Il punto sul lavoro nelle Pubbliche amministrazioni – Resoconto convegno

22.04.2005

Roma, 19 aprile 2005

Corte di Cassazione

Il 19 aprile 2005 si è tenuto, presso la Corte di Cassazione, l’incontro di studio in memoria di Raffaele Di Lella e Paolino Dell’Anno, sul tema “Il punto sul lavoro nelle pubbliche amministrazioni”.

Presiede: Giuseppe Ianniruperto (Presidente della sezione lavoro della Corte di Cassazione);
Relatori: Carlo Zoli (Università di Trento); Filippo Curcuruto (Corte di Cassazione – sezione lavoro); Sandro Mainardi (Università di Bologna).

Le grandi riforme che hanno interessato la Pubblica Amministrazione negli anni “90 hanno coinvolto anche il rapporto di lavoro con i suoi dipendenti, che, con la contrattualizzazione , è trasmigrato nell’alveo del diritto del diritto del lavoro privato (inteso in senso classico). Ancora oggi, però, sono molte le problematiche derivanti dal necessario coordinamento tra il diritto del lavoro ed il diritto amministrativo, anche se, su alcune di queste, tra cui il riparto di giurisdizione, proprio la Corte di Cassazione sembra aver messo oramai un punto fermo (Ianniruperto).

I lavori dell’incontro di studio hanno in particolare approfondito le seguenti tematiche:
– la dirigenza pubblica;
– le mansioni;
– il potere disciplinare.

· La dirigenza (Prof. Carlo Zoli):

Il principio cardine della “privatizzazione” del pubblico impiego è quello della distinzione/separazione della politica dalla amministrazione concreta, dove alla prima spetta, a monte, l’individuazione degli obiettivi ed a valle, la valutazione dei risultati, mentre alla seconda spetta la gestione concreta delle risorse, avvalendosi dei poteri delle capacità del privato datore di lavoro (ai sensi dell’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 165/01). In tale quadro la dirigenza pubblica diviene il fulcro di questa riforma, quale momento di concreta gestione delle scelte effettuate in sede politica.
Il circuito virtuoso in cui dovrebbe inserirsi la dirigenza pubblica, è quello dell’autonomia correlata dalla rispettiva responsabilità, ma il modello proposto dal legislatore presenta ancora dei profili di sofferenza, aggravate ulteriormente dalle modifiche, limitate, ma incisive, intervenute ad opera della l. n. 145/02.
La formulazione dell’art. 19, d.lgs. n. 165/01 (ante l. n. 145/02) prevedeva la configurazione del conferimento dell’incarico dirigenziale attraverso l’utilizzo sia del “contratto” che di un successivo “atto di conferimento”. Tale composita formulazione normativa aveva sollevato non poche perplessità in relazione alla natura stessa dell’atto di conferimento dell’incarico; dubbi risolti a favore del profilo privatistico, sia per l’interpretazione complessiva del d.lgs. n. 165/01 in linea con la ratio sottesa allo stesso, che, più in particolare, dall’art. 63, d.lgs. n. 165/01, che, in sede di riparto di giurisdizione conferiva al G.O. le controversie relative al conferimento dell’incarico e la responsabilità dirigenziale.
I criteri per il conferimento dell’incarico, il cui contenuto veniva concordato da entrambe le parti, erano tanto soggettivi, quanto oggettivi, dove, con l’ausilio del principio di rotazione degli incarichi, si dava spazio alla flessibilità nell’utilizzo delle risorse umane a disposizione della P.A..
Il dirigente incardinato nel ruolo unico, venuta meno la possibilità di configurare un interesse legittimo in virtù della posizione paritetica di contrattazione e ritenendo insoddisfacente la figura dell’interesse legittimo di diritto privato, quale mera variante semantica del diritto soggettivo, vanta un diritto soggettivo al conferimento dell’incarico.
Al momento del conferimento dello stesso, la P.A. non deve considerarsi obbligata ad effettuare una valutazione comparativa tra più aspiranti, ma, dovendo dimostrare la logicità della scelta effettuata, ha un obbligo di esporre i motivi della stessa, laddove la condizione di legittimità non va ricercata nell’imparzialità, ma nella correttezza e buona fede.
Qualora sorgesse una contestazione, il G.O., in funzione di giudice del lavoro, non può spingersi a valutare l’opportunità della scelta della P.A., ma è possibile un risarcimento del danno, che nel “quantum” sarà composto sia dalle differenze retributive che dal grado di probabilità di conferimento dell’incarico (con prova a carico del dirigente).

La modifica operata della l. n. 145/02, interviene sul conferimento dell’incarico, non solo invertendo l’ordine degli atti (provvedimento cui accede il contratto), ma anche modificandone il peso, infatti la determinazione dell’oggetto dell’incarico e gli obiettivi da conseguire sono oggi rimessi alla fonte unilaterale del provvedimento. Si è dunque riaperta la questione relativa alla natura del conferimento dell’incarico dirigenziale, ma anche in questo caso non si è potuto che optare per la sua natura privatistica, nonostante si utilizzi il sostantivo provvedimento, sia perchè non viene affiancato da “amministrativo”, sia perché non si modifica il riparto di giurisdizione previsto all’art. 63, d.lgs. n. 165/01.
L’altra faccia della medaglia è rappresentata dalla responsabilità dirigenziale, sulla natura della quale molto si è discusso in dottrina. Chi parla opta per una responsabilità distinta da quella disciplinare, dunque come forma di responsabilità di risultato. Laddove si individua una responsabilità per inosservanza delle direttive, non si fa riferimento ad una responsabilità disciplinare, ma nella configurazione delle direttive ai sensi dell’art. 14, comma 2, d.lgs. n. 165/01, rileva dunque l’imperizia e non la negligenza.
In relazione alla possibilità di recesso dal rapporto di lavoro, la Corte Costituzionale ha tracciato un percorso a garanzia della dirigenza attraverso la tipizzazione e la gradazione delle misure sanzionatorie. In siffatta situazione di modificazione unilaterale del rapporto di lavoro, una ulteriore garanzia è rappresentata dal parere obbligatorio del Comitato dei garanti. Non pochi i dubbi interpretativi relativi tanto alla natura del comitato stesso che alle possibilità di sindacato del G.O. sul parere dallo stesso reso.

· Lo jus variandi (Consigliere Filippo Curcuruto).

L’assetto del lavoro pubblico privatizzato e del diritto del lavoro “classico” si differenzia ancora sotto il profilo del principio dell’effettività in relazione alle mansioni, in quanto l’elemento pubblicistico della dotazione organica (art. 6, d.lgs. n. 165/01) non consente l’applicazione integrale dell’art. 2103 c.c., che comporterebbe una significativa variazione degli assetti organizzativi e dei profili di spesa, incidendo anche sul principio costituzionale di accesso al pubblico impiego attraverso il concorso pubblico (art. 97, comma 3, Cost.), che rappresenta un principio di garanzia per tutti i dipendenti (anche all’interno della P.A.).
Non è comunque da sottovalutare il frequente utilizzo di personale nelle pubbliche amministrazioni per mansioni superiori, conosciuto come fenomeno del mansionismo, sicchè il legislatore della riforma ha previsto una apposita disposizione per la disciplina delle mansioni all’art. 52 del d.lgs. n. 165/01, disciplina che nel tempo ha subito modifiche normative ad opera del d.lgs. n. 80/98 e del d.lgs. n. 387/98.
Scomparso il riferimento alla possibilità di utilizzo del dipendente per le mansioni inferiori, il principio che viene previamente espresso dall’articolo in questione è che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto ed alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi…..”. L’assegnazione di mansioni equivalenti costituisce dunque atto di esercizio da parte del datore di lavoro del c.d. potere determinativo dell’oggetto del contratti di lavoro e le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono tutte ugualmente esigibili dal datore di lavoro. Pertanto, lo svolgimento di varie mansioni nell’ambito della stessa categoria non costituisce titolo per rivendicare differenze retributive.

Su un piano differente si pongono le problematiche relative alla eventuale attribuzione del dipendente a mansioni superiori. Le mansioni superiori svolte da un pubblico dipendente sono infatti, per previsione legislativa, irrilevanti tanto ai fini della progressione di carriera, quanto ai fini del trattamento economico. Gli unici casi in cui vi sia una legittima attribuzione delle stesse sono individuati ai commi 2 e 4, dell’art. 52, d. lgs. n. 165/01, che prevedono il legittimo esercizio del potere modificativo per la qualifica immediatamente superiore in caso di la vacanza di posto (con obbligo per la P.A. di avviare entro 90 gg le procedure per la copertura del posto in questione) e per il caso di sostituzione di dipendente assente con diritto alla conservazione del posto (esclusa l’assenza per ferie). In tali casi la prevalenza delle mansioni superiori deve aver ad oggetto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, nonché, quale presupposto indefettibile, deve sussistere il provvedimento di nomina o di inquadramento.

L’assegnazione del lavoratore a mansioni superiori al di fuori dei casi previsti obbliga l’amministrazione a corrispondere il trattamento economico in relazione all’attività concretamente svolta, e, qualora il dirigente assegni o mantenga l’assegnazione, o tolleri l’esercizio delle mansioni, con dolo o colpa grave, è chiamato a rispondere personalmente dell’onere retributivo.

· Il potere disciplinare (Prof. Sandro Mainardi)

L’intervento legislativo sul potere disciplinare nel pubblico impiego privatizzato è stato di non poco conto, stante la funzione che da sempre la materia aveva svolto nell’ambito della precedente configurazione del rapporto di lavoro tra dipendente e Pubblica Amministrazione, dove le posizioni soggettive in capo ai primi erano di interessi legittimi e dove tanto il principio di soggezione gerarchica, quanto la sottoposizione allo stretto principio di legalità, imponevano la repressione di ogni comportamento che incidesse negativamente sul corretto esercizio delle funzioni pubbliche. Il sistema disciplinare era dunque interamente regolato da legge o da atti unilaterali dell’amministrazione.
Sciolti i dubbi sulla introduzione del potere disciplinare nell’alveo del diritto privato, che, come mezzo per ristabilire l’ordine violato, rientra tra i poteri di cui all’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 165/01, dubbi che erano emersi nella cd prima privatizzazione, l’art. 55, d.lgs. n. 165/01 detta una specifica disciplina dell’istituto ricalcando le linee tracciate dal diritto privato, il che emerge sia dal richiamo all’art. 2106 c.c. che dei commi 1, 5 ed 8, dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, lasciando spazio alla contrattazione collettiva di definire “la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni”. L’assetto delle fonti è dunque omogeneo al settore privato, vista la coesistenza delle fonti legali e negoziali.
Si individuano tre elementi che caratterizzano l’omologazione del lavoro pubblico al lavoro privato: le fasi del procedimento, che ricalcano quello previsto all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori; il soggetto titolare del potere disciplinare, non più soggetto terzo e neutrale rispetto alla vicenda disciplinare, ma è la medesima P.A. che attraverso l’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari, assume l’esercizio dell’azione disciplinare contro il dipendente, infine il controllo sulla legittimità della procedura e sulla congruità della sanzione, che viene effettuato ex post ed è solo eventuale (per il caso in cui il dipendente decidesse di impugnare la sanzione in sede giudiziale o arbitrale).
Trattandosi di una disposizione “speciale” non mancano gli elementi di continuità con il previdente sistema, quali il regime pubblicistico relativamente all’incompatibilità ed al cumulo degli incarichi (art. 53, d.lgs. n. 165/01) in contrapposizione alle previsioni di cui all’art. 2105 c.c., la permanenza del codice di comportamento dei dipendenti pubblici, che comprime la libertà della P.A. privato datore di lavoro ed il recupero ad opera dei contratti collettivi dei rapporti tra processo penale e procedimento disciplinare.
Si ritiene comunque che la specialità della disciplina non sia tale da configurare una specialità del tipo o del rapporto e dunque del fondamento del giuridico del potere disciplinare nel settore pubblico, ma si tratta di una disciplina che riproduce, con alcune varianti, il modello privatistico in ragione delle della differente struttura organizzativa su cui si innesta.
La riconduzione al diritto privato, avallata dalla stessa Corte di Cassazione nella sentenza n. 2168 del 2004, che ha stabilito che il potere disciplinare è regolato da atti di diritto privato, chiarisce che il procedimento disciplinare non è un procedimento amministrativo, sgomberando il campo dalle problematiche relative all’applicazione della l. n. 241/90.

Di particolare interesse si presenta la possibilità di applicazione relativa alla responsabilità disciplinare alla dirigenza, vista la differenza con la responsabilità di cui all’art. 21 (ne è conferma la nuova formulazione dello stesso articolo), applicazione avallata dalla stessa Corte di Cassazione.

Daniela Bolognino