CGCE, Sentenza 11 gennaio 2005, C-26/03 – La Corte di Giustizia si pronuncia sui criteri di legittimità degli affidamenti “in house”

11.01.2005

Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenza 11 gennaio 2005 in causa C-26/03, Stadt Halle e RPL Recyclingpark Lochau GmbH/Arbeitsgemeinschaft Thermische Restabfall-und Energieverwertungsanlage TREA Leuna
1. Direttiva 92/50/CEE – Appalti pubblici di servizi – Affidamento senza pubblica gara d’appalto –Direttiva 89/665/CEE – Tutela giurisdizionale – Ambito della tutela – Estensione anche a decisioni adottate al di fuori di una formale procedura di affidamento e prima di atto formale di messa in concorrenza.
2. Direttiva 92/50/CEE – Appalti pubblici di servizi – Normativa comunitaria in materia di appalti – Principio generale: obbligo di affidamento tramite gara – Ipotesi derogatorie – Interpretazione restrittiva – Affidamento “in house” – Requisiti – Natura integralmente pubblica dell’affidatario
1. La Corte di Giustizia – chiamata a pronunciarsi su una serie di questioni pregiudiziali riguardanti l’ampiezza della tutela giurisdizionale accordata dall’art. 1, n.1 della Direttiva 89/665/CEE – afferma che: “alla luce [della] giurisprudenza, nonché degli obiettivi, della ratio sistematica e della formulazione letterale della Direttiva 89/665/CEE, ed al fine di preservar[ne] l’effetto utile”…..l’art. 1, n. 1, della direttiva 89/665 deve essere interpretato nel senso che l’obbligo degli Stati membri di garantire la possibilità di mezzi di ricorso efficaci e rapidi contro le decisioni prese dalle amministrazioni aggiudicatrici si estende anche alle decisioni adottate al di fuori di una formale procedura di affidamento di appalto e prima di un atto di formale messa in concorrenza, ed in particolare alla decisione sulla questione se un determinato appalto rientri nell’ambito di applicazione ratione personae e ratione materiae della direttiva 92/50. Tale possibilità di ricorso è concessa a qualsiasi soggetto che abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’appalto di cui trattasi e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una violazione denunciata, a partire dal momento in cui viene manifestata la volontà dell’amministrazione aggiudicatrice idonea a produrre effetti giuridici”. Né deriva, pertanto – osserva ancora la Corte – che “gli Stati membri non sono autorizzati a subordinare la possibilità di ricorso al fatto che la procedura di affidamento di appalto pubblico in questione abbia formalmente raggiunto una fase determinata”(Punti  34 e 41).
2. La seconda questione sulla quale il Giudice comunitario è stato chiamato ad esprimersi riguardava le condizioni in presenza delle quali un’amministrazione pubblica, intenzionata a concludere, con una società di diritto privato da essa giuridicamente distinta, un contratto a titolo oneroso relativo a servizi rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva 92/50, potesse legittimamente evitare di far ricorso alle procedure ad evidenza pubblica ivi previste.
Più in particolare, alla Corte era stato espressamente richiesto di pronunciarsi sulla possibilità di ritenere sempre sussistente, per un’amministrazione pubblica intenzionata a concludere con una società di diritto privato da essa giuridicamente distinta, maggioritariamente partecipata e sulla quale fosse comunque in grado di esercitare un “certo controllo”, l’obbligo di fare ricorso alle procedure ad evidenza pubblica “per il semplice fatto che un’impresa privata detene[sse] una partecipazione, anche minoritaria, nel capitale della detta società controparte”. (Punto 42)
La Corte, nell’affrontare la questione posta al suo apprezzamento, osserva come questa fosse, in definitiva, riferibile al modo in cui doveva essere considerata quella “particolare situazione di una società cosiddetta <<mista pubblico-privata>>, costituita e funzionante in base alle norme privatistiche, alla luce dell’obbligo incombente all’amministrazione aggiudicatrice di applicare le norme comunitarie in materia di appalti pubblici qualora sussistano i presupposti da esse contemplati”.
La risposta che la Corte fornisce a tale interrogativo è che qualora “un’amministrazione aggiudicatrice intende concludere un contratto a titolo oneroso relativo a servizi rientranti nell’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva 92/50 con una società da essa giuridicamente distinta, nella quale la detta amministrazione detiene una partecipazione insieme con una o più imprese private…le procedure di affidamento degli appalti pubblici previste dalla…direttiva debbono sempre essere applicate”.
Il ragionamento effettuato nella pronuncia muove da un inquadramento della problematica relativa al rapporto tra l’autorità pubblica (amministrazione aggiudicatrice) e ricorso al mercato per l’adempimento dei compiti di interesse pubblico ad essa incombenti.
La Corte rileva, in primo luogo, come “l’obiettivo principale delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici…vale a dire la libera circolazione dei servizi e l’apertura ad una concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri…implica l’obbligo di qualsiasi amministrazione aggiudicatrice di applicare le norme comunitarie pertinenti qualora sussistano i presupposti da queste contemplati”; e secondariamente che “qualsiasi deroga all’applicazione di tale obbligo vada …interpretata restrittivamente” (Punti 44 e 46).
In tale prospettiva, viene, quindi, ricordato come nel diritto comunitario non vi sia alcuna norma che impedisca, in via di principio, ad “un’autorità pubblica…di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi”.
In definitiva, è possibile osservare come il modello che la Corte ha in mente quando effettua tali considerazioni è quello dell’autoproduzione da parte dell’autorità pubblica dei beni o servizi di cui abbia eventualmente necessità per l’assolvimento delle proprie funzioni. In tali circostanze, osserva opportunamente la Corte, la questione del ricorso alle direttive appalti non viene neanche in rilievo, dal momento che non ne risultano sussistenti i presupposti di applicazione, posta l’impossibilità di configurare un contratto a titolo oneroso concluso tra l’amministrazione aggiudicatrice ed un’entità da questa giuridicamente distinta.
Proseguendo lungo linea di ragionamento, nella sentenza si ricorda altresì come la giurisprudenza comunitaria sia andata enucleando un’altra ipotesi nella quale, ancorché si configura un contratto a titolo oneroso concluso tra l’amministrazione aggiudicatrice ed un’entità da questa giuridicamente distinta, il ricorso alle procedure ad evidenza pubblica deve nondimeno ritenersi non obbligatorio.
Tale possibilità si radica nella famosa pronuncia Teckal, nella quale è stato affermato il principio in base al quale può legittimamente derogarsi dall’obbligo di far ricorso alle procedure previste dalle direttiva appalti “nel caso in cui l’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, eserciti sull’entità distinta in questione un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi e tale entità realizzi la parte più importante della propria attività con l’autorità o le autorità pubbliche che la controllano” (Teckal, punto 50).
Com’è noto, una delle questioni più controverse originate dalla sentenza Teckal è certamente quella relativa alla nozione di “controllo analogo” che consente di qualificare il rapporto tra un’autorità pubblica (amministrazione aggiudicatrice) ed un’entità da questa giuridicamente distinta come “affidamento in house” e, quindi, come legittima deroga ai principi di messa in concorrenza affermati nelle direttive appalti.
Ed è proprio in riferimento a tale ultimo aspetto che le considerazioni effettuate nella sentenza Stadt Halle, specificano in maniera più puntuale i criteri necessari per poter qualificare una relazione “in house”.
Sul punto, infatti, la Corte – ricordando come il principio affermato nella sentenza Teckal era stato enunciato in relazione ad un caso nel quale l’entità beneficiaria dell’affidamento diretto, benché giuridicamente distinta dall’amministrazione aggiudicatrice, era interamente detenuta dell’autorità pubblica – afferma in modo inequivocabile che “la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi.” (Punto 49).
In definitiva, quindi, dalla pronuncia in esame sembra possibile affermare che ai fini della legittima qualificazione di affidamento “in house” deve ritenersi requisito necessario – ancorché non sufficiente – la natura integralmente pubblica dell’entità beneficiaria dell’affidamento diretto del servizio, dal momento che solo in tal caso è possibile presumere la permanenza, nel complesso articolarsi del rapporto tra l’amministrazione aggiudicatrice e l’entità giuridicamente distinta, di quella funzionalizzazione al soddisfacimento di “esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico” che contraddistingue sempre il rapporto tra un’autorità pubblica ed i propri servizi.
Di contro, la Corte rileva, da un lato, come “qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente” e, dall’altro, che “l’attribuzione di un appalto pubblico ad una società mista pubblico-privata senza far appello alla concorrenza pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza libera e non falsata ed il principio della parità di trattamento degli interessati…nella misura in cui…offrirebbe ad un’impresa privata presente nel capitale della detta società un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti”.
a cura di Luigi Alla


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