Le sentenze “creative” – Resoconto convegno

11.03.2004

CLUB DEI GIURISTI                                                       ISTITUTO LUIGI STURZO

LXXI incontro

Le sentenze “creative”
Istituto Luigi Sturzo
Roma, 4 marzo 2004
Dopo l’introduzione di Federico Spantigati, apre il dibattito FEDERICO ROSELLI, che sostiene che le sentenze creative non esistono e non sono mai esistite. Al massimo, si può parlare di “sentenze-equità”, che in questo senso si possono definire creative. Per il resto, le sentenze non creano, ma limitano ad interpretare leggi preesistenti.
Il problema sta nell’intendersi su cosa significa “interpretare”: sul punto, si è infatti registrato un movimento pendolare nella tendenza dell’interprete da un lato ad assumere eccessive libertà nell’interpretare (cosiddetto “diritto che si forma autonomamente e che prescinde dalla norma preesistente”) e, dall’altro lato, ad essere troppo timido nell’interpretazione (cosiddetta “legislazione senza giurisdizione”).
Due sono, pertanto, i necessari punti di partenza per un corretto approccio al problema: da un lato, il fatto che il concetto di sentenza presuppone l’esistenza di una norma da interpretare; dall’altro lato, l’esistenza di un movimento pendolare, che in alcuni momenti esalta troppo l’oggetto da interpretare, in altri momenti l’interprete.
Date queste premesse, è necessario riferirsi all’articolo 101 della Costituzione, che prevede che il giudice sia soggetto soltanto alla legge. La disposizione va interpretata nel senso che il giudice non può andare contro la legge, ovvero che la legge rappresenta una barriera (o meglio una cornice, come nel linguaggio in uso nel sistema tedesco), all’interno della quale si svolge l’interpretazione.
All’interno della cornice della legge, è necessario domandarsi se l’interpretazione si svolge secondo regole fisse oppure se l’interprete è libero nel trarre le sue conclusioni. Al riguardo, è dato constatare che esistono regole di interpretazione a volte scritte in leggi, a volte disciplinate da fonti extralegislative (come le norme comunitarie) o da fonti sublegislative (come il contratto collettivo nazionale di lavoro), che finiscono per limitare la libertà dell’interprete.
La cornice interpretativa è più o meno ampia a seconda del linguaggio usato: una cosa, infatti, è l’interpretazione analitica, che si svolge in un ambito interpretativo tendenzialmente ristretto, un’altra cosa è invece l’interpretazione che si fonda su formule espresse secondo clausole generali e che apre un maggiore spazio all’interprete. In ogni caso, esistono comunque regole tecniche a fondamento dell’attività dell’interprete.
In questa direzione, la scelta degli argomenti giustificativi dell’interprete può essere più o meno discrezionale, ma comunque deve astenersi da scelte ideologiche, politiche, morali, ecc. A sostegno di questa affermazione, si ricorda che l’articolo 106 della Costituzione prevede che alla magistratura si acceda per concorso, per cui la scelta del candidato è svolta non sulla base di un programma politico, ma per competenze tecniche. Per questi motivi, una buona sentenza è quella che non lascia trasparire nella motivazione scelte personali.
Tra le regole tecniche alle quali è sottoposta l’interpretazione giudiziaria, si ricordano in primo luogo – come riconosciuto anche da Cappelletti – le norme processuali, ad esempio sulla procedura d’ufficio o sul contraddittorio, che vincolano  il giudice. Inoltre, la caratteristica principale che distingue l’atto autoritativo giudiziario rispetto all’atto legislativo è data dalla motivazione: mentre infatti (almeno in linea generale, e comunque a prescindere da quanto sostenuto da Crisafulli) le leggi non devono essere motivate, in quanto rappresentano un atto politico, i provvedimenti giudiziari devono essere necessariamente motivati non in termini politici, ma giuridici, ovvero tecnici, secondo una topica che fonda l’attività del giudice nell’argomentazione.
Caratteristica delle sentenze è infatti di imporsi non per autorità, ma per persuasione, per cui la motivazione acquista un valore non meramente endoprocessuale, rivolgendosi all’intera collettività (da cui l’esigenza che il linguaggio delle sentenze sia comprensibile al più vasto pubblico). Nell’argomentazione, i canoni fondamentali sono quelli della coerenza – per cui si deve cercare di fare ordine nel caos di un ordinamento in continuo divenire – e della massima universalità – che si concreta nel tentativo di assicurare uniformità di trattamento ai casi analoghi.
In conclusione, si può affermare che la giurisprudenza cosiddetta “creativa” in realtà c’è sempre stata, se la si intende come giurisprudenza interpretativa: l’introduzione della categoria dei vizi dell’atto amministrativo, il riconoscimento del diritto alla retribuzione, il riconoscimento dell’efficacia dei contratti collettivi nazionali di lavoro sono ad esempio il frutto di interpretazioni giurisprudenziali. In questi casi, tuttavia, la giurisprudenza di fatto non ha creato, ma ha sviluppato presupposti impliciti nella legislazione vigente.
Interviene nel dibattito NICOLA PICARDI, che ricorda che il problema del rapporto tra legislazione ed interpretazione era già avvertito in passato, come testimoniato di recente dall’articolo di Alessandro Pace sul réferé legislativo, ripreso dal pensiero di Robespierre. L’oscillazione pendolare tra legislazione ed interpretazione che si è verificata nel corso dei secoli e su cui si è soffermato anche F.Roselli sembra essersi attualmente assestata nel senso di una prevalenza della giurisdizione. Lo stato d’animo attualmente prevalente tende infatti a valorizzare il ruolo della giurisprudenza, per cui si giunge addirittura a parlare di un ruolo delle sentenze dei giudici come fonte concorrente alla legislazione.
Sul rapporto tra il giudice e il diritto sono state elaborate svariate tesi; l’alternativa di fondo riguarda tuttavia il seguente interrogativo: il giudice scopre il diritto oppure lo crea? Da una parte, il pensiero kelseniano ha sostenuto che il giudice si limita a scoprire il diritto, attraverso una serie di operazioni ermeneutiche volte a scoprire la regola. Mentre il legislatore crea, ed è pertanto libero nella sua attività creativa, per il giudice esiste nella realtà un’interpretazione giuridicamente corretta che è suo compito scoprire, per cui non vi è spazio per alcune valutazione discrezionale. Dall’altra parte, vi è la tesi secondo la quale il giudice crea il diritto, collaborando all’esercizio di tale funzione con il legislatore; la conclusione di tale orientamento è che non esiste un’unica soluzione valida per il giudice, bensì tante soluzioni possibili, tutte ugualmente valide, da cui la discrezionalità nella scelta della soluzione ritenuta più adeguata.
Nel confronto tra le due tesi, emerge che il discrimen è dato dalla discrezionalità; sul punto, si ricorda che la sociologia insegna che potere e discrezionalità sono due aspetti della stessa cosa, in quanto la discrezionalità è il potere di scegliere tra due alternative. Quand’è, allora, che il giudice ha discrezionalità? Nella maggior parte dei casi, il giudice non ha discrezionalità, ma si limita a dettare il casus legis. Esiste tuttavia una minoranza di casi in cui si aprono spazi di azione entro cui il giudice deve scegliere: in tali casi, non si tratta di interpretare, ma di scegliere. Il potere del giudice non è vincolato, ma neanche assoluto, e può pertanto essere classificato come relativo. Qualsiasi cambiamento normativo cambia infatti i margini della discrezionalità del giudice e muta le regole.
In relazione ai poteri del giudice, si ritiene che la discrezionalità vada riconosciuta, senza tuttavia cadere nell’arbitrio. La discrezionalità è infatti la ponderazione comparativa di più valori: l’interpretazione porta il giudice a dire che ci sono due valori, due opzioni, due interpretazioni, ma poi l’interpretazione non basta più. D’altro canto, il giudice ha naturalmente i limiti alla sua discrezionalità: la libertà del giudice è infatti vincolata sia dal punto di vista processuale (imparzialità) che sostanziale (ragionevolezza); dovendo operare secondo interventi argomentativi, il giudice è sempre controllato attraverso la verifica della correttezza delle argomentazioni. Inoltre, a livello giudiziario la discrezionalità è sempre controllabile attraverso la possibilità di appello.
In conclusione, con il diritto vivente le Corti hanno assunto un potere che, se non si vuole definire creativo, è comunque un potere pretoriale. Patterson afferma al riguardo che l’approvazione di una legge da parte del Parlamento non è nulla al di fuori delle argomentazioni giuridiche; in particolare, il decostruzionismo dei testi legislativi arriva a sostenere che la volontà del legislatore si realizza all’inverso, in quanto prima i teorici e poi i giudici manipolano i testi legislativi, specialmente in seguito all’introduzione del controllo di costituzionalità e dell’interpretazione adeguatrice. Per questi motivi, il legislatore deve rassegnarsi a vedere le sue leggi come parte del diritto e non come diritto tout court.
Gli interventi programmati si concludono con la relazione di NICOLÒ LIPARI, che individua come punto di convergenza delle posizioni di Roselli e Picardi il comune utilizzo di alcuni termini di linguaggio.
Nel merito del problema, un primo dato è rappresentato dall’impossibilità di confondere tra enunciato legislativo e norma di legge: il fatto che non si sia mai parlato di “legislizione” fa sì che il giudice non possa essere sottoposto al contenuto individuato di una legge. In questa direzione, si può affermare che l’autentico significato dell’art. 101 Cost. è che non si può vincolare il giudice ad un’interpretazione del contenuto di una legge. Se, infatti, per norma intendiamo il precetto, allora questo è il frutto di un’interpretazione, per cui si può affermare a chiare lettere che l’interpretazione viene prima del precetto e che solo in questo senso si può dire che l’interpretazione è creativa. Anche il legislatore, infatti, è condizionato da modelli, valori, gusti e preferenze, ma, ove intendesse inculcare tali opzioni ai destinatari della legge, creerebbe una norma destinata ad essere elusa: in breve, si deve riconoscere che esiste una realtà che neanche il legislatore può forzare. Lo stesso discorso va esteso al giudice, nel senso che neanche quest’ultimo è libero nella sua interpretazione.
In conclusione, non è vero che oggetto dell’interpretazione è solo l’enunciato, che rappresenta solo un elemento del più ampio contesto interpretativo e dell’esperienza acquisita. Se così non fosse, non si potrebbe avere una nuova pronuncia sui casi su cui già si è avuto un giudizio di infondatezza. Parallelamente,  soggetto dell’interpretazione non è soltanto il giudice, ma anche il contesto  e l’esperienza, per cui il singolo processo non è altro che il frutto dell’emersione dell’esperienza giuridica.
Da quanto affermato, emergono due punti di partenza necessari: in primo luogo, che oggetto dell’interpretazione è l’esperienza e non solo l’enunciato; in secondo luogo, che soggetto dell’interpretazione è la comunità, non il singolo. Per questi motivi, la norma è solo il frutto dell’azione, il risultato, non la fonte dell’interpretazione. Fatte queste premesse, si deve concludere che tutte le sentenze sono creative, nel senso che vengono prima della norma, oppure che nessuna sentenza lo è, se ci riferiamo alla discrezionalità. L’uso della discrezionalità, infatti, non è ammesso, in quanto la discrezionalità tendenzialmente produce un risultato non sindacabile.
Oggi viviamo in un sistema in cui il quadro delle fonti è cambiato, per cui non è chiaro che cosa significhi dire che bisogna assumere un’interpretazione letterale della norma. Nel caso delle rogatorie internazionali, ad esempio, il problema è stato risolto cambiando il parametro di riferimento e applicando la normativa comunitaria. L’esempio conferma che, se cambia una norma, l’effetto innovativo si estende anche alle altre norme, per cui non esiste l’ordinamento cristallizzato. L’intervento interpretativo tenta pertanto di rendere comprensibile il linguaggio giuridico, inteso come la condizione di effettività dello svolgimento di una serie di atti linguistici.
Sul punto, si richiama quanto sostenuto da Ascarelli, secondo cui il giurista, per esigenze di ordine, deve individuare la norma vigente o, eventualmente, la norma superiore da applicare; identificata la norma vigente, il giurista la considererà come applicabile o meno; in questa direzione, l’affermazione della regola è l’affermazione della norma, non del contenuto.
In conclusione, il problema delle sentenze creative non esiste, o meglio esiste solo nell’attuale assetto, che tende a delegittimare la magistratura.
Al termine degli interventi programmati, l’incontro si conclude con un dibattito tra i presenti.


Elena Griglio