L’attività di installazione, sul territorio, delle stazioni radio di base, rientra nell’ambito delle problematiche di più stringente attualità riguardante il diritto delle telecomunicazioni, con il conseguente e continuo confronto sull’elettromagnetismo tra amministrazioni, gestori del servizio di telefonia mobile e cittadini.
Le questioni giuridiche più spinose in materia hanno spesso riguardato il riparto delle competenze tra le varie amministrazioni. Soltanto recentemente, i ripetuti interventi legislativi e giurisprudenziali hanno permesso il delinearsi di un quadro sufficientemente preciso.
Cominciamo con il dire che, alla luce di giurisprudenza pressoché unanime, un dato appare anzitutto chiaro: in funzione della tutela di beni di vitale importanza, quali la salute dei cittadini e la salubrità dell’ambiente, alle amministrazioni comunali non compete alcun potere autonomo, né normativo, né regolamentare, con riguardo all’individuazione delle aree da adibire all’installazione di stazioni radio di base.
Ancora, la recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 536/2002) ha precisato i confini delle competenze riservate dalla Costituzione alle amministrazioni regionali. Si legge nella suddetta decisione: “l’art. 117 della Costituzione esprime un’esigenza unitaria per ciò che concerne la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ponendo un limite agli interventi a livello regionale che possano pregiudicare gli equilibri ambientali. La tutela dell’ambiente non può ritenersi propriamente una materia essendo, invece, l’ambiente da considerarsi come un valore, costituzionalmente protetto […]. E in funzione di quel valore, lo Stato può dettare standard di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale anche incidenti sulle competenze legislative regionali ex art. 117 Cost. Già prima della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, la protezione dell’ambiente aveva assunto una propria autonoma consistenza che non si esauriva, né rimaneva assorbita, nelle competenze di settore, configurandosi come bene unitario, che può risultare compromesso anche da interventi minori e che va pertanto salvaguardato nella sua interezza”.
Infine, la recente sentenza 307/03 della Corte Costituzionale ha ulteriormente chiarito che “nel sistema della legge, gli standard di protezione dall’inquinamento elettromagnetico si distinguono in limiti di esposizione, definiti come valori di campo elettrico, magnetico ed elettromagnetico, che non devono essere superati in alcuna condizione di esposizione della popolazione e dei lavoratori per assicurare la tutela della salute; valori di attenzione, intesi come valori di campo da non superare, a titolo di cautela rispetto ai possibili effetti a lungo termine, negli ambienti abitativi e scolastici e nei luoghi adibiti a permanenze prolungate; e obiettivi di qualità. Questi ultimi sono distinti in due categorie, di cui una consiste ancora in valori di campo definiti ai fini della progressiva minimizzazione dell’esposizione, l’altra invece consiste nei criteri localizzativi, standard urbanistici, prescrizioni e incentivazioni per l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili. La legge attribuisce allo Stato la determinazione dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità del primo dei due tipi indicati, mentre attribuisce alla competenza delle Regioni la indicazione degli obiettivi di qualità del secondo tipo […]. La logica della legge è quella di affidare allo Stato la fissazione delle soglie di esposizione, graduate nel modo che si è detto, e alle Regioni la disciplina dell’uso del territorio in funzione della localizzazione degli impianti, purché criteri localizzativi e standard urbanistici rispettino le esigenze della pianificazione nazionale degli impianti e non siano, nel merito, tali da impedire od ostacolare ingiustificatamente l’insediamento degli stessi”.
Passando ad analizzare le novità legislative, occorre sottolineare che la legge 36/2001, ovvero la Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, ha attribuito alla esclusiva competenza dello Stato la necessaria determinazione di uniformi misure di principio, da adottare per la salvaguardia della salute, relativamente alla determinazione dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità da perseguire.
La medesima legge continua, sulla falsariga delle decisioni giurisprudenziali, ad attribuire alle Regioni soltanto il compito di dare attuazione agli standard minimi di tutela uniformemente dettati dalla Stato per l’intero territorio nazionale.
Ad ulteriore conferma di quanto fin qui detto, ci sembra opportuno richiamare una corretta pronuncia del T.A.R. della Toscana, che ha affermato l’illegittimità di una delibera di giunta regionale, con la quale si era preteso di disciplinare la materia de qua in carenza della necessaria regolamentazione statale.
Pertanto, ogni intervento comunale, il quale costituisca derivazione delle competenze di cui alla legge 36/2001, può essere effettuato solo laddove lo Stato o le Regioni, nell’ambito delle proprie rispettive competenze, abbiano provveduto all’emanazione di tutti gli atti legislativi e regolamentari in conformità alle disposizioni previste.
Infatti, il Consiglio di Stato ha chiarito che il formale utilizzo degli strumenti edilizi e urbanistici, al fine di esercitare le competenze comunali in materia di governo del territorio, non giustifica l’adozione di misure, che possano sostanzialmente costituire una deroga ai limiti di esposizione fissati dallo Stato (un esempio su tutti: il generalizzato divieto di installazione delle stazioni radio di base per la telefonia cellulare in tutte le zone territoriali omogenee a destinazione residenziale).
Sempre sotto il profilo urbanistico ed edilizio, notevole rilevanza rivestiva il d.lgs. 198/02, che aveva tra l’altro introdotto il principio di indifferenza urbanistica per le stazioni radio base, principio in forza del quale gli impianti in questione potevano essere collocati indistintamente in ogni parte del territorio comunale, anche in deroga agli strumenti urbanistici o ad altre disposizioni di legge o regolamento.
La recente sentenza 303/2003 della Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità, per eccesso di delega, dell’intero d.lgs. 198/02. Il vuoto legislativo lasciato dal d.lgs. 198/02 è stato colmato dal d.lgs. 259/03, recante il Codice delle telecomunicazioni elettroniche, che ha sostanzialmente riconfermato, questa volta in pienezza di delega, le previsioni di maggior rilevanza contenute nel d.lgs. 198/02.
Il predetto codice, per quel che attiene ai procedimenti autorizzatori relativi alle infrastrutture di comunicazione, stabilisce che la fornitura di reti di comunicazione elettronica è di preminente interesse generale, e conferma che gli impianti costituenti le reti pubbliche di telecomunicazione sono assimilati ad opere di urbanizzazione primaria. Inoltre, prevede espressamente che, per i limiti di esposizione ai campi elettromagnetici, i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità, si applica il disposto della legge 36/01.
La dottrina, quasi unanime, non ha mancato di sottolineare che nel nuovo intervento normativo ci sia ben poco di diverso rispetto al quadro normativo delineato in precedenza. Infatti, attraverso il d.lgs. 259/03, si è confermato un procedimento autorizzatorio, il quale prevede, come unica condizione, la verifica del rispetto dei valori di emissione elettromagnetica fissati per l’intero territorio nazionale dal recente d.P.C.M. 8 luglio 2003, da eseguirsi da parte dell’Arpa competente, e cioè senza la previsione di alcuna procedura di verifica della compatibilità urbanistica delle stazioni radio base.
Adeguandosi alle previsioni normative suddette, la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto che l’equiparazione alle opere di urbanizzazione comporta che le stazioni radio base possono essere previste in ogni parte del territorio comunale. Infatti, l’ubicazione di tali stazioni deve essere tale da assolvere la funzione cui istituzionalmente adempiono.
Una conseguenza di quanto finora detto è che anche per gli impianti di telefonia mobile, il dettato normativo prevede il parametro dell’equiparazione alle opere di urbanizzazione, al quale devono attenersi le amministrazioni comunali nell’esercizio delle proprie funzioni.
Vediamo, ora, quali sono state le ripercussioni della declaratoria di incostituzionalità del d.lgs. 198/02 sulla normativa di settore, tenendo presente quanto fin qui detto riguardo alla pressoché totale continuità tra la disciplina recata dal d.lgs. 198/02 e quella introdotta dal d.lgs. 259/03.
In particolare, per quanto riguarda il procedimento autorizzatorio, la normativa scaturente dal d.lgs. 259/03 non presenta particolari novità rispetto alla precedente, soprattutto per ciò che attiene alla disciplina della DIA e del silenzio assenso.
E’ bene notare, come la dottrina più attenta ha fatto, che nessuna censura potrebbe riguardare, nemmeno in astratto, le situazioni ed i rapporti giuridici già esauriti ed i provvedimenti amministrativi definitivi ed inoppugnabili. Infatti, è pacifico in giurisprudenza che la retroattività delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale va riferita ai rapporti ancora pendenti alla data di pubblicazione delle stesse, mentre non coinvolge i rapporti giuridici definiti con sentenza passata in giudicato o con provvedimento amministrativo divenuto inoppugnabile.
Per quanto riguarda i provvedimenti rilasciati sotto la vigenza del d.lgs. 198/02, ed in particolare quelli ottenuti a seguito del maturare del silenzio assenso previsto dall’art. 6 dell’abrogato decreto, diviene essenziale stabilire se si sia determinata una situazione analoga a quelle qualificate come suscettive di subire gli eventuali riflessi di pronunce di incostituzionalità.
La più recente giurisprudenza amministrativa ha esaurientemente chiarito sia la natura giuridica che gli effetti della denuncia di inizio attività, con particolare riguardo ai profili attinenti all’efficacia e all’impugnabilità del titolo autorizzativo formatosi a seguito del silenzio assenso della p.a. deputata a pronunciarsi sulla domanda.
A tal proposito, il TAR Veneto, sez. II, ha evidenziato che: “non è possibile attribuire alla denuncia di inizio attività il carattere di mero atto privato, sul quale la p.a. non possa intervenire in termini sanzionatori nel caso di non conformità dell’attività denunciata alle norme edilizie, in quanto, traendo spunto dalla vigente normativa, la denuncia di inizio attività costituisce un titolo edilizio al pari della concessione e del permesso di costruire”.
La precisa ricostruzione del giudice amministrativo veneto, è corretta anche alla luce delle disposizioni normative in materia, ed in particolare della legge 662/96, la quale espressamente stabilisce, all’art. 2, che nei casi in cui è ammessa la DIA, “ai fini degli adempimenti necessari per comprovare la sussistenza del titolo abilitante all’effettuazione delle trasformazioni tengono luogo delle autorizzazioni le copie delle denunce di inizio attività da cui risultino le date di ricevimento delle denunce stesse”.
Appare perciò evidente che a seguito del silenzio della p.a., i gestori abbiano ottenuto veri e propri titoli autorizzativi definitivi e inoppugnabili. Da ciò deriva che ogni rapporto giuridicamente rilevante, dipendente dalle domande di autorizzazione avanzate, si è ormai esaurito, circostanza da cui discende l’assoluta irrilevanza degli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 303/03, e dunque la perdurante validità ed efficacia degli stessi.