tra Stato ed autonomie, ed in particolare nella circostanza secondo cui ad esso spetta in via definitiva la determinazione sulle istanze centralistiche del sistema, in particolare per quanto riguarda la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente. Ulteriori perplessità riguarda la cosiddetta “questione di programma”, che rischia di travolgere nell’agone politico e nello scontro tra maggioranza di governo e autonomie la figura del presidente della Repubblica, investito del potere “spaventoso” di spostare la competenza su di un progetto di legge dal Senato federale alla Camera dei deputati.

Analizzando le modifiche apportate al riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni, il prof. Franco CARINCI ha sottolineato la caratteristica migliorativa del nuovo testo rispetto a quello del 2001, soprattutto per la quasi pedissequa osservanza che si è data nella stesura agli orientamenti forniti dalle pronunce della Corte costituzionale. Innanzitutto la esplicitazione dei criteri generali di flessibilizzazione del sistema e l’estensione generalizzata del potere sostitutivo appaiono elementi positivi di innovazione.
Successivamente, anche la reintroduzione della clausola dell’interesse nazionale e l’arricchimento dell’elenco delle materie di competenza esclusiva dello Stato sono state giudicate in senso continuistico con l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, ravvisandovi una riaffermazione della trasversalità di alcune competenze statali ed una fissazione di criteri generali del sistema, la cui assenza nel dato normativo aveva creato non poche difficoltà in sede di interpretazione.

Dalla relazione del prof. ROVERSI MONACO sulle funzioni amministrative è emersa una forte critica al dato costituzionale vigente, risultante dalla riforma del 2001, con cui si è cercato di recepire dal contesto comunitario il principio di sussidiarietà in maniera meramente meccanica, trascurando che una lettura attenta degli artt. 2 e 5 Cost. avrebbe portato a medesimi, se non migliori risultati. Successivamente, la nuova formulazione dell’art. 114 è vista come un “soprassalto di egualitarismo” tra gli enti territoriali, mentre con la riscrittura del 118 Cost., operata del 2001, non si è fatto altro che una “brutta copia” dell’art. 2 Cost.
La riforma costituzionale ancora pendente opererebbe, poi, una nuova modifica “inutile e superflua” sull’art. 118 Cost, per di più mantenendo una concezione della sussidiarietà che rischia di perdere il significato più pregnante del termine. Rimanendo confinata nell’ambito del pubblico, la sussidiarietà si svuota, secondo il relatore, della sua dimensione orizzontale, lasciando al di fuori l’agire dei privati che la completerebbe in maniera naturale, compito che in passato è stato spesso assolto dalle istituzioni di beneficenza e di assistenza pubblica.

La sessione mattutina del convegno si è conclusa con la relazione del prof. DI PIETRO sui tratti della riforma caratterizzanti l’autonomia e la responsabilità finanziaria.
La forte affermazione del principio di autonomia contenuto nella riforma è forse andata a scapito della responsabilità, che non è stata affrontata in modo compiuto, tralasciando qualsiasi riferimento ai vincoli comunitari.
Anche la rivisitazione della forma di governo non ha comportato conseguenze rilevanti nel circuito della responsabilità finanziaria. L’evoluzione del ruolo dell’esecutivo avrebbe forse richiesto un mutamento delle prerogative del Parlamento nella sessione di bilancio, che invece rimangono sostanzialmente immutate. Anche la legge di bilancio è rimasta di competenza di entrambe le Camere, seppure nell’ambito del nuovo bicameralismo differenziato.
La tensione tra autonomia e responsabilità finanziaria risulta presente anche al livello delle autonomie territoriali. In particolare il rapporto tra regioni ed enti locali si divide nel paradosso secondo cui a questi ultimi spetta il compito di governare senza finanza, mentre alle prime di finanziare senza il governo di importanti capitoli di spesa.
Anche su questo fronte si coglie una tendenza alla centralizzazione, tratto evidenziato anche su altri profili della riforma, sebbene si effettui una distinzione tra i centri di decisione e di spesa (plurali e decentrati), mentre la responsabilità esclusiva del debito pubblico viene lasciata allo Stato.

Le relazioni del pomeriggio, introdotte dal prof. MONTUSCHI, hanno riguardato ambiti maggiormente circostanziati. In apertura il prof. BOTTARI ha ricostruito la complessa vicenda dell’attribuzione delle competenze in materia sanitaria, dall’impostazione della Costituzione del 1948 alle riforme che si sono succedute dagli anni settanta alla riforma del Titolo V del 2001.
L’introduzione di competenze regionali esclusive in materia di assistenza ed organizzazione sanitaria, bilanciata dalla restituzione alla competenza esclusiva dello Stato della tutela della salute, è vista dal relatore come non esplosiva per il sistema. Anzi, si attribuisce alla riforma una rinnovata spinta centralizzatrice, anche in forza delle clausole generali rappresentate dall’interesse nazionale e dalle disposizioni dell’art. 120 Cost, oltre alla riappropriazione da parte dello Stato della competenza regolamentare e di coordinamento.
Il prof. MAINARDI si è soffermato sul riparto di competenze in materia scolastica, innanzitutto chiedendosi se non fosse opportuna anche una rivisitazione dell’art. 33 Cost., alla luce delle innovazioni introdotte a partire dalla riforma del 2001.
Nel frattempo, con la riforma operata con legge ordinaria (cd. riforma Moratti) si è affermata una concezione riduttiva delle innovazioni apportate in materia con il Titolo V, concedendo più all’autonomia scolastica che alla competenza regionale. L’intervento recente segna una continuità con tale interpretazione, sebbene con la novità, non ritenuta per altro significativa, della possibilità di introduzione di parti di specifico interesse regionale nei programmi scolastici. Alla luce del quadro delineato sarebbe sembrato opportuna una soppressione della competenza concorrente in tema di istruzione.
I temi del coordinamento tra centro e periferia ed i luoghi di unità della Repubblica sono stati affrontati dalla relazione del prof. MORRONE. Si è innanzitutto lamentata sia una totale mancanza di disciplina transitoria nella riforma del Titolo V del 2001, sia una evidente lacuna nell’attuazione della stessa nel corso degli anni successivi, probabilmente imputabile anche al cambio di maggioranza parlamentare. Il risultato è stato un ruolo, forse eccessivo, di supplenza da parte della Corte costituzionale, che ha di fatto reso flessibile fino all’estremo il dato normativo, soprattutto in tema di riparto delle competenze legislative. In questo modo si è avuto un diritto costituzionale vivente coincidente con le elaborazioni giurisprudenziali della Corte, lasciando “in bianco” le disposizioni dell’art. 117 Cost.
La conseguenza principale di una simile impostazione è lo spostamento a valle del principio di leale collaborazione, che rimane confinato all’amministrazione, dato che per le grandi decisioni strategiche lo strumento unico sembra essere diventato la legge dello Stato. Con la riforma costituzionale sottoposta al referendum si riprende la concezione secondo cui la ripartizione delle competenze debba seguire l’ “interesse” prevalente.
Il nuovo quarto comma dell’art. 117 non sembra, in quest’ottica, aggiungere nulla a quanto la Costituzione già non prevedesse, al massimo lo si può considerare una maggiore garanzia delle competenze esclusive regionali negli ambiti materiali citati.
Rimangono aperte alcune problematiche sugli istituti che si vorrebbero introdurre, che solo la prassi applicativa potrà risolvere. Innanzitutto non è ben chiaro se la reintroduzione della clausola dell’interesse nazionale, con un meccanismo che “scimmiotta” quello descritto nella Costituzione del 1948, costituisca un limite all’esercizio della competenza regionale ovvero se sia un vero e proprio limite materiale. Dal punto di vista procedurale, invece, si dovrà vedere cosa succederà in caso di concomitanza del sindacato parlamentare sull’interesse nazionale con un ricorso alla Corte costituzionale sullo stesso provvedimento regionale. Infine, è possibile ipotizzare una sorta di concorrenza tra Senato federale e sistema delle conferenze, una volta che questo venga inserito in Costituzione. La risoluzione di tali conflitti sarà data, appunto, solo dall’esperienza, ed anche la Corte costituzionale faticherà a dare un significativo contributo, secondo il relatore, proprio per il rischio che l’introduzione di una via d’accesso per gli enti locali al giudizio possa sommergerla di questo tipo di ricorsi.
Il prof. LOLLI è intervenuto sulla tematica ambientale, sottolineando come proprio la materia dell’ambiente sia stata anche nella giurisprudenza costituzionale una delle chiavi per l’affermazione del principio di trasversalità delle materie e che, per questo, offre notevoli spunti di interesse per ciò che concerne la collaborazione tra i diversi livelli di governo, ed anche nel contesto delle relazioni internazionali. Nel panorama interno, principio cardine sarà l’intesa debole, secondo cui lo Stato dovrà ricercare, per quanto possibile, l’accordo con gli enti territoriali interessati, salvo poi procedere comunque qualora questo non si verificasse.
Passando al rapporto con l’ambito comunitario, la prof.ssa MANCINI si è soffermata in particolare sui rapporti tra Parlamenti ed Unione Europea. La mancanza nell’ordinamento italiano di una efficace rappresentanza dei territori rischia di essere un limite del sistema rispetto, ad esempio, ad esperienze come quella tedesca, in cui le funzioni del Bundesrat travalicano i confini del potere legislativo e permettono la realizzazione di una forte rappresentanza dei Länder anche nel contesto comunitario, permettendo, allo stesso tempo, anche una razionalizzazione dei costi ed una azione maggiormente unitaria.
Un limite più generale della riforma costituzionale starebbe nella mancanza di un ruolo europeo per il Parlamento, che non riuscirebbe quindi ad assumere quella funzione di “federatore” all’interno dello Stato e con la istituzioni comunitarie. In altre parole, si sarebbe potuta impiantare la riforma costituzionale anche sulle recenti evoluzioni a livello costituzionale dell’Unione europea, ponendo, come lo era stato la Costituzione del ’48 per il dopoguerra, la nostra nuova Carta come esempio per le future modifiche costituzionali degli altri Stati, anche alla luce delle competenze che il Trattato costituzionale assegna agli organi legislativi degli Stati membri.
Un ruolo negativo, a causa della sua scarsa rilevanza, è assunto anche dalla Commissione permanente per gli affari comunitari, che rischia di assumere una posizione sempre più subalterna rispetto alla Commissione esteri, mentre invece, ancora in Germania, l’organo omologo è addirittura contemplato in Costituzione.
I rapporti tra Regioni ed Unione Europea sono stati affrontati dalla relazione del prof. MEZZETTI, che ha innanzitutto ricordato le innovazioni introdotte dalla l. 11 del 2005. Di seguito sono state illustrate le prospettive inedite che potrebbero venire aperte dalla reintroduzione dell’interesse nazionale, ove si ritenesse compatibile la giurisprudenza costituzionale precedente al 2001, nella quale si era ricompreso nell’interesse nazionale anche un congruo e tempestivo adattamento del diritto comunitario nel contesto interno (Cost. 126/96). I limiti però verrebbero dalla effettività di un meccanismo come quello previsto dal nuovo art. 127 Cost., che richiederebbe l’intervento del Parlamento in seduta comune.
Una ulteriore conferma della scarsa attenzione nei confronti del contesto comunitario del legislatore costituzionale sia del 2001 che del 2005 è stata l’affermazione del principio di sussidiarietà senza però alcun riferimento al protocollo specifico sul tema.
Il prof. Andrea CARINCI ha chiuso la sessione pomeridiana con la relazione sugli strumenti di perequazione delle risorse finanziarie, sottolineando come, sotto questo punto di vista, la riforma del 2005 sembri introdurre maggiori elementi solidaristici e redistributivi rispetto al testo del 2001. L’art. 119 Cost. non viene intaccato dal nuovo intervento del legislatore costituzionale, anche per la scarsa attuazione che finora vi è stata data. Proprio su questo tema le disposizioni transitorie prevedono un termine di tre anni per la realizzazione di quei meccanismi che potrebbero assumere rilevanza centrale nel nuovo assetto più compiutamente federalista.

Le conclusioni del convegno sono state affidate al prof. VANDELLI che ha innanzitutto ricordato come sia dal dibattito politico, sia dalle relazioni della giornata sia emersa una duplice lettura della riforma (visione centralizzatrice e possibile disgregazione, strapotere del primo ministro e potere di ricatto delle minoranze e così via).
Il relatore ha sottolineato la tendenza generale verso l’acquisizione di una posizione quasi autonoma del presidente del consiglio rispetto alla struttura più complessa del Governo. Può egli infatti porre da solo la questione di fiducia senza necessità di una deliberazione del Consiglio dei ministri, ha potere di nomina e di revoca dei membri dell’esecutivo e concentra su di sé la possibilità di proporre lo scioglimento delle Camere al presidente della Repubblica. È questo un insieme di “solitudini” del premier che modifica anche il concetto di responsabilità collegiale del Governo.
Sostanziale bilanciamento di questo ruolo preminente del premier avviene in più occasioni. Innanzitutto al Senato, dove la non sussistenza del rapporto fiduciario indebolisce enormemente il Governo che, do fronte ad una maggioranza riottosa in Senato, rimane titolare della sola “questione di programma”, che però deve affrontare il severo filtro del presidente della Repubblica per avere una concreta effettività.
La principale debolezza del sistema delineato risiederebbe però nella sua rigidità, derivante da una struttura per blocchi distinti, senza sufficienti mezzi di coordinamento e di raffreddamento della conflittualità tra poteri e tra organi. Il sommarsi di esclusività nelle competenze, infatti, rischia di esacerbare le conflittualità già esistenti, spesso di non facile soluzione già a causa dall’avversione dei differenti orientamenti politici. In definitiva, non sembra esserci un soddisfacente bilanciamento tra la necessaria unitarietà dei diritti e la scarsa flessibilità degli strumenti che il legislatore costituzionale ha delineato.


Giovanni Piccirilli