Sistema radiotelevisivo, informazione e diritti fondamentali – Resoconto convegno

16.05.2003

Sistema radiotelevisivo, informazione e diritti fondamentali

Incontro del Gruppo San Martino

Pavia, 3-4 aprile 2003

a cura di Chiara Aquili, Davide Della Penna, Piero Gambale


I lavori del 3 aprile si sono aperti con la relazione del Prof. P. Caretti il quale si è interrogato sulla persistenza o meno ai giorni nostri di ragioni giustificatrici del servizio pubblico radiotelevisivo.
A differenza della stampa, che sin dalle origini si è sviluppata in regime liberistico, la radiofonia, prima, e la televisione poi, sono state sino a pochi anni fa assoggettate ad un regime di monopolio statale, con la conseguenza che il dibattito sul servizio pubblico radiotelevisivo si è concentrato essenzialmente su come disciplinare il monopolio pubblico radiotelevisivo. La prima legge di sistema, la legge n.103 del 1975 (con la quale il legislatore ha in sostanza recepito gli indirizzi contenuti nelle sentenze della Corte costituzionale n.225 e n.226 del 1974) si fondava su un’impostazione che, a prescindere dai risultati cui ha portato, risulta piuttosto coerente. Dopo aver definito all’art.1, comma 1, la diffusione circolare dei programmi radiofonici e televisivi “servizio pubblico essenziale ed a carattere di preminente interesse generale” (art.43, Cost.), in quanto volta ad ampliare la partecipazione dei cittadini e a concorrere allo sviluppo sociale e culturale del paese, la legge in commento trasferiva i poteri di indirizzo e di vigilanza dalle competenze del Governo a quelle del Parlamento: se il servizio pubblico doveva offrire una informazione il più possibile pluralistica, allora era giusto fosse agganciato all’organo costituzionale che più esprimesse il pluralismo politico.
Negli anni immediatamente seguenti il fondamento del servizio pubblico radiotelevisivo in regime di monopolio è venuto progressivamente meno a seguito di due sentenze della Corte costituzionale che hanno ristretto l’area di riserva statale: la sentenza n.202 del 1976, con la quale la Corte ha eliminato la riserva allo Stato dell’attività radiotelevisiva a livello locale aprendola ai privati, sia pure previa autorizzazione; e la sentenza n. 148 del 1981 (poi confermata dalla successiva sentenza n.826 del 1988) con cui si è ipotizzata la fine della riserva allo Stato dell’attività radiotelevisiva anche a livello nazionale, a condizione che il legislatore predisponesse un’apposita normativa antitrust idonea ad evitare fenomeni di eccessiva concentrazione.
Il servizio pubblico radiotelevisivo, ha proseguito il relatore, perso così il suo radicamento in una riserva generalizzata che lo agganciava all’art.43, Cost., ha tuttavia trovato il suo nuovo fondamento nella sentenza costituzionale n.826 del 1988 che ha distinto due contenuti del principio del pluralismo informativo: il pluralismo interno, da intendersi come massima apertura del mezzo radiotelevisivo alle diverse opinioni politiche e culturali presenti nel paese, e il pluralismo esterno, da interpretarsi come necessità di assicurare l’accesso al sistema radiotelevisivo del massimo numero possibile di voci diverse. La Corte, al fine di realizzare un pluralismo informativo in grado di assicurare un adeguato tasso di democraticità del sistema, ha quindi collocato il ruolo del servizio pubblico sul versante del pluralismo interno (così configurando l’emittente pubblica quale soggetto cui compete la valorizzazione della dimensione partecipativa al diritto dell’informazione) e puntato invece, per il ruolo delle emittenti private, sul versante del pluralismo esterno.
La legge n.223 del 1990, seconda legge di sistema, ha tuttavia solo in parte recepito tali principi: se, da un lato, assoggettando all’art.1 i soggetti pubblici e privati ai medesimi principi, la cosiddetta legge Mammì ha fatto venir meno la definizione dell’attività radiotelevisiva in termini di servizio pubblico (salvo poi disciplinare nell’articolo seguente la società concessionaria del “servizio pubblico radiotelevisivo”, elemento, questo, di forte ambiguità), dall’altro ha introdotto una disciplina antitrust la quale si è però limitata a fotografare l’assetto esistente (ossia quello che è stato definito duopolio RAI-Mediaset).
Proprio la mancata positivizzazione del ruolo del servizio pubblico e l’assenza di una adeguata normativa antitrust hanno, a parere del Prof. Caretti, determinato la trasformazione di quello che sarebbe dovuto essere un “concorso” tra pubblico e privato in un “concorso-concorrenza”.
Concludendo, il prof. Caretti ha affermato che oggi le sorti del servizio pubblico radiotelevisivo sono legate a due condizioni: da un lato, la realizzazione di un progressivo affrancamento del concessionario del servizio pubblico dalla risorsa pubblicitaria (così da sottrarre il servizio pubblico alla logica concorrenziale nella quale oggi si trova), e, dall’altro, il ripensamento delle regole attuali in materia di nomina del Consiglio di amministrazione della Rai.

Il prof. F. Merloni sottolinea il problema, ancora attuale, di creare un sistema radiotelevisivo in cui possano coesistere attività di contenuto commerciale e attività di interesse pubblico. Si interroga sulla possibilità di imporre degli obblighi di servizio pubblico a dei soggetti in concorrenza tra loro, nel rispetto di precise regole e limiti di concentrazione. Occorre vedere se è possibile far svolgere a tutti i soggetti privati delle attività di interesse pubblico. Così, ad esempio, esiste una notevole quantità di informazione culturale che potrebbe essere imposta in termini di attività di interesse generale alle varie emittenti pubbliche e private. Ma, nel sistema attuale, il mercato concorrenziale non è in grado, da solo, di assicurarla. Sul versante del soggetto concessionario del servizio pubblico radiotelevisivo la qualità del servizio stesso risulta viziata da alcuni elementi che vanno corretti attraverso il finanziamento pubblico esclusivo, con il totale affrancamento della RAI dalla pubblicità, e con la sottrazione della gestione delle attività di interesse generale al controllo politico. Su quest’ultimo punto si prospetta una scelta dei membri degli organi della RAI da parte della Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che deve però essere totalmente indipendente. Ancora si auspica un’indipendenza piena degli organi di indirizzo della RAI e dei funzionari interni attraverso un reclutamento basato su regole certe e rigide di selezione. In presenza di un servizio pubblico radiotelevisivo espletato in regime di riserva di attività e corretto attraverso i meccanismi visti, il problema della natura della concessionaria del servizio non appare fondamentale. Attività di questo genere potrebbero essere svolte da un ente pubblico economico o da un soggetto privato affidatario diretto (che dovremmo qualificare a fini comunitari organismo di interesse pubblico). In quest’ottica una privatizzazione della RAI non è indispensabile.

Il prof. G. Gardini sostiene che il servizio pubblico radiotelevisivo deve continuare ad esistere per la sua capacità di dare voce alle diverse correnti culturali, in tal modo garantendo il pluralismo interno.  Tuttavia, egli evidenzia come non  si possa imporre ai privati l’obbligo di garantire tale pluralismo, per via dell’articolo 21 della Costituzione, (con la sola eccezione della comunicazione politica) e, sotto il profilo tecnico, per la flessibilità del palinsesto che potrebbe facilmente consentire di aggirare tale obbligo. (Si pensi al fenomeno dei cosiddetti mini-spot, vere e proprie pause “artificiali” create dalle reti private.)

Il prof. D. Sorace pone in evidenza come l’intervento legislativo debba concentrarsi su tre binari: in primo luogo, occorre porre limiti di concentrazione antitrust, sufficienti, ad avviso dello stesso, a garantire il pluralismo culturale (di contrario avviso Caretti per il quale il problema sarebbe invece rappresentato dai contenuti.); successivamente si devono prevedere obblighi di facere (servizio universale) ed infine concentrarsi sull’aspetto organizzativo (in tal senso egli fa riferimento alle ipotesi di fondazioni).

La prof.ssa L. Torchia insiste sulla necessità di individuare il fondamento in base al quale obbligare i privati a svolgere servizio pubblico radiotelevisivo.

Il prof. G. Di Gaspare ricorda come la televisione criptata, a livello teorico, consenta di configurare un mercato. Più difficile è la questione relativa alla televisione in chiaro perché qui manca in pratica un acquirente. Occorre allora individuare meccanismi che incidano sulla domanda di pubblicità oltre a modificare la struttura della domanda pubblicitaria, imponendo magari vincoli.

Il prof. M. Cammelli ricorda come sulla RAI continuino a scontrarsi due concetti: il primo postula un modello cosiddetto di prima Repubblica in cui si dà voce a tutto l’arco costituzionale delle forze, tranne ad un’area di destra.  Nel secondo si parla di informazione corretta come informazione di qualità e in termini di servizio reso alla collettività; in tal senso, il servizio pubblico è insostituibile.

Il prof. M. Dugato ricorda come me per garantire il pluralismo culturale sia necessario guardare ai contenuti e che questi devono essere predefiniti nell’ambito di un contratto di servizio.

Il prof. G. Arena infine propone di applicare al diritto all’informazione lo schema che l’articolo 32 della Costituzione delinea per la salute, configurandola quale diritto individuale ed interesse della collettività. Ciò consentirebbe anche di stabilire una importante connessione con l’articolo 118, ultimo comma, della Costituzione.

Chiara Aquili, Davide Della Penna e Piero Gambale