La finanza locale nel nuovo modello costituzionale – Resoconto convegno

28.04.2003

La finanza locale nel nuovo modello costituzionale

Caltagirone, 12 aprile 2003

Si è svolto a Caltagirone, nella giornata di sabato 12 aprile 2003, organizzato dall’Istituto di sociologia “L. Sturzo” e dall’AnciSicilia, un importante convegno su “La finanza locale nel nuovo modello costituzionale”. I lavori, cui hanno partecipato anche alcuni componenti della neo-istituita “Alta Commissione”, hanno evidenziato in particolare l’urgenza dell’attuazione dell’art. 119 quale condizione indispensabile per rendere effettiva la riforma del Titolo V, II parte, della Costituzione.
Per darne una prima sommaria notizia (è prevista la pubblicazione degli Atti, completi di tutte le relazioni, per i tipi della editrice Giappichelli entro il mese di maggio) si pubblicano (a cura della Segreteria del Convegno e non rivisti dagli Autori) gli abstracts di tutti gli interventi.

FRANCESCO PARISI (Istituto di Sociologia “Luigi Sturzo”)

La finanza locale segna un passaggio fondamentale nella costruzione di un modello di Stato che sia concretamente costruito sui principi del federalismo fiscale. Ma federalismo fiscale non può che significare anche perequazione. In tal senso dispone già l’articolo 119 della Costituzione. In questa direzione si muovono anche le nostre idee di sempre. Il federalismo solidale, infatti, non separa le aree forti da quelle deboli, ma vuole integrare tutte le diversità e le originalità del nostro Paese in un disegno unitario e coerente di crescita complessiva nel contesto economico europeo e internazionale. La convinta riaffermazione del principio di sussidiarietà, da sempre alla base della dottrina sociale della Chiesa e del pensiero sturziano, ci conduce poi ad affermare la necessità di una perequazione verticale: spetta al governo centrale l’intervento perequativo per i territori con  minore capacità fiscale per abitante. Un federalismo orizzontale, ossia con gli enti più ricchi nella veste di “tutori” degli enti più poveri, condurrebbe a conseguenze aberranti sottraendo di fatto a questi ultimi funzioni che loro spettano sulla base del principio di sussidiarietà. Principio di sussidiarietà in base al quale si deve ridisegnare l’apparato istituzionale del nostro continente: dall’Ente locale all’Europa, in una multilevel governance che sia effettiva garanzia di pace, di ordinata convivenza, di efficiente ed efficace amministrazione.

ANDREA PIRAINO (Segretario Generale AnciSicilia)

Rileva come il nuovo testo dell’art. 119 incida radicalmente sulla nozione di autonomia finanziaria, che, per la prima volta, viene espressamente riferita anche agli Enti locali. La formulazione letterale della norma, suffragata da ragioni di interpretazione sistematica che passano attraverso gli artt. 114 e 117, e, più in generale, attraverso la considerazione del senso complessivo della revisione del Titolo V Cost., inducono a ritenere che Comuni, Province e Città metropolitane possano decidere, al pari delle Regioni, tributi locali, fissarne le aliquote ed individuarne i soggetti passivi senza dovere riferirsi necessariamente alla legge statale o regionale. Né a questo fine potrebbe costituire ostacolo  la riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost., da interpretare alla luce di tutto il nuovo Titolo V. Il sistema delineato dal testo costituzionale affianca, poi, al potenziamento della capacità fiscale autonoma dei livelli istituzionali considerati la compartecipazione al gettito dei tributi erariali e la perequazione, entrambi strumenti, che, pur nella diversità dei meccanismi di funzionamento, tendono a garantire il finanziamento integrale delle funzioni attribuite ai diversi Enti, nonché il soddisfacimento dei bisogni che connotano la sostanza stessa della cittadinanza. A chiusura del modello così configurato il comma V dell’art. 119 prevede risorse aggiuntive ed interventi speciali in favore degli Enti svantaggiati, coniugando in questo modo le spinte competitive con le istanze di coesione, e, dunque, dando al federalismo fiscale un’impronta irrinunciabile di solidarietà. Si tratta di un sistema che appare profondamente mutato rispetto a quello ricavabile dal vecchio testo costituzionale. Da qui  le forti difficoltà manifestate dallo Stato e dalle Regioni a darvi attuazione. Emblematico il caso della Sicilia che, in nome della propria specialità, continua ad affermare la vigenza, nel proprio ordinamento, degli artt. 36-38 dello Statuto, rifiutando di applicare l’art. 119 Cost., che, invece appare essere una condizione essenziale per dare vita ad un ordinamento istituzionale autenticamente autonomista.

EMILIO GIARDINA (Università degli Studi di Catania)

La relazione ha preso le mosse dall’art.119 Cost. esaminandolo sotto due differenti aspetti: le attività svolte ed il finanziamento. Sotto il primo profilo si evidenzia che con la riforma degli artt. 117 , 118 e 119 Cost. si  rafforza indubbiamente il ruolo degli Enti locali ponendoli sullo stesso livello delle Regioni e dello Stato e garantendoli dai rischi di accentramento. Il richiamo al pari ordinamento è da ritenersi strettamente collegato al principio di sussidiarietà ed agli altri  principi contenuti nel nuovo testo del titolo V° la cui applicazione, però, pone notevoli problemi: dalla distinzione tra funzioni fondamentali (art.117 cost.), proprie e conferite (art.118 cost.) degli Enti locali, sulla cui definizione non esiste un’interpretazione univoca, alla difficoltà derivante dall’assenza di una previsione costituzionale inerente le autonomie funzionali. Il secondo aspetto, ossia quello del finanziamento, implica che la costruzione del nuovo sistema di finanza locale parta dal nuovo art. 119 Cost. ma si colleghi alle altre  previsioni  costituzionali. In base a ciò  il prof. Giardina non ritiene assolutamente superabile il limite di cui all’art. 23 Cost.. Conseguentemente i Comuni non possono istituire tributi propri intervenendo sugli elementi strutturali dell’imposta. In ordine poi alla disciplina dei tributi locali si evidenzia che vertendosi in tema di potestà legislativa concorrente è necessario attuare un sistema di coordinamento tributario ripartito tra Regioni e  Stato cui spetterebbe la determinazione dei principi fondamentali (il prof. Giardina preferisce parlare di “schemi”).

FEDERICO PICA (Università degli Studi di Napoli)

Prima di affrontare le problematiche connesse alle “compartecipazioni nella riforma del Titolo V della Costituzione”, il prof. Pica definisce l’autonomia finanziaria locale come un “valore che deve essere coniugato con altri valori”. Successivamente illustra i principi costituzionali legati all’autogoverno, alla sussidiarietà ed alla responsabilità nonché al concorso dello Stato al fabbisogno finanziario degli altri enti concentrando la sua analisi sull’articolo 119 della Costituzione, al fine di evidenziare la necessità di rendere operativo il principio dell’adeguatezza delle risorse rispetto al fabbisogno finanziario che risulta dall’esercizio delle funzioni attribuite a ciascun Ente territoriale. Secondo il prof. Pica nel testo dell’articolo 119 della Costituzione la parola chiave è  “minore” contenuta nel III comma. La “minore capacità fiscale”, infatti, riferita ai territori per i quali deve agire il fondo perequativo, significa “minore rispetto a quanto sarebbe necessario per assicurare la copertura del fabbisogno” da parte di  ciascun singolo ente e quindi è su questo parametro che deve essere commisurata la compartecipazione.

SALVATORE SAMMARTINO (Università degli Studi di Palermo)

Si è soffermato sull’interpretazione dell’art. 119, co. 2°, della Costituzione che attribuisce agli enti locali il potere di stabilire e applicare tributi propri. La norma è stata letta alla luce delle altre norme costituzionali, sia nel testo in atto vigente a seguito della legge costituzionale n. 3 del 18/ 10/ 2001, sia nel testo di cui al disegno costituzionale recentemente approvato dal Consiglio dei Ministri.     L’oratore ha concluso affermando che gli Enti locali minori, posti ai sensi dell’articolo 114 Cost. sullo stesso piano delle Regioni e dello Stato ancorché privi di potestà legislativa, ma dotati di potestà normativa, incontrano tre soli limiti: l’ordinamento comunitario, la Costituzione e i principi di coordinamento del sistema tributario, approvati, questi ultimi, con legge dello Stato. Non è di ostacolo l’articolo 23 della Costituzione, tuttora in vigore, atteso che esso, correttamente interpretato alla luce della modifica delle altre norme della stessa Carta fondamentale, va inteso nel senso che è sufficiente che lo Stato, con la legge con cui fissa i principi di coordinamento, indichi in positivo o consenta di identificare in negativo i “settori” impositivi, lasciando agli Enti locali il potere di fissarne interamente la disciplina.

GAETANO LICCARDO (Università degli Studi di Napoli)

Considera positivamente le innovazioni previste dal disegno di legge di ulteriore riforma del Titolo V Cost.: esso, infatti, istituisce la potestà legislativa esclusiva delle Regioni, reintroducendo, al contempo, la garanzia dell’interesse nazionale, posto, assieme alle norme generali affidate allo Stato ex art. 117, comma 2, a presidio dell’unità repubblicana. Il prof. Liccardo si sofferma, inoltre, sul riferimento al territorio contenuto nell’art. 119: esso ha una duplice valenza poiché implica il criterio del locus rei sitae, se riferito all’immobile, o della localizzazione della materia imponibile, se riferito all’attività di partecipazione alla produzione del reddito; non va inteso, invece, con riguardo alla presenza fisica (residenza o domicilio) dei soggetti. La incertezza sui caratteri della perequazione deriva dal fatto che l’art. 119 parla di fondo perequativo “senza vincolo di destinazione” e “destinato ai territori con minore capacità fiscale per abitante”, usando due locuzioni irte di problemi interpretativi. Questioni non meno rilevanti pongono, poi, gli artt. 117, comma 2, lett. m) e 120 Cost. quando parlano di “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, poiché non è chiaro quale debba essere il parametro di riferimento per la determinazione di tali livelli. Se pare indubbio che si sia in presenza di un frazionismo del concetto di sistema tributario, che in passato era concepito come sistema monolitico, statale, resta da chiarire se il nuovo testo costituzionale intenda prefigurare un sistema tributario decentrato o più sistemi concorrenti, nell’ottica, comunque, di quelle istanze di solidarietà senza le quali il federalismo fiscale non può che comportare esiti negativi per il Paese.

CARLO BURATTI (Università degli Studi di Padova)

Si sofferma sui problemi interpretativi dei commi 3 e 5 dell’art. 119 Cost., che prevedono, rispettivamente, l’istituzione di un Fondo perequativo e risorse aggiuntive ed interventi speciali dello Stato a favore di specifici Comuni, Città metropolitane, Province e Regioni per far fronte ad esigenze particolari. Per elucidare la portata normativa delle suddette disposizioni è necessario chiarire almeno tre aspetti: a) il concetto di territorio e il ruolo delle Regioni; b) l’esatto significato dell’espressione “perequazione della capacità fiscale per abitante” e lo spazio attribuito alla perequazione rispetto ai fabbisogni di spesa; c) il problema della perequazione finanziaria prefigurata dal legislatore costituzionale: se sia di tipo orizzontale o verticale. Circa il primo punto, l’uso del termine “territori” nel terzo comma dell’art. 119 ha indotto taluni a ritenere che la perequazione non dovrebbe tenere conto delle condizioni di un singolo Comune, ma di un’area territoriale più vasta; il prof. Buratti ritiene però improponibile la tesi per cui il processo di perequazione debba intendersi affidato alle Regioni. Circa le modalità della perequazione, il prof. Buratti è del parere che, pur dando la nuova formulazione dell’art. 119, al comma 3, maggiore risalto alla perequazione della capacità fiscale, il criterio del fabbisogno di spesa è presente nel riferimento al finanziamento delle funzioni attribuite ai livelli istituzionali (comma 4), nonché in quello alla garanzia dell’effettivo esercizio dei diritti della persona (comma 5), oltre che nella lett. m) dell’art. 117 comma 2 sui livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Ciò porta ad affermare che sarebbe compatibile con il dettato costituzionale una perequazione della capacità fiscale per abitante ponderata con i fabbisogni standardizzati della spesa (calcolati attraverso analisi statistiche). Infine, il modello di perequazione realizzabile ai sensi dell’art. 119, tale da conciliare la riserva di legge statale con le esigenze di partecipazione degli enti interessati alle relative decisioni, è un ibrido di perequazione verticale e orizzontale: nella pratica essa dovrebbe operare attraverso un fondo, istituito con legge dello Stato, in cui confluiscano le eccedenze rispetto alla media di capacità fiscale per abitante, da stornare a favore degli enti con deficit di risorse proprie. L’art. 119 prevede poi, al comma 5, interventi aggiuntivi a favore delle aree svantaggiate destinati a far fronte ad esigenze straordinarie o imprevedibili, per cui si ritiene debbano scomparire gli attuali fondi per il finanziamento della spesa corrente e in conto capitale degli Enti locali.

GIANCARLO POLA (Università degli Studi di Ferrara)

Sostiene che la nuova formulazione del Titolo V della Costituzione segna una netta opzione per la filosofia propria degli schemi perequativi vigenti in alcuni Stati federali e cioè quella della pura capacità fiscale per abitante. I punti di snodo per una corretta interpretazione della nuova normativa sarebbero costituiti dai due termini: “territorio” e “capacità fiscale”. Circa il primo termine, sottolinea che solo se il concetto “territorio” venisse fatto coincidere con quello dei Comuni questi vedrebbero automaticamente garantito il diritto al prelievo dal Fondo delle risorse per svolgere le proprie normali funzioni. Una più ampia dimensione territoriale di riferimento renderebbe più facili mimetizzazioni di deficit di risorse assai vistosi. Spetterebbe comunque allo Stato, nell’ambito delle sue prerogative di legislatore esclusivo in materia (cfr. art. 117, co. 2°, lett. e ), dettare le norme attuative della perequazione in veste di  primus inter pares. Con riferimento alla perequazione legata alla capacità fiscale, questa ben potrebbe sintetizzarsi con la perequazione “legata ai fabbisogni” la cui attenzione si concentra anziché sulla congruità delle dotazioni fiscali, a fronte di una imprecisa necessità di spesa, sulla appropriata quantificazione dei fabbisogni purchè oggettivi (approccio, quest’ultimo, derivante, con riguardo alla finanza locale, dalla normativa post legge 142/1990, e, con riferimento a quella regionale, dalle soluzioni previste dal D. Lgs. 56/2000).
In ordine alla disposizione di cui all’art. 117, co. 2°, lett. m, della Costituzione riformata, essa determinerebbe un obbligo per Comuni e Province di standardizzazione di un’offerta minima di taluni servizi e la nascita di una specie di imposizione di spesa minima pro-capite per il complesso dei suddetti servizi.

LUCIO D’UBALDO (Consorzio ANCI-CNC per la fiscalità locale)

Il tema della perequazione torna a rappresentare il vero dilemma della finanza locale. Non  tanto perché vi siano contrarietà in via di principio, essendo alta e diffusa la convinzione circa la necessità che risorse aggiuntive vengano utilizzate per colmare i dislivelli nella erogazione dei pubblici servizi; quanto perché, a fronte di questa sostanziale modernità di pensiero, sul piano concreto e in termini di opzioni politiche non si riesce a stabilire quali e dove siano reperibili queste presunte risorse aggiuntive. Le condizioni di finanza pubblica sono ancora talmente gravi che risulta implausibile ogni esercizio diretto a costruire modalità di riparto di risorse che, purtroppo, o non ci sono o sono assai modeste. Il rischio, per giunta, è che al vaniloquio – tecnicamente parlando – sulla perequazione corrisponda viceversa un uso dell’autonomia impositiva come irrefrenabile processo di divaricazione tra aree ricche e aree povere del Paese. In questa cornice, non solo stenta a dipanarsi una politica effettiva della perequazione, ma in assenza di una razionale procedura di governo della fiscalità territoriale si accrescono le difficoltà in ordine alla applicazione dei principi e valori di coesione nazionale a cui la Carta Costituzionale fa esplicito richiamo. Fare passi avanti è necessario, e quindi auspicabile, ma il dibattito non può ridursi a formule ed esortazioni, pena il degrado di ciò che esiste in termini di politiche di perequazione.

GIUSEPPE VEGAS (Sottosegretario Ministero dell’ Economia e delle Finanze)

Ha messo in evidenza quelle che saranno le modifiche del Titolo V della Costituzione apportate dal recente disegno di legge del Consiglio dei Ministri. Ridisegnando di fatto gli ambiti di competenza fra Stato e Regioni, l’approvazione di tali modifiche  comporterà la redistribuzione delle funzioni attuando il dettato costituzionale dell’art. 119. Solo considerando gli effetti di tali modifiche, allora, avrà senso affrontare il nodo centrale del valore del fondo perequativo in quanto solo la definizione puntuale delle funzioni può consentire di quantificare i costi delle stesse e attuare un vero federalismo fiscale e una conseguente efficace politica perequativa.

GIUSEPPE SOBBRIO (Università degli Studi di Messina)

Osserva, concludendo, che, in realtà, il federalismo istituzionale non sempre si accompagna al federalismo fiscale. Si può parlare di federalismo fiscale, in senso tecnico, solo se i livelli subcentrali sono indipendenti, cioè fissano liberamente le loro imposte e le loro spese su basi imponibili proprie, lasciando al governo centrale l’accertamento e la riscossione dei tributi che hanno basi imponibili più ampie rispetto ai confini locali; al contrario, quando agli enti locali è concesso un grado più o meno ampio di autonomia impositiva su basi imponibili comuni con il governo nazionale o su basi imponibili distinte, non si può parlare di federalismo ma di “relazioni fiscali intergovernative”. La dimensione politica e quella economica risultano comunque fortemente correlate: in mancanza di decentramento fiscale, il decentramento politico potrà esistere solo a livello formale, poiché la dipendenza nelle scelte di spesa pubblica induce alla deresponsabilizzazione dei governi locali che tanti guasti ha prodotto in Italia. Il federalismo fiscale o i rapporti fiscali intergovernativi rischiano, comunque, di svuotarsi di ogni reale contenuto se non correlati con un accettabile livello di partecipazione locale alla scelta dei governanti. La soluzione a questi problemi passa, allora, attraverso il rafforzamento del grado di partecipazione dei cittadini, cioè attraverso l’incremento delle forme di potere politico diretto, tanto nella scelta dei candidati nei partiti (un sistema di primarie), quanto nelle scelte di bilancio, in modo da aumentare la responsabilità fiscale dei cittadini. Ciò può essere fatto distinguendo le basi imponibili fra Regioni, Province, Comuni in modo che i cittadini abbiano più consapevolezza del costo delle scelte locali; prevedendo il referendum sulle spese locali che superino una data percentuale del bilancio locale (come accade in Svizzera e in alcuni States degli USA), o, quantomeno, stabilendo che le spese di più rilevante importo siano approvate con maggioranze qualificate; ancora, approvando “imposte di scopo per investimenti pubblici”. Un sistema, quale il nostro, fondato sulle partecipazioni al gettito e su sovrimposte, crea una dipendenza, pure indiretta, dal livello centrale di governo; esso integra, pertanto, un qualche modello di relazioni fiscali intergovernative, che potrebbe evolversi in vero federalismo fiscale solo arricchendo nei modi anziddetti la partecipazione politica dei “cittadini locali”.

Segreteria del Convegno