Il Consiglio di Stato ribadisce, relativamente alla nozione di servizio pubblico locale, l’orientamento espresso dalla Sezione con sentenza 9 maggio 2001 n. 2605 e con sentenza 16 dicembre 2004 n. 8090, con le quali è stato affermato che “sono indifferentemente servizi pubblici locali, ai sensi dell’art. 112, T.U.E.L. n. 267/2000, quelli di cui i cittadini usufruiscano uti singuli e come componenti la collettività, purché rivolti alla produzione di beni e utilità per obiettive esigenze sociali”. Ad avviso del Supremo giudice amministrativo, quindi, l’utenza del servizio di riscaldamento degli edifici comunali “non va individuata, restrittivamente, nei dipendenti comunali, ma si estende al pubblico che si reca negli uffici, e, soprattutto, ai frequentatori delle biblioteche, delle palestre, dei centri anziani e altri sevizi ospitati in immobili comunali”.
La pronuncia in rassegna presenta, inoltre, interesse perché il Consiglio di Stato effettua alcune considerazioni sul requisito del “controllo analogo a quello esercitatile sui propri uffici” che legittima l’affidamento diretto di un servizio pubblico locale da parte di un Ente locale ad un soggetto sul quale l’Ente locale medesimo sia in grado di effettuare un tale tipo di “controllo”.
Il Collegio giudicante – dopo aver osservato che “l’avviso espresso dalla Commissione della Comunità con la nota 26 giungo 2002, diretta al Governo Italiano, circa l’insufficienza degli strumenti propri dell’azionista di maggioranza ai fini dell’esercizio del «controllo analogo»…non è mai stato fatto proprio dalla Corte di Giustizia” e che il giudice comunitario “non ha ancora fornito risposta al quesito pregiudiziale avanzato da questa Sezione con l’ordinanza 22 aprile 2004 n. 2316” -, afferma che “per esigenze fondamentali di logica interpretativa, l’adozione nel diritto comunitario della figura societaria, come strumento alternativo alla prestazione diretta dei servizi pubblici, impone di risolvere il problema del “controllo analogo” secondo un criterio coerente con la peculiarità dell’istituto in questione”.
In tale prospettiva, quindi, viene affermato che deve ritenersi escluso, “in linea di principio, che il diritto comunitario possa imporre un modulo che riproduca, tra Amministrazione e società affidataria, quella forma di dipendenza che è tipica degli uffici interni all’ente”.
Secondo il giudice italiano, infatti, la giurisprudenza comunitaria non autorizzerebbe a ritenere che “il possesso della totalità o della maggioranza delle azioni della società affidataria da parte dell’ente o degli enti pubblici consorziati non permetta l’esercizio di una funzione di direzione e di controllo della gestione, che, se pure non identico nelle modalità, sia sostanzialmente equivalente a quello svolto sulle unità operative direttamente dipendenti. L’ente pubblico, o gli enti pubblici, proprietari dell’intero pacchetto delle azioni, sia mediante la nomina degli organi, sia mediante l’approvazione di opportune deliberazioni, sono in condizioni di imporre, o meglio, di svolgere, ogni tipo di verifica e di rendiconto, in modo che sia operante la sostanziale identificazione riscontrabile tra il soggetto societario agente con la mano pubblica che le affida il servizio. Ed è, appunto, tale identificazione – osserva ancora il Giudice – che rende “compatibile con le regole comunitarie che tutelano la concorrenza l’affidamento di un servizio pubblico ad una società privata senza l’adozione delle procedure ad evidenza pubblica”.
Sulla base di tale premesse quindi, il Collegio – affermando di aderire all’orientamento comunitario – ritiene che il problema della sussistenza del «controllo analogo» vada risolto in senso affermativo qualora il soggetto pubblico possieda la totalità del pacchetto azionario della società affidataria. Tale requisito, viene riconosciuto sussistente nel caso sottoposto al suo apprezzamento poiché il capitale della aggiudicataria è pubblico in percentuale superiore al 99%, mentre la quota in possesso del socio privato è di entità simbolica, tale da non attribuire comunque “un illecito vantaggio” (cfr. Corte di Giustizia, sentenza 11 gennaio 2005, causa C-26/03, Stadt Halle) ad una determinata impresa rispetto ad altri soggetti operanti nel medesimo settore economico.