Scopo di queste pagine è quello di avviare un cammino nelle istituzioni, penetrando in esse attraverso gli scenari che accompagnano talune parole che potremmo definire chiave per migliorare la conoscenza del sistema giuridico nel quale viviamo. Un obiettivo ambizioso da perseguire ricorrendo anche a schematizzazioni: in modo semplice, per quanto possibile, ma rigoroso nello studio che sempre sottende qualsiasi tentativo di semplificazione.
Pertanto procederemo partendo dall’uso del vocabolo ‘statuto’, rilevando la frequenza con cui è presente nei suoi possibili significati, con accenni appena puntuali a quelle esperienze storiche che ne hanno segnato, per così dire, la fortuna e la tradizione, fino a renderlo insostituibile per esprimere concetti, anche nel linguaggio comune, o designare e denotare specifiche fattispecie giuridiche. Fra queste si è ritenuto di privilegiare la più diffusa definizione di statuto come fonte del diritto, in particolare sotto il profilo pubblicistico, seguendo la lettera della costituzione repubblicana prima e dopo la riforma del Titolo V. Naturalmente il quadro include anche tutti quegli articoli in cui il costituente ha espressamente nominato tali tipi di atto in ordine a fenomeni diversi, comunque riconducibili a manifestazioni di autonomia, non solo nella seconda parte della nostra costituzione. È quest’ultima, tuttavia, che attualmente suscita particolari riflessioni in virtù dell’incidenza notevole che le più recenti vicende di riforma costituzionale stanno determinando, tra l’altro, proprio sugli statuti degli enti rappresentativi. Tale circostanza induce a rileggere l’assetto attuale comparativamente a quello preesistente, evidenziandone i punti di criticità in una fase di transizione che, quantunque non ancora conclusa, già viene proiettata verso la riforma della riforma.
Il presente scritto, in parte diversamente paragrafato e con talune considerazioni aggiuntive (prevalentemente in nota), costituisce il corpo centrale di un articolo destinato alla Rivista Amministrativa Eugubina, dal titolo “ Il peso e lo spessore delle parole. Una parola di spessore: Statuto”, in stampa, n. 3, 2003.
Va preliminarmente precisato che il percorso argomentativo seguito in questo studio non è funzionale all’analisi di nessuno degli specifici atti che si nomano ‘statuto’ nel nostro ordinamento, né del ruolo che ciascuno di essi gioca in ordine al sistema in cui è inserito (profili intorno ai quali la dottrina ha prodotto autorevoli riflessioni), ma è piuttosto orientato a ricercare la ratio di fondo che presiede al ricorso della parola ‘statuto’ come vocabolo precipuo per ciò che nella teoria e nella prassi giuridica esprime, al di là del senso che il termine ha nel linguaggio comune. Pertanto la prospettiva nella quale ci si muove presuppone l’incontestabile dato che il nomen iuris ‘statuto’ – come è stato anche di recente consapevolmente sottolineato – ‘risulta di per sé poco indicativo, data la grande varietà di atti normativi così denominati’ (M. OLIVETTI 2002, Nuovi statuti e forme di governo delle regioni. Verso le costituzioni regionali?, il Mulino, p. 3) e lascia sullo sfondo ‘[…]natura e […] caratteristiche dell’ente al quale la potestà statutaria viene riconosciuta e [i] tratti distintivi e [le] funzioni di tale potestà’ (IDEM, ibidem); viene così ad essere occupato uno spazio di ricerca, per così dire meno esplorato, che si colloca a latere (forse rectius addirittura a monte per una certa pretesa di inquadramento generale) delle ampie ed articolate problematiche affrontate in tema di statuti, ciascuno con le proprie specificità. Ciò su cui in effetti si è voluto indagare coerentemente allo scopo denunciato attiene alla possibilità di enucleare, nel variegato panorama di fenomeni giuridici riconducibili a manifestazioni di autonomia di soggetti pubblici e privati, elementi distintivi di (eventualmente confluenti in) un modello statutario in espansione. A tal fine la ricostruzione non può prescindere da alcuni dati di diritto positivo, in particolare di quelle fonti che rinviando allo ‘statuto’, o richiamandosi ad esso in specifici contesti, ne avvalorano talune caratteristiche che finiscono con il connotare lo statuto in generale per più di un tratto unificante. Ne consegue allora che il termine statuto così come usato nell’ordinamento vigente si inserisce in una logica di rapporti istituzionali che postula opzioni politiche e culturali intorno al concetto di autonomia, ferma restando come tipicità il contenuto essenziale dell’atto in ordine alla organizzazione (forme e modalità di esercizio della funzione) del soggetto di riferimento. Tali opzioni si concretizzano in aspetti procedurali e vincoli di contenuto ricostruibili per profili generali fino al punto di indurre a ritenere e a riconoscere la parola ‘statuto’ nel lessico giuridico come quella più naturalmente confacente a sintetizzare per capacità espressiva le forme di autonomia di cui è proiezione.
Di certo tale risultato non libera l’espressione delle ambiguità che si porta dietro per ‘la larga applicazione nel linguaggio giuridico recente e meno recente […] con una gamma di significati talmente vasta da impedire una reductio ad unitatem, neanche se si riferisce il termine ai soli enti territoriali’ ( sic, e in prima approssimazione da condividere, M. OLIVETTI, cit. , p. 70, nota 269), tuttavia può valere come orientamento per ricerche che ragionando sulle parole contribuiscano (parlo per me naturalmente!) a mettere ordine nei concetti.
Ambiguità e spessore della parola Statuto tra lessico giuridico e ordinamento vigente
03.09.2003