Il 19 gennaio 2005 Corrado Clini, Enrico Letta, Ermete Realacci, Paolo Scaroni e Giulio Tremonti sono stati invitati a Roma presso la sede dell’Enel per presiedere al convegno organizzato in occasione dell’uscita del numero 27 di Aspenia.
Ha introdotto la discussione il presidente dell’Enel che ha ricordato il precedente incontro Aspen del 15 luglio 2004, organizzato in un clima nettamente diverso, in cui grande era la sfiducia per la futura applicazione del protocollo di Kyoto, data la mancata ratifica degli Stati Uniti e le incertezze della Russia. Dopo l’accettazione russa in ottobre è chiaro che anche l’Italia deve dare corso alla ratifica del trattato, il che significherà per l’Europa, ma in special modo per l’Italia, un impoverimento del sistema paese, in quanto molto pesanti saranno i costi da sostenere. L’augurio del presidente è quindi quello di contribuire con questo convegno alle decisioni che verranno prese nel prossimo futuro.
Roberto Napoletano, moderatore, ha subito affermato che l’abbandono del nucleare fu un errore, non solo pensando al ritardo competitivo che stiamo accumulando, ma anche confrontandoci con gli altri paesi, che ricorrono sempre più al nucleare e da cui noi siamo dipendenti. La rinuncia al nucleare non evita l’importazione di energia prodotta in questo modo e le alternative, vigente il protocollo di Kyoto, non sono molte: il così detto carbone pulito infatti sarebbe più economico ma aumenterebbe le emissioni. La domanda quindi rimane: qual è il mix energetico che l’Italia può adottare unendo competitività e riduzione delle emissioni? Il messaggio che ci viene dall’estero è quello della Cina, che si appresta a costruire circa 20 centrali nucleari. Per Napoletano quindi, l’Italia deve almeno tentare di agire all’estero nel campo nucleare, sia nella ricerca, che nella produzione e trasmissione.
Il primo dei relatori a prendere la parola è Paolo Scaroni, Amministratore Delegato dell’Enel. Con l’adesione della Russia siamo entrati nella fase operativa ed è necessario ragionare sulle conseguenze per la competitività europea e, all’interno dell’Europa, del nostro paese. Gli Stati Uniti, sia repubblicani che democratici, hanno continuato a rifiutare l’adesione a Kyoto, in quanto giudicato too little, too expensive cioè un provvedimento di poco significato e solo molto costoso.
Per Scaroni è rilevante che le grandi economie asiatiche (India e Cina) aderiscano solo dal punto di vista formale, cioè senza limiti. Il dato è significativo se si pensa che ogni anno la Cina emetterà tanta anidride carbonica in più da rappresentare dieci volte il risparmio che farà l’Unione Europea: il solo incremento cinese annullerà lo sforzo titanico proposto dall’Europa.
Facendo un discorso comparato, lo sforzo di Kyoto all’interno dell’Europa non è uguale per tutti, e questo spiega anche la diversità di reazione nei paesi europei. Per fare un esempio, l’ambizioso obiettivo della Germania (-21% di CO2) ha in realtà un costo pari a zero, semplicemente perché lo si raggiunge chiudendo le obsolete centrali della Germania Est, comunque da chiudere in quanto fortemente inefficienti. Per la Francia e i paesi scandinavi invece, il passo è facile in quanto possono contare sulla produzione nucleare a zero emissioni: ne risulta quindi più un’opportunità che un costo. Scaroni afferma che invece chi ha di fronte una strada davvero in salita sono Italia e Spagna. Il nostro paese ha accettato un obiettivo assolutamente realista, cioè una riduzione del 6,5% delle emissioni che pur sembrando piccolo è uno sforzo assolutamente considerevole. Se infatti confrontiamo l’intensità energetica e la produzione di anidride carbonica per rapporto al PIL si nota che il consumo energetico italiano è nettamente inferiore a quello degli altri paesi europei, e quindi una riduzione non può più di tanto forzare sull’efficienza energetica. Allo stesso tempo, la nostra produzione, al di là dell’abbandono del nucleare, non è comunque ad alta produzione di CO2: non abbiamo infatti centrali a lignite o centrali vecchie o inefficienti che avendo emissioni alte permettono tramite provvedimenti semplici una immediata riduzione delle stesse. Si capisce quindi che l’Italia è sottoposta ad uno sforzo nettamente maggiore.
Inoltre, non siamo assolutamente efficienti per quanto riguarda i costi della nostra energia elettrica: si tratta di un’energia costosa, fatta principalmente da derivati del petrolio. È necessario quindi, e l’Enel si sta impegnando in questo, riequilibrare le fonti di energia: il piano è portare l’Italia ad un maggior uso di carbone e investire sempre di più nell’energia rinnovabile. Lavorando su ricerca e innovazione, si è introdotto un nuovo contatore elettronico che misurerà i consumi con sempre maggiore precisione e si sta investendo molto sull’idrogeno, considerato la nuova frontiera dell’energia pulita.
Tornando a Kyoto, Scaroni afferma che il costo marginale di abbattimento di una tonnellata di anidride carbonica in Italia è tre volte quello della Francia e il doppio di quello della Germania. Per questa ragione, con un’applicazione uniforme del trattato di Kyoto potremmo arrivare al paradosso di comprare emission trading certificates da paesi molto meno virtuosi di noi, ma che non hanno il problema di abbattere le emissioni. Potremmo cioè trovarci nella situazione in cui noi, pro capite o pro pil, emettiamo meno anidride carbonica della Germania, ma proprio da questa dovremo comprare certificati, che darebbero un ulteriore colpo alla competitività del nostro paese.
In questo scenario il nostro governo ha presentato un piano nazionale di allocazione delle emissioni molto equilibrato, che tiene conto delle peculiarità italiane. Innanzi tutto consente di rispettare il regime Kyoto incentivando l’innovazione tecnologica e valorizzando tutti gli investimenti che possono essere realizzati nei paesi in via di sviluppo al fine di ridurre le emissioni. Secondo, limita l’impatto sui prezzi dell’energia attraverso un meccanismo di aggiustamenti ex post. Terzo, è compatibile con le politiche di diversificazione dei combustibili che l’Enel considera essenziali per la competitività del paese.
In conclusione, Scaroni afferma che quanto il governo ha proposto a Bruxelles va difeso ad oltranza, pena la perdita di competitività.
Ha quindi preso la parola Corrado Clini, dirigente del Ministero dell’Ambiente, che ha incentrato il suo intervento sulla storia del protocollo di Kyoto, affermando che l’UE, andando avanti senza l’adesione degli Stati Uniti in modo sostanzialmente unilaterale, ha recepito un trattato nettamente diverso da quello concordato a Kyoto nel 97. In quell’occasione si lavorò infatti con gli Stati Uniti tramite un sistema a loro familiare, che considera gli sforzi per la riduzione di CO2 come efficaci indipendentemente dal punto del pianeta ove questi avvengono: ad un problema globale si opponeva un primo tentativo di trattato globale. Tuttavia, il protocollo ha progressivamente assunto i tratti di una direttiva europea, con vincoli stringenti per i paesi e quindi con uno sforzo di riduzione nel solo mercato interno contro lo spirito iniziale dell’accordo, passando da una visione globale ad una nazionale. Inoltre, era già chiaro il significato dell’espansione delle nuove economie, in special modo di quella cinese: si prevedevano quindi strumenti innovativi capaci di accreditare al paese che investe in progetti per lo sviluppo tecnologico nelle economie emergenti i risultati ambientali realizzati in quella economia. Questa caratteristica si è persa insistendo sugli impegni nazionali: l’Unione Europea ha accusato gli Stati Uniti di voler utilizzare questi strumenti per internazionalizzare le proprie imprese nel settore energetico, e nel novembre 2000 (prima dell’insediamento di Bush) c’è stata la rottura tra Stati Uniti e Unione Europea, modificando sensibilmente la struttura del trattato. In conclusione, afferma Clini, gli effetti sono decisamente minori rispetto a quelli concertati.
Per scongiurare che in regime Kyoto l’Italia diventi nient’altro che un compratore netto di permessi da paesi in realtà meno virtuosi, si dovrebbe verificare la possibilità di ottenere sconti sulle emissioni incentivando la cooperazione tecnologica con le economie emergenti. Questo sistema avrebbe un ulteriore vantaggio se si confrontano i costi delle operazioni nei diversi mercati: abbattere una tonnellata di CO2 in un sistema economico emergente costa circa 5 $ contro una spesa almeno tre volte superiore per ottenere lo stesso risultato in Europa (e tali costi in regime Kyoto tenderanno ad aumentare a causa del peso delle sanzioni che inizieranno ad essere applicate).
Clini ha ricordato che, nonostante la situazione italiana sia difficile, anche paesi che guardavano con entusiasmo a Kyoto in quanto si immaginavano venditori di permessi, iniziano a scontare delle difficoltà: la Francia ad esempio non riesce a rispondere più alla domanda di energia tramite il nucleare e sta riattivando vecchie centrali a carbone e costruendo altri impianti che utilizzano combustibili fossili (e un processo simile avviene in Belgio, Danimarca, Austria e Svezia). A livello europeo si sta quindi verificando una situazione che non corrisponde alle attese del 97.
Ancora per quanto riguarda l’Italia, gli impegni presi a Kyoto si basavano su di uno scenario energetico nettamente diverso da quello che si presenta oggi: se da una parte si utilizza più gas naturale e aumentano le importazioni, dall’altra sorge il problema della dipendenza energetica e si provvede quindi a colmare il gap tra offerta e domanda di energia, garantendo la sicurezza energetica.
Secondo Clini, se la Russia ha determinato l’attivazione del protocollo di Kyoto, rischia comunque di non farne realmente parte. I sistemi di contabilità russi e gli scenari di previsione sui consumi non consentono alla Russia di svolgere un vero e proprio ruolo all’interno degli accordi. È quindi possibile che s’incontrino una serie di difficoltà operative nell’applicazione del protocollo, che attualmente non sono prevedibili. Per Clini è quindi necessario chiedersi se continuare con un’applicazione europea unilaterale, o iniziare a ragionare su un sistema nettamente diverso anticipando il dopo Kyoto e ritornando ad un approccio globale, sostanzialmente simile a quello con cui il protocollo era stato pensato nel 97.
L’onorevole Enrico Letta ha preso la parola affermando che se gli anni 90 ci hanno insegnato che le liberalizzazioni sono necessarie, oggi sappiamo che non sono sufficienti, ovvero non risolvono tutti i problemi legati all’energia. Allo stesso tempo non si può pensare di tornare indietro, bisogna completare le liberalizzazioni e riformare i servizi pubblici locali, punto nodale della gestione dei nostri servizi.
Per Letta tuttavia i problemi relativi alla liberalizzazione sono scissi da quelli riguardanti la produzione di energia: c’è quindi necessità di approntare una strategia che batta queste strade in modo parallelo.
Negli anni ’80-’90 sono stati fatti due errori da non ripetere, abbandonando due fonti energetiche senza alcuna previsione sul come sostituirle: di qui una dipendenza sensibile dell’Italia in campo energetico. Riguardo al nucleare sarebbe comunque sbagliato un ritorno puro e semplice alla situazione precedente al referendum, cancellando gli sforzi finora compiuti per raggiungere un diverso mix energetico. Si devono invece cogliere le opportunità date dall’investimento all’estero, economicamente possibili e fruttuose. In modo più ampio, riguardo a tutte le fonti di energia, è necessario puntare sull’internazionalizzazione delle imprese e sui rapporti con partner importanti come la Francia.
Letta condivide la strategia Enel in fatto di produzione energetica: andare verso un mix diverso, che releghi l’olio in una posizione marginale, aumentando la presenza del gas e delle energie rinnovabili, senza tralasciare l’importanza del carbone per colmare il gap domanda/offerta. È quindi necessaria una strategia globale e di lungo periodo, mirata all’investimento in infrastrutture e attenta ad un più ampio discorso geopolitico, relativo ai rapporti intrattenuti con i fornitori e alla posizione italiana in una situazione di dipendenza energetica: con particolare riguardo al gas, si dovrebbe pensare a fare dell’Italia non solo un paese di arrivo ma anche di transito.
Brevissimo l’intervento di Giulio Tremonti, che ha preso la parola commentando le peculiarità del protocollo di Kyoto. Fino a qualche anno fa, la fonte del diritto poteva variare, essere nazionale o internazionale, ma l’efficacia della norma così deliberata era comunque garantita. Ad esempio un grande accordo sanitario, poteva non bloccare il fenomeno in tutto il mondo, ma lo arrestava comunque nella parte di mondo dove il trattato aveva luogo. Con Kyoto invece fenomeni globali vengono affrontati in modo locale, in quanto grandi economie industriali, dell’oriente come dell’occidente, sono fuori dall’applicazione del protocollo. Il fatto è che in questo caso, dove il trattato è rispettato non ci sarà un arresto del fenomeno oggetto di normativa: c’è quindi un’asimmetria assoluta tra struttura del fenomeno e funzione dello strumento. Per Tremonti se Kyoto non è globale, non solo non ha effetti, ma è anche controproducente, in quanto nuoce gravemente all’economia dei paesi che lo applicano per effetto di spiazzamento competitivo. Ardito il commento conclusivo in cui il vice di Forza Italia afferma che l’Europa sconta l’influsso di un’ideologia giuridica che carica ogni azione di un nocivo eccesso di regole e che ricorda il medioevo premoderno, facendo pensare ad un attuale medioevo postmoderno.
Ultimo dei relatori intervenuti, Ermete Realacci, presidente di Legambiente e deputato della Margherita, ha ricordato che Kyoto è nato come un primo passo tra i paesi industrializzati in quanto principali produttori di anidride carbonica, con la massima apertura a tutti i paesi per far diventare l’accordo globale. Impressionante è che ancora a Luglio si dava per scontato che al protocollo non si sarebbe dato corso, e naturale conseguenza di ciò è stata l’attuazione italiana dell’emission trading, arrivata ultima in Europa. In sostanza, è opinione di Realacci che sia mancata finora la volontà politica di affrontare le conseguenze dell’accettazione di Kyoto.
Per quanto riguarda la produzione energetica, non si vede la reale esistenza di una seconda era nucleare (è questo il titolo di Astenia 27). Chiaramente, chi ha già centrali nucleari, ha convenienza a mantenerle. Se infatti si è già ammortizzato il costo dell’impianto, il costo marginale della produzione energetica è molto basso. Al contrario, in una situazione di mercato le centrali nucleari non sono assolutamente convenienti, e in effetti sono cinque anni che nei sistemi in cui la produzione energetica è affidata ai privati non si ordinano reattori nucleari: in Europa la situazione è ferma da 10 anni, e solo la Finlandia sta pensando alla costruzione di una nuova centrale. Un recente studio del Politecnico di Milano conferma che in situazioni non monopolistiche l’energia nucleare non è competitiva: per Realacci chi lo dice è soltanto nostalgico o possiede già impianti funzionanti.
Kyoto è una grande scommessa, ma va affrontato in modo globale con una politica lungimirante. Si pensi ad esempio al traffico e alle polveri sottili: la risposta non sono i blocchi, ma una strategia di ampio respiro che scommette sul trasporto pubblico, sull’uso di mezzi più puliti e sulla riorganizzazione della città. Si andrebbero in questo modo a comprimere quei produttori di gas serra altrimenti difficilmente abbattibili ottenendo quindi ottimi risultati per quanto riguarda il mantenimento degli accordi presi a Kyoto.
Per quanto riguarda più propriamente l’energia, Realacci afferma che è necessario impegnarsi in innovazione e ricerca, con particolare attenzione all’uso razionale delle risorse (in effetti i consumi italiani vanno confrontati non in assoluto, ma tenendo conto dell’influsso del clima, in altri paesi molto più rigido).
Le misure di Kyoto devono diventare una parte stabile della politica economica italiana (di qui la loro introduzione nel dpef) in stretto raccordo con le politiche sulla competitività, pena la loro costante debolezza.
Nel dibattito che ha seguito gli interventi dei relatori sono state fatte alcune osservazioni dalle persone presenti in sala. Il senatore Franco De Benedetti ha chiarito che la dipendenza energetica e la produzione di anidride carbonica sono due cose nettamente distinte che non possono essere confuse. Ha inoltre giustamente sottolineato che l’idrogeno, di cui molto si parla ultimamente, non è una fonte di energia, ma soltanto un mezzo di trasporto di energia del tutto simile alla corrente che quindi, se prodotto con energia non pulita, non può aiutare nell’abbattimento delle emissioni. Più in generale, si rileva una certa confusione di fatti e cose che non hanno molto a che vedere (cambiamento climatico, catastrofi, emissioni, effetto serra, inquinamento), il che non fa che screditare la fiducia nelle capacità revisionali e risolutive della ricerca scientifica.
Interessante l’intervento finale di Paolo Fornaciari, vice presidente dell’Associazione Italiana Nucleare. Innanzi tutto, pensare che liberalizzando si possano ottenere tariffe inferiori è un’illusione: secondo Fornaciari, liberalizzare il settore energetico dove circa il 70% dei costi deriva dall’approvvigionamento di combustibili il cui prezzo è soggetto a cartello e non a mercato, non ha alcuna utilità (e la recente esperienza californiana è un esempio indicativo in tal senso). In ogni caso il problema principale rimane quello del mix energetico, che va affrontato e risolto molto prima delle questioni relative al mercato o al non mercato. A questo proposito, quando si parla di perdita di competitività si dimentica che negli ultimi tre anni il settore energetico ha subito pesanti fluttuazioni del prezzo del petrolio, che è passato dai 18$ al barile nel dicembre del 2001 ai 50 ed oltre pochi mesi fa. L’Italia soffre particolarmente di questa situazione, in quanto è l’unico paese europeo a dipendere fortemente dagli idrocarburi. Per Fornaciari chi parla di un differenziale tra le tariffe europee e quelle italiane limitato al 20% non dice il vero, in quanto le nostre bollette, riferendosi alle utenze più significative e calcolando le fluttuazioni del petrolio, sono circa il doppio di quelle degli altri paesi. Il deficit italiano va risolto tramite una profonda riflessione sul mix energetico. Per quanto riguarda il nucleare, le centrali si costruiscono in tre anni e le competenze per ripensare al nucleare ci sono, non sono perdute.