Limiti all’attività imprenditoriale dell’ente pubblico Consiglio di Stato, sez. VI, 30 maggio 2003, n. 2994

30.05.2003

Consiglio di Stato, sez. VI, 30 maggio 2003, n. 2994

È del tutto coerente con i principi generali dell?ordinamento che enti pubblici non economici non debbano assumere, al di fuori di un espresso dettato legislativo e normativo, compiti privatistici o missioni imprenditoriali che distolgano dalle funzioni istituzionali loro affidate.

Il Consiglio di Stato nella decisione n. 2994 del 2003 ritiene che questa affermazione sia giustificata non solo sul piano del diritto interno, ma anche sul piano del diritto comunitario, se solo si considera che, al di là della situazione giuridica soggettiva di vantaggio del cittadino comunitario, dell’impresa o del professionista intesa quale diritto a prestare i servizi di cui all’art.49 del Trattato (situazione qualificata come libertà fondamentale di prestazione di servizi) esiste la necessità di tutelare la concorrenza nei diversi ambiti di mercato, concorrenza che sarebbe suscettibile di venire pregiudicata se vere e proprie amministrazioni aggiudicatrici, soggetti pubblici istituzionali, sottratti per la specifica missione loro affidata alle regole della concorrenza potessero competere con altri operatori al fine di aggiudicarsi appalti pubblici, in sostanziale violazione della par condicio, e con il rischio di configurare distorsioni fra i competitori. 
Se ne deve inferire che il diritto comunitario non è unilateralmente richiamabile al fine di sostenere la conformità alla libertà di prestazione dei servizi della extraterritorialità dell’attività di un soggetto pubblico avente vocazione imprenditoriale, ben potendo talvolta giustificarsi – in considerazione della stretto collegamento dell’impresa alla pubblica amministrazione intesa in senso oggettivo e si pensi alle c.d. società in house di cui al caso Teckal giudicato da Corte giustizia Comunità europee, 18/11/1999, n.107/98- limiti alla capacità giuridica e di agire dei soggetti pubblici intesi proprio a salvaguardare la concorrenza ed il mercato visti nel loro profilo oggettivo, come avviene ad es. nell’art.35 della legge n.448/2001 (che recita: ‘non sono ammesse a partecipare alle gare di cui al comma 5 le società che in Italia o all’estero, gestiscono a qualunque titolo servizi pubblici locali in virtù di un affidamento diretto, di una procedura non ad evidenza pubblica, o a seguito dei relativi rinnovi; tale divieto si estende alle società controllate o collegate, alle loro controllanti, nonché alle società controllate e collegate di queste ultime’. La norma si conclude statuendo che ‘sono parimenti esclusi i soggetti di cui al comma 4’ ossia i gestori di reti).
Si tratta della necessità di tutelare la corretta contendibilità degli ambiti di mercato, evitando situazioni di vantaggio riconducibili alla disciplina degli aiuti di Stato o ad interventi del settore pubblico che garantiscano posizioni di vantaggio a determinati operatori (la Corte di Giustizia CE nella sentenza SFEI dell’11 luglio 1996 in causa C-39/94 ha ritenuto ad es. che la fornitura di assistenza logistica e commerciale senza normale contropartita da parte di un’impresa pubblica alle sue controllate di diritto privato attive in un settore aperto alla libera concorrenza può configurare un aiuto di Stato ai sensi dell’art.92 ora 87 del Trattato; inoltre la possibilità – affermata dal diritto comunitario – di ammettere la partecipazione alla gara di organismi sovvenzionati non comporta, per converso, l’illegittimità comunitaria delle limitazioni di capacità di un soggetto integralmente pubblico a tutela della parità di trattamento; le sovvenzioni infatti sono, di norma, sottoposte al controllo degli organi comunitari – secondo il principio dell’investitore privato in un’economia di mercato di cui alle note decisioni della Corte giustizia Comunità europee, 21/3/1991, n.305/89 Repubblica Italiana c. Commissione per cui devono essere considerati aiuti di stato i conferimenti di capitali effettuati da un ente controllato dallo stato che un investitore privato, alle normali condizioni di un’economia di mercato e pur seguendo una politica globale a lungo termine senza perseguire una redditività immediata, non avrebbe effettuato e Corte giustizia Comunità europee, 21/3/1991, n.303/88 Eni Lanerossi, – derivando da tale controllo preventivo la prevenzione di ogni possibile profilo di restrizione della concorrenza con conseguente piena ammissibilità della partecipazione alle gare delle società sovvenzionate; in ultimo va considerato che la natura pubblica di un soggetto è normalmente irrilevante nella disciplina della concorrenza solo se si tratta di un’impresa, altrimenti va considerata al fine delle decisioni più opportune sulla conformazione del mercato).
Proprio a tutela di tale corretta contendibilità possono essere previste limitazioni di capacità degli enti pubblici che si armonizzano – ove proporzionate agli interessi in giuoco e necessarie nel contesto di mercato – pienamente con il diritto comunitario della concorrenza. 
La situazione delle limitazioni di capacità degli enti strumentali degli enti locali, fra l’altro, si è presentata in passato all’esame della giurisprudenza del Consiglio di Stato, dando luogo all’applicazione di principi analoghi a quelli ora affermati.
Con la decisione 3 agosto 1995 n.1159 della Sezione quinta il Consiglio di Stato ha ritenuto che vi sia un principio generale (già enunciato con la decisione Sezione V 11 aprile 1991 n.517) per il quale va dichiarato (anche d’ufficio) inammissibile un ricorso proposto avverso l’atto di aggiudicazione di una gara, quando il ricorrente non può risultare aggiudicatario anche nel caso di annullamento di atti di gara.
Nel precedente prima citato si trattava di un’azienda municipalizzata (non iscritta all’albo nazionale dei costruttori) che impugnava un atto di aggiudicazione deducendo che questa andasse disposta in suo favore, ma in presenza di norme nell’ordinamento che precludevano tale risultato.
Veniva in considerazione l’art. 5 del regolamento approvato con d.p.r. n.902 del 1986, che rispetto al sistema precedente, aveva consentito, in presenza di determinati presupposti, che un’azienda municipalizzata svolgesse servizi all’esterno del territorio del Comune che l’aveva istituita.
Ciò poteva avvenire solo sulla base della conclusione di un apposito accordo ad oggetto pubblico tra le due autorità amministrative (i diversi comuni interessati), senza legittimazione della partecipazione dell’azienda ad una gara o possibilità di concludere a trattativa privata un contratto con altro ente locale per gestire un servizio all’interno del territorio di quest’ultimo.
In tal senso poi non disponeva alcunché di diverso neanche la legge 8 giugno 1990 n.142 (art. 22) che, quanto alle aziende speciali, enti strumentali dell’ente locale, e l’istituzione, prevedeva  la loro possibilità di agire nell’ambito di enti locali diversi da quello che li aveva costituiti solo a seguito dell’istituzione di un consorzio per la gestione associata del servizio (art. 25 della legge n. 142/1990).
Né in senso contrario al principio rintracciato può deporre il recente, ma acquisito, indirizzo giurisprudenziale del Consiglio di Stato (Sez.V, n. 4586/2001) che in tema di società miste ha chiarito che il vincolo funzionale di riferimento non determina alcun automatismo nella limitazione alla c.d. attività extra-territoriale. Infatti le società miste sono imprese vere e proprie, rispetto alle quali, salvo le peculiari situazioni delle società in-house, non si giustificano restrizioni di capacità a tutela della concorrenza, mentre l?ente pubblico non economico, che manca di una norma che lo legittimi ad esercitare attività d’impresa senza vincoli territoriali, non è connotato da scopo di lucro, non deve assumere rischi finanziari della tipologia di quelli connessi all’esercizio dell’impresa, non offre beni e servizi sul mercato ma opera in favore di una determinata comunità territoriale.

a cura di Vincenzo Antonelli