La sentenza n. 48/03 fornisce anche il pretesto per affrontare, sia pure in modo non diretto, il problema del rapporto tra enti locali e regioni speciali nel contesto del nuovo Titolo V, ponendo il quesito se, ed eventualmente in che termini, tale rapporto sia mutato alla luce del nuovo quadro costituzionale, ovvero sia rimasto sostanzialmente invariato.
Con la pronuncia in esame, la Corte risolve, in realtà, una questione più generale, avente ad oggetto alcune disposizioni della legge della Regione Sardegna n. 10/02, recante “Adempimenti conseguenti alla istituzione di nuove province, norme sugli amministratori locali e modifiche alla legge regionale 4/97”; in particolare, il sindacato di costituzionalità si appunta sull’art. 1, comma 2, che prevede che l’elezione degli organi delle nuove province si svolga nell’ordinario turno elettorale amministrativo del 2003 e che, di conseguenza, scada di diritto anche il mandato degli organi delle province preesistenti, al cui rinnovo si procederà nella stessa tornata elettorale.
Secondo la difesa erariale, la disciplina della durata degli organi elettivi provinciali non rientra nella competenza primaria della Regione in materia di “ordinamento degli enti locali”, di cui all’art. 3 dello statuto speciale sardo, ma riguarda, viceversa, la materia della “legislazione elettorale di comuni, province e città metropolitane”, ai sensi della lettera p dell’art. 117, comma 2: la norma impugnata, pertanto, eccede la competenza legislativa regionale, poiché disciplina un ambito di esclusiva pertinenza statale. A conferma di questa tesi, il ricorrente adduce l’ulteriore motivazione per cui la regolamentazione della materia elettorale degli enti locali è organicamente contenuta nella normativa statale ed, in particolare, nel Testo unico sull’ordinamento degli enti locali, che disciplina lo scioglimento dei consigli provinciali in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.
Le censure statali vengono sistematicamente demolite dalla Corte. L’argomento in forza del quale la disciplina elettorale di comuni e province esula dalla materia dell’ordinamento degli enti locali, è smentito dalla legislazione regionale siciliana, dalle norme di attuazione dello statuto del Friuli Venezia Giulia, nonché dalla stessa giurisprudenza costituzionale. Il richiamo all’art. 117, comma 2, lett. p, è irrilevante poiché, ai sensi dell’art. 10 della legge cost. 3/01, le norme del nuovo Titolo V si applicano alle regioni speciali solo “per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”. Altrettanto irrilevante è il riferimento alla legislazione statale uniforme in tema di scioglimento dei consigli provinciali, poiché la competenza primaria regionale può ben esercitarsi, limitatamente al proprio territorio, anche in deroga alle norme statali.
Ciò nondimeno, la Corte riconosce la fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, ma ne circoscrive l’ambito di sindacabilità ai soli limiti che lo statuto speciale pone all’esercizio della competenza legislativa primaria, in particolare al limite dell’armonia con la Costituzione e con i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica. Tra questi principi, viene in rilievo quello per cui la durata degli organi elettivi degli enti locali, non è liberamente disponibile da parte della Regione, stante il nesso indissolubile tra la naturale scadenza del mandato elettorale e la stessa struttura rappresentativa degli enti locali. Peraltro, la Corte riconosce la sussistenza di circostanze che giustificano una scadenza anticipata del mandato, ma l’eccezionalità di tali ipotesi esige che si tratti di fattispecie previste dal legislatore preventivamente ed in via generale.
La Regione Sardegna, viceversa, nell’esercizio della sua competenza primaria in materia di ordinamento degli enti locali, non ha mai provveduto a disciplinare, in via generale, i casi di scioglimento anticipato dei consigli provinciali, anzi, nel caso di specie, è intervenuta soltanto su uno specifico aspetto della materia, quello dell’elezione, così attribuendo alla norma censurata la portata di una legge provvedimento, cioè di una modalità di intervento completamente sganciata da presupposti legislativamente prestabiliti. Infatti, neanche a livello di legislazione statale, pure applicabile in forza del richiamo dell’art. 57 dello statuto, è prevista alcuna ipotesi di scioglimento anticipato dei consigli provinciali a seguito di variazioni territoriali.
L’intervento regionale appare così isolato, sporadico, privo di un’organica finalità regolatoria e si traduce in una disciplina del tutto avulsa dal contesto dei principi costituzionali che presidiano la materia, con ciò esorbitando dai limiti previsti dall’art. 3 dello statuto e risultando, pertanto, costituzionalmente illegittimo.
Se la decisione della Corte si rivela certamente condivisibile nel merito, qualche dubbio si vuole invece sollevare in questa sede sull’apparente solerzia, e per certi aspetti sulla disinvoltura, con cui il giudice delle leggi sembra liquidare l’argomento del ricorrente fondato sull’applicazione del nuovo Titolo V alle regioni speciali. Per la verità, le stesse obiezioni sollevate dalla difesa erariale nei confronti della norma incriminata apparivano, sin dall’inizio, piuttosto deboli e facile preda delle controdeduzioni della Corte: il riferimento alla legislazione statale uniforme in tema di scioglimento dei consigli provinciali, non poteva resistere di fronte all’evidente constatazione della forza derogatoria della disciplina regionale, nelle materie di sua competenza esclusiva; la censura relativa all’estraneità della disciplina elettorale di comuni e province dalla materia dell’ordinamento degli enti locali, prestava facilmente il fianco alle indicazioni, tutte di senso contrario, provenienti sia dalla legislazione, regionale e d’attuazione, che dalla giurisprudenza della Corte.
Quest’ultimo argomento, del resto, altro non è che la seconda faccia della medaglia rappresentata dall’obiezione statale per cui, in riferimento alla durata degli organi provinciali, si verterebbe nell’ambito di applicazione dell’art. 117, comma 2, lett. p della Costituzione, e non dell’art. 3 dello statuto regionale, con il risultato di far derivare il vizio di costituzionalità dall’invasione di una competenza esclusiva statale.
Al contrario, la Corte arriva alla sua declaratoria di incostituzionalità attraverso un iter argomentativo dal quale, per prima cosa, viene espunto proprio il richiamo alla lettera p dell’art. 117. Tale preclusione suscita perplessità non tanto per la ratio che la sorregge – quella, pacifica, della pertinenza della materia elettorale degli enti locali al regime del loro ordinamento – quanto per le conseguenze che ne derivano: il mancato rilievo di altre norme del Titolo V, che disegnano una posizione costituzionale del tutto nuova per gli enti locali della Repubblica, e che avrebbero dovuto esser prese in considerazione, quantomeno ai fini di un bilanciamento con gli altri principi costituzionali rilevanti, e segnatamente col principio di specialità, che la Corte sembra invece voler tutelare in maniera tutt’affatto peculiare.
Dalla lettura della sentenza, insomma, si ha quasi l’impressione che la Corte voglia subito sgombrare il campo dalla specifica questione delle interferenze che il nuovo Titolo V può esercitare sotto il profilo dei rapporti tra enti locali e regioni, anche speciali. Questa conclusione sembra avvalorata non solo dal fatto che il riferimento all’applicazione dell’art. 117 è il primo ad essere “congedato” dalla Corte, ma anche dalla giustificazione che viene addotta a sostegno di tale argomentazione: quella per cui “il nuovo testo dell’art. 117 non fa che ripercorrere, in forme nuove, le tracce del sistema costituzionale preesistente” in cui la competenza primaria delle regioni speciali in materia di ordinamento degli enti locali “non è intaccata dalla riforma del Titolo V, ma sopravvive quantomeno negli stessi limiti definiti dagli statuti”.
Il “grimaldello” che consente alla sequenza interpretativa della Corte un simile esito, è rappresentato dall’art. 10 della legge cost. 3/01, ai sensi del quale le norme del nuovo Titolo V si applicano anche alle regioni speciali e alle province autonome, nella misura in cui prevedano forme di autonomia più ampie di quelle già attribuite. Interpretato in senso stretto, l’art. 10 diventa una clausola di salvaguardia della specialità regionale talmente rigida ed ingessata, da renderla impermeabile a qualunque positiva contaminazione, pur derivante dalle altre innovazioni introdotte dalla riforma. Il fortino degli statuti speciali è così preservato dagli attacchi indesiderati delle nuove disposizioni costituzionali, restando esposto al solo pericolo che le regioni speciali declinino la loro specialità in modo disarmonico con i previgenti principi costituzionali.
Fuor di metafora, non si può non cogliere, in questa ricostruzione, il rischio che la riforma del Titolo V resti una riforma dimezzata, “ad effettività limitata”, i cui effetti, cioè, siano destinati ad arrestarsi dinnanzi al muro invalicabile della specialità regionale. Se è pur vero che l’esistenza degli ordinamenti differenziati non è stata affatto messa in discussione, anzi può dirsi rafforzata dal fatto che il legislatore di revisione, per la prima volta nella storia dei rapporti tra Stato e regioni speciali, utilizzi la clausola dell’applicazione, a queste regioni, delle sole “forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”, non può neppure non tenersi nel dovuto conto il ruolo istituzionale completamente inedito, e sensibilmente rafforzato, che la riforma ha ritagliato per tutti gli enti locali della Repubblica, siano essi ricompresi o meno all’interno delle regioni speciali.
Sotto questo profilo, la previsione dell’art. 114 è principio di portata generale dal quale non è possibile prescindere: la qualificazione di comuni, province e città metropolitane come elementi fondativi della Repubblica, la loro equiordinazione rispetto allo Stato e alle regioni, la loro configurazione come enti autonomi nei soli limiti fissati dalla Costituzione, e ancora il riconoscimento di un’esplicita potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, il venir meno dei controlli preventivi di legittimità sui loro atti, sono i fili rossi attraverso i quali ricostruire la filosofia complessiva del nuovo Titolo V, nonché i punti cardinali lungo i quali orientare un’interpretazione dell’art. 10 che abbia come destinatari non solo le regioni, ma il sistema degli enti territoriali nel suo complesso.
Proprio questa chiave di lettura, tuttavia, va incontro a difficoltà che sono essenzialmente di ordine lessicale: stando alla lettera dell’art.10, infatti, “le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle regioni speciali…” e non nelle regioni speciali, senza quindi che possa ritenersi praticabile, almeno prima facie, un’estensione dell’ambito soggettivo della norma. Se così fosse, dovrebbe in definitiva concludersi che il nuovo Titolo V, mentre da un lato ha esteso le garanzie per le regioni speciali, dall’altro le ha ridotte per gli enti locali di quelle regioni, che finiscono per essere succubi di propensioni regionali troppo spesso volte a dirigere l’autonomia dall’alto, quando non addirittura a comprimerla, come nel caso della norma impugnata.
Agli enti locali delle regioni speciali va invece riconosciuta, come minimo, la stessa condizione di autonomia prevista per gli altri enti locali della Repubblica, evitando che la loro collocazione geografica si traduca in una menomazione delle prerogative costituzionalmente garantite loro e li esponga ai rischi derivanti dall’attitudine, ampiamente manifestata, a concepire la specialità in un’ottica “regionocentrica”. Il problema esiste e sarà, peraltro, molto presto all’ordine del giorno del dibattito parlamentare sul ddl La Loggia, allorché verrà presentato e discusso l’emendamento unitario delle associazioni degli enti locali che riguarda proprio l’interpretazione dell’art. 10 nel senso sopra indicato .
Nel frattempo, anche in considerazione dell’esito tutt’altro che scontato di questa iniziativa parlamentare, sembra comunque necessario individuare un’ulteriore chiave di volta, che consenta di spianare la strada, anche all’interno delle regioni speciali, al riconoscimento della nuova posizione costituzionale degli enti locali. A tal fine, attesa la portata dell’art.114 come principio generale dell’ordinamento, si potrebbe ritenere che esso, sulla base di quanto previsto dai singoli statuti speciali, entri a far parte del genus dei “principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica”, e si traduca così in limite all’esercizio della competenza legislativa piena della regione. In questo modo, si creerebbe un varco che consentirebbe alle disposizioni del nuovo Titolo V di spiegare i loro effetti innovativi sugli ordinamenti differenziati, non solo quando esse si traducano in forme più ampie di autonomia, ma anche quando assurgano a principi generali dell’ordinamento, cui la legislazione regionale deve armonizzarsi.
Se quest’impostazione dovesse consolidarsi e prender piede, essa rappresenterebbe una soluzione obbligata, e forse unica, per filtrare la riforma del Titolo V all’interno della specialità, malgrado la strettoia dell’art. 10; se, al contrario, dovesse essere ritenuta impraticabile, ben poco cambierebbe nel rapporto tra enti locali e regioni speciali, così come si è venuto a configurare a partire dalla legge cost. 2/93, poiché le potenzialità della riforma sarebbero di gran lunga attenuate e circoscritte, al punto da far dubitare, paradossalmente, che una revisione costituzionale sia intervenuta ed abbia spiegato appieno i suoi effetti.
Enti locali e regioni speciali:un rapporto immutato’Nota a Corte Cost. n. 48/03
08.05.2003