Nel marzo 2000 a Lisbona i rappresentanti dei governi dell’Unione tratteggiano l’Europa del nuovo millennio.
Un’Europa che assurge a primato mondiale della competitività, grazie ad un’economia fondata sulla conoscenza, in grado di assicurare la piena occupazione ed una più marcata coesione sociale.
Sotto la bandiera blu a dodici stelle alterneremo, dunque, scuola e lavoro in imprese sempre più innovative e ci sposteremo in un continente integralmente connesso, grazie alle grandi dorsali di telecomunicazione, a nuove linee elettriche, alle strade e alle ferrovie, nel pieno rispetto dell’ambiente.
Quella tracciata all’inizio millennio – con alle spalle un secolo di due guerre mondiali, si, ma (Balcani esclusi, ovviamente) con oltre 50 anni di pace – è, dunque, l’Europa Felix.
Ciò che è successo dopo non era prevedibile, ma sarebbe superficiale affossare questo sogno attribuendo esclusivamente la responsabilità alla recessione intervenuta dopo l’11 settembre 2001.
Il terzo Rapporto sulla Coesione europea, presentato recentemente dal Commissario UE Barnier, ci dimostra che il cuore dell’Europa c’è ed ha tutti i numeri per raggiungere gli obiettivi stabiliti a Lisbona.
Peccato che batta altrove.
I dati parlano chiaro: nell’area (18% dell’Europa dei Quindici) che va dal sud dell’Inghilterra al nord della Francia, dal nord della Germania al nord Italia, si concentra il 48% del PIL europeo e il 75% degli investimenti in ricerca e sviluppo. Nello stesso territorio si concentra anche il maggior impiego nell’industria ad alta tecnologia e, con l’eccezione del nord Italia, anche la percentuale di popolazione ad elevata scolarità.
L’aorta del cuore europeo parte da Londra e scende giù per il Reno passando da Essen e Colonia e si ferma a Milano. Un concentrato di metropoli in crescita che rappresenta la maggioranza delle settanta città evidenziate nel Rapporto europeo.
Finis Europae: ovvero il resto dell’Europa è un’altra storia: compaiono così (o meglio permangono) vaste aree afflitte da barriere geografiche, aree rurali scollegate dalle più importanti città, sacche di povertà (forse è meglio dire un mare di povertà, giacchè si parla di 55 milioni di abitanti) e 284 isole abitate (l’insularità è un altro fattore di ritardo di sviluppo).
La ricetta di questo annoso problema è sempre la stessa e il terzo Rapporto ce lo ricorda ancora una volta: ingenti investimenti nelle strutture di base quali trasporti, telecomunicazioni, energia e risorse idriche, supporto alla creazione di nuove opportunità di lavoro, maggiore efficienza della P.A., cooperazione interregionale e attrazione di Investimenti dall’Estero.
Se la diagnosi è chiara, meno lo sono le risorse necessarie per somministrare la cura. Due sono infatti le variabili: da un alto la reale volontà dei paesi europei contribuenti netti dell’Unione (Germania in testa), dall’altro la consistenza dei contributi da trasferire ai nuovi paesi aderenti.
Incognite che pesano come un macigno sulle prospettive di crescita di aree che, come il nostro mezzogiorno, sono afflitte dalle principali cause di ritardo di sviluppo, riconducibili alla perifericità.
In tale contesto, il processo di internazionalizzazione di suddette aree costituisce senza dubbio e vanno quindi evidenziati i promettenti risultati raggiunti dal progetto “Italia internazionale – Sei regioni per cinque continenti”, gestito dal Ministero degli Affari Esteri e dal Ministero delle Attività Produttive e iniziato nel secondo semestre 2002.
L’intervento, che nasce nell’ambito della programmazione 2000 – 2006 dei Fondi Strutturali, ha come obiettivo l’accompagnamento delle regioni del Sud nel processo di internazionalizzazione di un modello di crescita economica basato sulla valorizzazione delle proprie potenzialità e nelle proprie risorse. Tale iniziativa, quindi supporta il Mezzogiorno nello sviluppo dell’internazionalizzazione interpretando le capacità, la propensione del sistema economico e le opportunità che i vari scenari offrono. In particolare è necessario che le piccole e medie imprese del sud puntando ad una presenza stabile e specifica sui mercati stranieri sfruttino a pieno e nel miglior modo possibile gli strumenti finanziari messi a disposizione dall’Unione Europea. D’altronde in dieci anni il numero delle imprese meridionali che esportano è cresciuto costantemente anche se è comunque inferiore ai livelli del centro nord (all’inizio degli anni ’90 era del 27%). Il ritardo maggiore riguarda la capacità di attrazione degli Investimenti Esteri (IDE) pari soltanto al 3% del totale delle risorse investite in Italia. E’ necessario migliorare il contesto locale in cui operano le piccole e medie imprese e sopratutto sviluppare tecniche e strategie di marketing internazionale e strumenti finanziari di sostegno, come ad esempio il venture capital.
Il programma ha due specifiche finalità: la prima consiste nella predisposizione di alcuni studi e indagini volti a dotare le Regioni meridionali di strumenti conoscitivi in grado di accrescerne l’efficacia operativa. In proposito è stata effettuata una rilevazione delle potenzialità esistenti a livello regionale e un’analisi dell’attuale regime di aiuti pubblici all’internazionalizzazione. In entrambi i casi i risultati si concretizzeranno in strumenti di orientamento strategico regionale.
La seconda finalità è quella di supportare le Regioni nelle azioni di programmazione delle attività di internazionalizzazione, ma anche nell’orientamento gestionale e procedurale, così da ottenere i migliori risultati rispetto anche alle singole azioni predisposte.
Nell’ambito dello stesso progetto, le Regioni del Mezzogiorno sono affiancate dall’ Istituto per il Commercio con l’Estero, che assicura una costante azione di scouting sui mercati esteri, e da una task force con il compito di supportare le amministrazioni regionali nelle attività di identificazione e realizzazione di progetti internazionali. Si promuovono così azioni di sistema fra i vari operatori e viene rafforzato il coordinamento sul territorio.
L’obiettivo è inserire le azioni sul territorio in modo armonico e coordinato nella più complessiva attività del progetto ministeriale.
Forse è solo un punto di partenza non dimensionato all’ampiezza degli obiettivi previsti dall’Unione per la coesione delle aree periferiche, ma può assicurare un dialogo costante con il cuore dell’Europa che deve battere per ogni cittadino europeo