Consiglio di Stato, Sez. V, 3 marzo 2004, n. 1042
È legittima la determinazione del consiglio comunale di revoca del suo Presidente che si fonda sulla considerazione che lo stesso, attraverso una serie di condotte politiche, realizzate all’interno del consiglio e in altre sedi, ha assunto un atteggiamento incompatibile con il ruolo istituzionale super parte, violando le regole comportamentali connaturate alla carica di garante della corretta dinamica politico-amministrativa dell’ente comunale. A parer del giudice amministrativo il riferimento testuale al venir meno della “fiducia politica”, compiuto nella richiesta di revoca, non può essere sopravvalutato, perché esso indica, piuttosto, che una parte dei consiglieri comunali non ravvisava più l’adeguatezza del Presidente revocato al ruolo neutrale assegnato. Questa neutralità, proprio perché inserita nella dialettica politica dell’azione di governo locale, ben potrebbe prestarsi ad una valutazione in termini di “fiducia politica”, intesa, ovviamente, non come adesione alla linea politica della maggioranza consiliare, ma come capacità di consentire il pieno e corretto dispiegarsi delle opzioni emerse all’interno delle istituzioni comunali.
Secondo la Corte è forse vero che le condotte denunziate ai fini della revoca potrebbero essere valutate in modo diversificato, sulla base della particolare sensibilità dell’assemblea consiliare. Ma ciò non significa affatto che il presidente del consiglio goda di una posizione di stabilità assoluta o quasi assoluta, che lo porrebbe al riparo dalla revoca, salvi casi del tutto eccezionali. In presenza di una puntuale disposizione statutaria, che prevede la revoca, ancorandola ad un particolare procedimento, non possono trovare ingresso i principi elaborati dalla dottrina costituzionalistica in merito alla posizione dei presidenti delle assemblee parlamentari e al loro regime di stabilità. Senza dimenticare, al riguardo, che, in tali casi, la disciplina dei casi di cessazione delle funzioni è rimessa alla Costituzione e ai regolamenti parlamentari.
Pertanto, il sindacato del giudice amministrativo sulla determinazione comunale si svolge con pienezza quando si tratta di verificare la legittimità formale del procedimento seguito, mentre resta notevolmente limitato ogni apprezzamento sugli aspetti politico-discrezionali manifestati dall’atto. In questo senso, quindi, la deliberazione non richiede una motivazione particolarmente analitica. Questa, oltretutto, può rilevare anche sotto il profilo della responsabilità politica del consiglio, e si riflette in modo apprezzabile sui requisiti di legittimità dell’atto, ma solo quando pone in luce incongruenze palesi e significative.
Infatti, la revoca non assume carattere tipicamente “sanzionatorio” di tipiche condotte illecite del presidente, né può considerarsi assimilabile agli atti di autotutela, sottoposti a principi garantistici stringenti (partecipazione procedimentale, indicazione delle ragioni di interesse pubblico, ecc.). Il profilo sanzionatorio della revoca, in qualche misura presente, si connette inevitabilmente anche alla valutazione di ordine politico istituzionale compiuta dal consiglio. La revoca del presidente, quindi, può considerarsi anche come un atto volto a definire razionalmente l’ordinato assetto dei rapporti istituzionali tra gli organi di indirizzo politico-amministativo del comune, assunto quando risulta alterato il ruolo di garante imparziale assegnato dal presidente.
A tal proposito la previsione legislativa del testo unico degli enti locali lascia ampi margini al potere normativo e di autorganizzazione dell’ente locale, che può variamente definire il regime di stabilità del presidente dell’ente. Anzi, si potrebbe osservare che l’esigenza di mantenere il consenso di una maggioranza qualificata dell’assemblea risulta razionale e coerente nella prospettiva di un ordinato svolgimento delle attività dell’ente. Si deve aggiungere, poi, che la previsione di un regime volto ad attenuare la stabilità della posizione del presidente del consiglio risulta ancora più giustificata per i comuni di minori dimensioni che scelgono di introdurre tale figura nell’organizzazione dell’ente.
Non muta questa conclusione la circostanza che l’atto di revoca prenda origine da una mozione presentata da alcuni componenti dell’organo collegiale, correlata alla indicazione di fatti specifici. E non assume peso nemmeno il dato che la delibera sia assunta all’esito di un dibattito nel quale possono essere considerate con attenzione specifiche vicende. Anche in tali casi resta intatto il significato della revoca, che, nel suo contenuto tipico resta perfettamente identica alla determinazione positiva di scelta del presidente. Questo inquadramento dell’atto di revoca non impedisce del tutto la possibilità che emergano profili caratteristici dell’eccesso di potere, almeno in relazione a determinate figure sintomatiche, quali il travisamento dei fatti. Al proposito, si potrebbe indicare l’ipotesi in cui la delibera di revoca faccia riferimento a un fatto particolare, che risulti in concreto insussistente. Ma anche in un caso del genere occorrerebbe comunque verificare se la revoca non risulti comunque giustificata dalla espressa indicazione di una effettiva sfiducia nei confronti del presidente.
Infine i giudici di Palazzo Spada sottolineano che in relazione al caso in cui la delibera di revoca sia stata assunta all’esito di un ampio dibattito consiliare, nel corso del quale sono stati indicati molteplici episodi idonei a provocare la rottura dell’originario rapporto di fiducia tra la maggioranza e il presidente, il carattere particolare della procedura volta alla revoca del presidente non richiede affatto che la delibera debba corrispondere integralmente alla proposta originaria. In tal modo, del resto, si svuoterebbe di significato apprezzabile il dibattito svolto dinanzi all’assemblea.